Maurizio Polverari nasce a Senigallia nel 1943. Si laurea in giurisprudenza a Roma con una borsa di studio. Frequenta la Cappella universitaria dove conosce il padre gesuita Pio Parisi cui sarà legato da profonda amicizia.
Dai primi anni ‘70 lavora all’Ufficio studi della Cisl. Affianca Franco Marini nella gestione delle 150 ore per il diritto allo studio.
Fino al 1978 collabora al settore Scuola e Mercato del lavoro diretto da Eraldo Crea.
Dal 1979 al 1985 è, per volontà di Pierre Carniti, vicedirettore responsabile di Conquiste del lavoro. Dopo il Congresso del 1985 diventa responsabile dell’Ufficio studi.
Nel 1991 Franco Marini, Ministro del Lavoro, lo chiama a svolgere il ruolo di dirigente generale del ministero. Muore in ospedale il venerdì santo del 1994. Gli aspetti della personalità di Polverari sono descritti al link Chi è Maurizio Polverari .[1]
(25 ottobre 1982)
- – Lavoro da sempre, all’incirca. Anche quando non lavoravo, “lavoravo” lo stesso. Lo studio? Non principalmente. Anche se esso ha occupato in certi periodi uno spazio rilevante, non mi pare davvero d’aver mai esagerato sui libri di scuola o di università.
Provo, oggi, a rimproverarmi questa relativa trascuratezza e, tuttavia, non sono affatto sicuro di aver fatto male nel limitare certe tenacissime applicazioni, così diffuse tra alcuni dei compagni di quell’età. I quali, così, ne hanno saputo sempre più di me su questa o quella materia e in aggiunta, quasi sempre, il loro vantaggio veniva sanzionato da voti migliori dei miei.
La verità è forse che lo studio – sul quale pure ragionavo come su una fondamentale attività di preparazione per l’ancora indeterminato ma certamente “serio” lavoro futuro – mi è passato addosso, come una parentesi necessaria e doverosa, come un complemento, economizzato, assorbito per quanto necessario, sofferto talvolta. Complemento e quindi “parte” di un insieme di altre piccole e grandi faccende, progetti (tanti!) e iniziative, riunioni, letture e fogli in ciclostile che erano il mio “lavoro”, anche quando non “lavoravo”. Faccende piccole, se guardate in lontananza, e grandi, perché spesso esigevano il cuore.
Non saprei bene come raccontare di queste faccende e di questa loro associazione – che solo oggi sento di fare – con il lavoro. Riguardavano poche persone e pochi amici, senza mezzi e artigianalissime…. Eppure, erano “impegno” assai assorbente e vissuto con una generosità che al ricordo, dà nostalgia e meraviglia. Le ragioni profonde di un periodo che considero molto vitale erano essenzialmente religiose, almeno nel senso che le alternative possibili – fare cristianamente i miei interessi (cosa per la quale, naturalmente, non avrei mai ammesso di non essere dotato) o cercare qualcosa di più “espansivo”, distribuibile e duraturo nella stimatissima e confusa forma dell’impegno sociale e politico – prevaleva di fatto, per istinto o per intuito o per vocazione, quella più difficile, irrituale e più generosa.
Da questo punto di vista le cose non sono mai state così chiare e nette, né allora né oggi. Ma, tutto sommato, riconosco una sostanziale continuità (nell’accennata incertezza) nella mia storia personale. Se ne parlo, qualcosa – penso – ancora oggi “resiste”. Ed è una fortuna che capita, credo, a pochi. Anche oggi che “lavoro” (cioè ho doveri e diritti, stipendio, orario, ecc.) la possibilità di richiamare quella continuità d’esperienza interiore è il segno che il mio lavoro è, in buona parte almeno, “mio”, è vivo, mi coinvolge. É altra cosa dall’occasione che permette di “mantenere” me e la famiglia che nel frattempo ti è fiorita dentro e intorno.
Il lavoro che svolgo è atipico: nel sindacato. Niente di eroico o di esaltante. Da una scrivania (oggi con qualche responsabilità anche formale) ma nel sindacato.
