Siamo fatti della stessa stoffa della tecnologia, potremmo dire, avendo consapevolezza che non si può comprendere oggi chi è l’essere umano senza considerare gli artefatti che in questo campo nel tempo ha messo al mondo.
Dal fuoco alla scrittura, alla televisione, fino al digitale e all’intelligenza artificiale, ogni salto tecnologico ha contribuito, prima che ad offrire nuove opportunità di benessere, a nutrire il processo di individuazione del vivente. Un divenire tuttavia che può accadere solo nella relazione con l’Altro, che, nell’epoca attuale, potrebbe giovarsi delle nuove tecnologie e dei social media digitali per aumentare e integrare le possibilità dell’incontro, a beneficio delle relazioni intersoggettive e di comunità.
Antropologia e tecnologia, cultura e tecnica, sono connesse in maniera circolare: l’una influenza l’altra in un percorso aperto nel quale ogni avanzamento è frutto della conoscenza, la quale, a sua volta, viene aumentata dall’innovazione tecnologica. È, dunque, quantomeno un paradosso, se non una posizione ideologicamente miope, sposare una visione tecnofobica dei processi in atto, che, elevando un (velleitario) muro difensivo, finisce per buttare via, come si dice, il bambino con l’acqua sporca. Si perde, in tal modo, l’occasione di coltivare insieme un atteggiamento critico sul digitale e sull’intelligenza artificiale, un paradigma educativo che genera responsabilità verso il bene della comunità, e una progettualità sociale e politica capace di governare le trasformazioni in campo tecnico e allargare gli spazi della democrazia e della cittadinanza attiva.
Ne hanno scritto con coraggio, passione e competenza tre autorevoli studiosi – Vittorio Gallese, neuroscienziato, Stefano Moriggi, esperto di cittadinanza digitale e filosofo della tecnologia, Pier Cesare Rivoltella, pedagogista – nel bel volume uscito recentemente per i tipi di Raffaello Cortina dal titolo Oltre la tecnofobia.[1]
Prendendo il lettore per mano, con un linguaggio accessibile, e soprattutto con uno sguardo multidisciplinare e interdisciplinare, gli autori del testo mettono in chiaro sin dalle premesse il loro obiettivo, ossia far «comprendere come funzionano gli strumenti digitali, come contribuiscono a plasmare il nostro pensiero e come possiamo usarli a nostro vantaggio [ciò] è essenziale per affrontare il futuro con maggiore consapevolezza. La sfida che abbiamo di fronte non è demonizzare la tecnologia, ma capirne il funzionamento e le conseguenze per utilizzarla in modo critico e responsabile. Non intendiamo trovare e proporre risposte definitive, ma stimolare una riflessione profonda su cosa significhi esseri umani nell’era digitale».[2]
In quest’ottica, il volume mostra l’infondatezza dell’esistenza di un ipotetico dualismo tra tecno-centrismo e antropo-centrismo rispetto al quale saremmo chiamati a schierarci, in nome di ragioni morali inappellabili. Il mondo della scuola è particolarmente toccato dalla questione, dove da alcune parti, anche a livello istituzionale, si invoca prudenza e si stabiliscono norme per proteggere le giovani e giovanissime generazioni dai presunti danni, soggettivi e collettivi, causati dall’(ab)uso del digitale. Una posizione che, come stigmatizzano gli autori del libro, si propone quale erede «di un Umanesimo di cui, a ben vedere, incarna solo una variante distorta e folkloristica».[3]
Se qualcuno pensa che si intenda sottovalutare l’ansia e la preoccupazione che genitori, insegnanti, educatori vivono nel fronteggiare la pervasività e l’invasività di tecnologie che in qualche modo decentrano dal contesto familiare e sociale chi le usa, è fuori strada. Ma è un’ansia, bisogna esserne consapevoli, che nasce da un approccio fuorviante al digitale, difensivo, che si occupa solo dell’effetto finale – l’uso dello smartphone, per capirci – perdendo di vista la complessità del tema e sottostimando l’importanza assoluta, e non solo relativa alla contemporaneità digitale, della relazione educativa tra adulti e giovani. Spostare l’attenzione sugli strumenti – viene affermato nel libro – tranquillizza. Anzi – come ricorda lo psicologo della Fondazione Minotauro, Matteo Lancini, citato nel volume – «consente all’adulto di abdicare alle proprie responsabilità e di trovare in altro la causa della sua incapacità educativa».[4]
