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Un buon manager sa essere ironico? Paolo Iacci non ha dubbi sulla risposta affermativa e in Ironia, il suo libro più recente di una lunga collezione, espone la sua filosofia manageriale illustrando in modo sistematico i campi di applicazione e i benefici dell’ironia.

L’ironia non è solo una forma linguistica, è una modalità di pensiero. Certamente non è sufficiente per affrontare i problemi detti, ma può aiutare a gestire lo stress, attenuare l’intensità percepita degli eventi negativi della vita. Importante per il manager delle risorse umane, che deve costantemente tenere presente l’aggettivo di quelle risorse, il loro essere persone e tenere a bada tentazioni di onnipotenza.

L’ironia ha due valenze fondamentali. Sostiene la capacità della consapevolezza delle proprie caratteristiche e dei propri limiti. Iacci scrive che «deve essere prima di tutto autoironia (…) ognuno per realizzare sé stesso, deve essere in grado di rimettere in discussione tutto sé stesso». Un esercizio per rendersi forti al punto di riuscire a ridere delle proprie debolezze. In secondo luogo «l’ironia è un filtro grazie al quale significati diversi possono arrivare a pubblici differenti. Chi capisce il sottinteso e chi ne è estraneo».

Ironia si distingue dal sarcasmo, che invece ha un tono negativo, è “contro”. Può essere un modo per ribadire il potere, sottolineare la subalternità, mentre l’obiettivo deve essere ridere con gli altri, mai ridere degli altri. Con un’eccezione, quando il bersaglio dell’ironia è il potere. In questo caso può essere una forma di lotta, lo smascheramento dell’oppressione mettendone in luce debolezze e incongruenze.

La visione manageriale dell’autore ha radici lontane nel tempo, frutto di un percorso professionale che ha combinato teoria ed esperienza concreta.

Paolo Iacci ha cominciato a pubblicare molto giovane. Il suo primo libro è del 1980 con Edizioni Lavoro Alle sette della sera. Una ricerca sui lavoratori studenti, seguita l’anno dopo da una ricerca per conto della Cisl: I bisogni di formazione del sindacato lombardo. Scorrendo la sua produzione di testi si nota che, dopo una serie di titoli che comunicano la serietà dello studioso in modi formalmente ineccepibili, nel 2012 appare esplicitamente l’ironia nel suo Breviario semiserio per manager pensanti. Qui le sue indicazioni, ordinate dalla A di Autorità alla Z di Zelo, sorgono anche da barzellette. Un approccio confermato dai titoli successivi. 

Nel 2015 pubblica L’arte di strisciare. Come avere successo nella vita e nel lavoro. Fui stimolato a leggerlo dal fatto che l’autore fosse il vicepresidente della Associazione Italiana Direttori del Personale (AIDP) con lunga esperienza nella gestione delle risorse umane in importanti aziende. Quindi una “controparte” del sindacato che, in modo allo stesso tempo severo e leggero, smascherava la patologia del servilismo e dell’adulazione, ben diffusa nelle organizzazioni del nostro Paese. L’ho proposto a Giovanna Ventura, allora Segretaria organizzativa confederale. In seguito Paolo Iacci è intervenuto in un corso di aggiornamento per dirigenti Cisl tenuto al Centro Studi. È stata la prima occasione per incontrare di nuovo la formazione Cisl, a più di trenta anni dall’inizio della sua brillante carriera, poi ripetuta in seguito.

Paolo Iacci in questo suo libro più recente descrive in modo sistematico i benefici dell’ironia nella gestione e sviluppo delle risorse umane e più in generale nelle relazioni di lavoro. Ne mostra l’adeguatezza alle esigenze attuali delle organizzazioni, imprese e non solo, perché «oggi i lavoratori chiedono di essere considerati come delle persone».

Iacci sottolinea che «l’inclusione non si limita all’assenza di discriminazioni, ma richiede un impegno attivo nel promuovere la partecipazione equa e il senso di appartenenza di tutti i membri del team. Si tratta di creare una cultura aziendale capace di valorizzare le differenze individuali e riconoscerle come fonte di ricchezza e innovazione». Affermazione pienamente condivisibile, a cui aggiungo un corollario: per realizzarlo occorre il sindacato. Solo una organizzazione della rappresentanza collettiva può ridurre l’asimmetria di potere fra singolo lavoratore e organizzazione aziendale, espressa dalla sua gerarchia. Occorre l’esistenza, e soprattutto la tutela, della rappresentanza collettiva per garantire la percezione di libertà di espressione che è condizione necessaria per il pieno dispiegamento delle potenzialità di una collaborazione intelligente. Una condizione che non può essere frutto della benevolenza della parte datoriale, poiché una elargizione unilaterale è sempre modificabile da parte di chi la eroga.

Iacci richiama la dottrina sociale della Chiesa che «vede il lavoro come un’opportunità per esprimere la dignità umana, partecipare al piano divino e contribuire al bene comune».

La nostra esperienza ci dice che, al di là delle dichiarazioni, il comportamento delle imprese non ha seguito granché queste indicazioni. Però le cose stanno cambiando. Iacci afferma che la possibilità di gestione autoritaria è ridotta dalla globalizzazione, che espone alla concorrenza su scala mondiale, e dalla necessità di attrarre e conservare lavoratori qualificati che passano da un posto di lavoro ad un altro con maggiore facilità e frequenza alla ricerca di condizioni più coerenti con le loro esigenze, come mostra il fenomeno delle “grandi dimissioni”, che sarebbe più corretto chiamare del “grande rimpasto”. L’attenzione alle persone diventa così meno opinabile e «il benessere e la felicità non sono possibili dopo il lavoro o malgrado il lavoro, ma grazie al lavoro», al suo contenuto e alle condizioni per svolgerlo.