La possibilità di percepire o verificare l’esistenza di quel filo continuo tra esperienza di lavoro e quel che tu sei davvero mi pare una cosa molto importante. Spezzarlo, anche senza colpa, può voler dire entrare nel circuito dell’alienazione. Il lavoro diventa, appunto, occasione o “cosa” davanti a te stesso. Dovrei pregare perché questo non accada mai; pregare e capire se, anche quando i condizionamenti si fanno inevitabili, vasti e forti, non ci sia un modo per conservare comunque al mio lavoro la posizione e la “parte” tanto rilevante che esso occupa nella mia vicenda personale.
- – Questo sentimento della continuità ha evidentemente a che fare con la percezione che la vita è una e cammina nel tempo. Le cadenze del tempo credo si afferrino meglio quando si è un po’ più adulti e maggiore appare la possibilità di padroneggiarlo. Non è vero soltanto che il tempo vincola il lavoro: è vero anche il contrario, cioè che il tuo lavoro funziona da segna-tempo, nel senso che ne determina le sequenze, “fa” la tua storia personale (e qual è, davvero, il posto del lavoro nella storia collettiva?). Nel mio caso, storia minore e anomala, il tempo di lavoro, in questo periodo si avvicina ai tre quarti della vita da sveglio e quasi tutte le relazioni (i rapporti personali, le informazioni, ecc.) passano attraverso di esso.
C’è un tempo, nel lavoro, che è attivismo, scadenza, organizzazione in funzione di risultati pratici. Sei stimato, generalmente, per il buon uso che fai della capacità di utilizzare il tempo in questa chiave efficiente, importante, certo, ma un po’ esteriore.
C’è poi un tempo, nel lavoro, che scorre sotterraneo, più o meno in profondità, ma che ti fa essere quello che sei, nel lavoro e fuori. Con il primo puoi essere, apparire ed anche ingannare te stesso e gli altri; col secondo no. Esso è il tuo midollo spinale, solo “essere”.
Questo è il tempo dell’interiorità o del silenzio. Il primo può essere solo tempo dell’esteriorità, della frenesia, del rumore. È il tempo più comodo e pigro, alla faccia di un attivismo senza soste. Per l’uso sempre crescente di questo tipo di tempo le domande sono infinite. Nel sindacato, poi, sai bene che le domande sono tante e non finirà mai la pressione perché il tempo sia occupato sempre da nuove cose (essendo il suo impiego uno stock comunque inadeguato alle esigenze). É questo tipo di tempo di lavoro che, principalmente, produce stanchezza, fatica ed esige il riposo. Ma anche il riposo viene così segnato, mi pare in un duplice modo: vigilia dell’attivismo (cioè semplice e biologico contrappeso alla fatica, distrazione) o tempo del silenzio, della concentrazione, dell’ascolto, della contemplazione, dell’invocazione (è questo il sabato del Signore?).
Tra i due tempi, nel lavoro (e nel riposo!) il conflitto è costante, quotidiano. Se il conflitto non c’è vuol dire soltanto, mi pare, che il tempo del silenzio è stato fatto abdicare, rinviato e che ho scelto per il tempo del rumore. Pensavo, quand’ero più giovane, che “fare” comunque, fino allo stremo, fino all’esaurimento, potesse essere a suo modo una scelta radicalmente generosa. Una specie di infantile martirio, ma anche di pagano egocentrismo. Oggi penso, al contrario, che il tempo del silenzio sia importante, efficace e produttivo. Solo che questa consapevolezza arriva proprio nel momento in cui il suo spazio, per forza di cose o per cattiva volontà o per pigrizia, sembra ridotto al lumicino. E cresce la nostalgia….
E a tentoni vai alla ricerca di qualche nuovo precario equilibrio. Anche questa, forse, è sofferenza e fatica del lavoro, di certi lavori almeno. C’è chi di lavoro può fisicamente morire, per incidente, per malattia. È una realtà tragica. Non vorrei che questi pensieri apparissero un lusso o quasi una provocazione.
Dico solo che di lavoro, come persone, si può morire, insensibilmente, forse, ma con la stessa definitività.
É un fattore di rischio che non esiste nei manuali sindacali: eppure avverto che esiste.