In gioco non c’è la vittoria (di Pirro) contro lo smartphone o il suo uso smodato, ma molto di più: la maturazione individuale e collettiva della consapevolezza – e quindi di una responsabilità educativa collettiva – che il digitale è capace di trasformare la percezione della realtà e di incidere sulla costruzione dei significati, aumentando il coinvolgimento sensoriale delle persone. Siamo di fronte solo a un apparente paradosso: il digitale riporta l’attenzione sul corpo, che è il medium della conoscenza di prima mano e della comprensione degli altri, oggi fortemente trascurato in un campo educativo incline al comportamentismo, anche perché – come dicono gli autori – si è operata una riduzione craniocentrica della mente, che è invece un tutt’uno con il corpo. Il rischio che corriamo, se monta l’ostilità verso le tecnologie digitali, è accrescere paradossalmente l’insignificanza del corpo, e quindi delle emozioni e delle relazioni, nella cultura e nell’educazione delle giovani generazioni, con conseguenze nefaste come ricorda il filosofo Carlo Sini: «non è che la tecnica si aggiunga all’uomo: questo modo di pensare, purtroppo molto diffuso, è del tutto privo di senso: se dall’uomo togli la tecnica hai un animale non hai l’uomo […]. Vediamo così che il sapere naturale del mio corpo si associa al corpo dei saperi tecnico-strumentali, partorendo non un animale, ma un essere umano».[5]
Ciò detto rimangono vive le perplessità e le preoccupazioni sugli esiti della digitalizzazione nella vita soggettiva e sociale, se governata in un certo modo. Su un piano antropologico culturale: per la manipolazione cui si può essere esposti – a maggior ragione in presenza di scarso senso critico – immersi nel flusso delle piattaforme digitali, influenzate sensibilmente dal capitalismo della sorveglianza, che generano immaginari – tendenzialmente individualistici e competitivi – e cristallizzano gli automatismi che ci muovono e condizionano, favorendo quel conformismo che non fa bene alla libertà di pensiero e genera replicanti seriali, spesso di fake news: «prima di incolpare la tecnologia digitale, dovremmo forse considerare il fatto che il suo utilizzo specifico è dettato e condizionato dal modello di società contemporaneo in cui la stessa tecnologia è prodotta e utilizzata».[6]
Anche sul versante politico, non solo per la costituzione di inquietanti oligarchie che nascono sull’alleanza politica-economica-tecnologica, ma soprattutto per l’iniqua distribuzione delle opportunità legate all’accesso alle tecnologie e alla redistribuzione del lavoro, i rischi non sono pochi: «esplorando la complessità del mondo di oggi – scrivono i tre autori – è imperativo esaminare criticamente il ruolo delle tecnologie digitali nel plasmare la vita sociale e il discorso politico […] per utilizzare sempre meglio e con maggior profitto e per mitigarne gli esiti negativi e promuovere decisioni consapevoli nel nostro mondo che è e sarà sempre più digitale».[7]
La tecnologia è farmaco, direbbe il filosofo francese Bernard Stiegler, è rimedio e veleno, dunque va conosciuta, presidiata, orientata, corretta. Accostandosi con un pensiero critico, ma evitando di rimpiangere i tempi passati. Serve un’educazione che contenga sia il momento dell’accompagnamento sia quello del lasciare andare, sia il rischio che tuttavia è «indissociabile dall’educazione […] proprio attraverso il rischio si può esercitare la responsabilità che educando mi sono sforzato di sviluppare (Rivoltella, 2018, 2024b). Da questo punto di vista, ogni scelta di protezione o di divieto, in senso proprio non è educativa».[8]
Come sviluppare pensiero critico, responsabilità e resistenza per costruire la cittadinanza nel tempo del digitale? Il volume propone le tre A che lo psichiatra e psicanalista, Serge Tisseron, ha sottoposto a genitori e educatori: l’Alternanza, che fa riferimento a una sorta di dieta nel consumo mediale e la presenza di una pluralità di interessi e impegni. Nessuna attività digitale è dannosa in sé, se però fosse l’unica (così come la letteratura, la musica o altre) comporterebbe qualche riflesso sulla salute psicofisica; Accompagnare. Non è solo una questione legata al tempo che gli adulti dedicano alla cura dei più giovani, quanto offrire una presenza «che sia occasione di rispecchiamento, ovvero che consista in un ascolto attivo e in un’attenzione focalizzata. Per accompagnare occorre esserci, non basta semplicemente stare»: attraverso il consumo condiviso – la complicità – con l’attività di glossa, commentando l’esperienza ad alta voce, perché l’interlocutore possa verbalizzare curiosità o paure.[9] Infine, la terza A che sta per Autoregolazione, finalizzata a consolidare le competenze del soggetto (non a proteggerlo) affinché maturi e assuma autonomamente un pensiero critico e la virtù della sobrietà nell’uso del digitale. Consiglio finale degli autori del volume? Ironico, ma neanche tanto. Procurarsi un piccolo libro del grande filosofo francese Michele Serres. Titolo? Contro i bei tempi andati.
[1] V. Gallese, S. Moriggi, P.C. Rivoltella (2025), Oltre la tecnofobia. Dalle neuroscienze all’educazione, Milano, Raffaello Cortina Editore.
[2] Idem, pag. 17.
[3] Idem, pag. 15.
[4] Idem, pag. 141.
[5] C. Sini (2024), Intelligenza artificiale e altri scritti, Bologna, Jaca Book.
[6] V. Gallese, S. Moriggi, P.C. Rivoltella (2025), op. cit. pag.67.
[7] Idem, pagg. 69-70.
[8] Idem, pagg. 146-147.
[9] Idem…pag.165