- – Se anche desidero dominarlo, in realtà, il tempo non dipende da me. So che ne dispongo, come di un bene, che non devo sciuparlo e che devo in qualche modo “affrettarmi” per riempirlo tutto di tutte le cose importanti e giuste.
É un condizionamento fondamentale, l’orizzonte dato: come la salute, i talenti, l’educazione, la famiglia che ti ha aiutato a crescere…. Puoi coltivare, migliorare, variare intensità e modalità, ma le sostanze del terreno sono quelle e basta. Son tutte cose che “subiamo”. Esse contribuiscono alla coscienza del nostro limite oltre che delle nostre possibilità (altra presa d’atto, mi pare opportuna e che appartiene agli adulti). Così, riflettendo sul mio lavoro (per il quale poco fa ho espresso sentimenti da protagonista, l’ho definito “mio” come se ne fossi il vero artefice) devo ammettere che anch’esso, a ben guardare, fa parte del vasto e oscuro insieme di cose che “mi sono capitate addosso”, che ho subito. Anch’esso contribuisce, usando le parole di Teilhard, al primato della “passività” che segna le due metà dell’esperienza umana: appartiene alla “passione” più che all’”azione”.
Certo, posso dire di averlo scelto, almeno nel senso che potendo poi rifiutarlo ho insistito. Ma scelte come queste non sono una “firma per accettazione” quanto, di fatto, il precipitato di un’intera vicenda in cui appunto, l’oscura somma delle cose che non sono semplicemente “dipese” da me vince di gran lunga sul totale delle cose imputabili alla mia volontà. A chi si deve la responsabilità di quest’opera di selezione, di questa specie di condotto forzoso?
Per quanto infastidisca orgoglio e razionalità, considero insufficiente la risposta “sociologica” e “biologica” a questa domanda.
Constato semplicemente, che anche per il mio lavoro, come per tante altre cose importanti della mia vita, mi riesce difficile cacciare l’ombra di una presenza pianificatrice al mio posto.
- – E “dentro” il lavoro? Chi conosce appena il funzionamento dell’organizzazione sindacale (che credo somigli a quello di altre strutture politiche) sa che esistono procedure, codici, tecniche, linguaggi che esigono un minimo di condivisione. Nascono in modo complesso, si modificano costantemente e in modo altrettanto complesso, e, certo, non dipendono solo da te! Devi camminare in loro sintonia, altrimenti sei un tapino che serve poco agli scopi dell’organizzazione. E questo mi pare un normale e necessario “adattamento”. Avviene perciò che codici, tecniche, linguaggi, assumano autonomia tale da staccarsi, a volte, proprio dagli scopi essenziali per i quali esiste il lavoro sindacale. E producono una scintillante colata di parole che si sostituiscono ai problemi reali. Anzi, quanto più sei padrone di quei codici tanto più è facile esser preso dal loro fascino, in un gioco che può essere molto vantaggioso, nei corridoi del palazzo e fuori, perché quei codici sono gli attrezzi fondamentali della competizione e della affermazione.
Avviene anche che al fascino dei codici si aggiunga quello del leader, l’uomo sicuro, che ha una storia di condottiero (e non la nasconde) talora ammirevole, un capo anche famoso. Lui “è” il sindacato. Lui gratifica e condanna.
Questa forma di idolatria è molto diffusa e si concentra a volte su persone nemmeno di tanto valore: può essere un qualunque responsabile superiore, diventato tale attraverso procedure di legittimazione più o meno democratiche.
L’ombra del potere è confortevole.
Credo di aver seguito un criterio, nel mio lavoro sindacale, che se non evita tutti i rischi almeno li attenua: cercare sempre di distinguere le singole persone o gli organi che in quel momento hanno autorità e ti chiedono un servizio, dal valore del servizio chiesto e dalla sua utilità e coerenza con le finalità generali per cui ha senso il mio lavoro (e, tutto sommato, la presenza “autorevole” di quelle persone e di quegli organi). Ci sono idealità e significati in questo lavoro, che sono oltre certe persone, organismi e persino intere fasi del comportamento del sindacato. Tener presente una simile distinzione significa al tempo stesso “sposare la causa sino in fondo” e custodire una forte carica di autonomia e di giudizio critico; esser tutto dentro e tutto fuori dalle logiche dell’organizzazione.
Perché esiste, infatti, una “logica” di organizzazione. Essa supera la pura relazione tra i singoli. Quando si è tra pochi amici, un disaccordo è facilmente valutabile. Posso mandare, ad esempio a quel paese l’amico e tutto il gruppo. Ma quando si è in una grande organizzazione, che ha regole, strutture articolate, compiti enormi…non è facile il discernimento di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, la valutazione degli effetti positivi o negativi di scelte, progetti, lotte che agiscono a vastissimo raggio e si intersecano con una serie di altri soggetti, interessi, centri di potere, istituzioni….
Non posso presumere di poter avere un giudizio netto su tutto: sono obbligato a continui atti di fiducia verso organi di decisione politica, competenze ed esperienze accumulate che “rappresentano” l’organizzazione e sono tenute insieme dalla stessa “ragione sociale” nella ditta-sindacato. Non è che mancano i dubbi. Ma se essi dovessero spingersi sino ad autentiche contraddizioni con i miei convincimenti i casi sono due: se l’obiezione di coscienza è radicale sarebbe serio andarsene; se si tratta di contrasti su questo o quell’aspetto della strategia sindacale, o su un certo arco di scelte, devo avviare dall’interno una battaglia politica perché i miei convincimenti diventino patrimonio maggioritario. Entri d’un colpo nell’agone politico. Può infastidire ma è così. In ogni caso non è un gioco da ragazzi. Molti giudicano i fatti e le scelte dell’organizzazione come se loro non c’entrassero, come si fa spesso nei dibattiti tra intellettuali. Si pongono al centro (io e l’organizzazione) e sentenziano: normalmente con spirito negativo. Senza percezione (che mi sembra una parte importante di una coscienza politica impegnata direttamente in strutture) delle dinamiche della organizzazione mi sembra difficile lavorare in strutture di tipo politico. Esse esigono una pazienza ed una attenzione straordinaria. Ed infatti, solitarie introversioni, crisi di identità o di militanza, frustrazioni personali sono all’ordine del giorno tra molti dei miei amici operatori sindacali che, forse inconsapevolmente, hanno vissuto più su miti e idoli che sul carico di fatica, tempo e difficoltà presente in ogni seria azione politica.
C’è insomma un “servizio” esercitabile col lavoro dentro una struttura politica che è il nocciolo duro della sua stessa esperienza. C’è una pazienza ed obbedienza che è tutt’altra cosa dalla acquiescenza e dalla fedeltà ai o al potere. Naturalmente si rischia l’ambiguità e bisogna mettere in conto l’incomprensione di molti. Se, come capita normalmente, il giudizio di valore è relativo a fedeltà o appartenenze di “schieramento” (e le etichette sono colorate quasi sempre di ideologia, di partito) rischi l’isolamento e l’orfanotrofio. E se, nonostante le tue interiori coerenze, ti capita comunque di essere scelto, messo in lista, votato, incaricato di qualcosa, è chiaro che ciò è dovuto soltanto alla tua fedeltà allo schieramento. Se questo non è così evidente allora penseranno di te che sei una persona molto abile, un “mediatore” (e, sottinteso, un moderato). Essere chiamato “figlio di…”, ovviamente col sorriso ammiccante di chi ha capito tutto sul tuo conto è, per alcuni, equivalente ad un complimento (in fondo “è dei nostri anche lui”).
Le ambiguità ci sono, però, davvero, anche in me, La competizione su questo terreno è una tentazione molto forte nel mio lavoro. E i peccati di omissione (specialmente quelli) non si contano.
Ecco, in forma paradossale, quale vorrei che fosse lo stile profondo del mio lavoro: mentre son scelto e obbedisco in realtà son io che tengo le fila e la mia pazienza, alla fine, avrà ragione. Se avrò la forza di “tenere” su questa linea “vincerò”; ma allora è probabile l’arrivo di clamorose sconfitte umane. Del resto, fanno parte di una certa Promessa e mi par giusto prepararsi e metterle in conto.
[1] Si ringrazia Enrico Giacinto per le note biografiche di Maurizio Polverari.