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Sul divano a guardare un episodio dopo l’altro delle serie TV, con cuffie e joystick davanti alla playstation, con lo sguardo fisso a scrollare il cellulare. Sono queste le immagini che collegavo ai NEET, giovani tra i 15 e i 34 anni che sono Not in Employment, Education, or Training, ovvero che non sono occupati, né impegnati nello studio né in attività di formazione. Uso l’imperfetto perché ora, dopo aver letto il libro di Capeci, Meli e Basha appena pubblicato da Franco Angeli, sono più cauto. Ancora una volta ho scoperto che la realtà è molto più complessa delle semplici rappresentazioni costruite nella mia mente. Un limite che in questo caso, probabilmente, condivido con molti altri, pensando al successo degli “sdraiati” di Michele Serra, prima un libro di una dozzina d’anni fa, poi uno spettacolo teatrale e un film.

NEET di Capaci, Meli e Basha ha l’obiettivo dichiarato di combattere questi stereotipi e offrire uno sguardo nuovo e approfondito sul fenomeno NEET, cercando di integrare dati statistici ed economici con elementi psicologici, culturali e generazionali. 

L’analisi parte proprio dai connotati delle generazioni. Oggi in Italia convivono: Silent Generation (cresciuta nella metà degli anni Quaranta e anni Cinquanta); Baby Boomers (cresciuti tra la metà degli anni Sessanta fino agli anni Settanta); Generazione X (cresciuta tra gli anni Ottanta e anni Novanta); Millennials o Generazione Y (cresciuti negli anni Duemila); Generazione Z o Centennials (cresciuti nel secondo decennio degli anni Duemila e ancora oggi in formazione). A queste si aggiunge la Generazione Alpha, i bambini e preadolescenti di oggi, plasmati dagli eventi del decennio corrente. 

Ogni generazione si distingue per caratteristiche valoriali e culturali uniche, influenzate dal contesto storico in cui ha vissuto nei propri anni formativi. Un’affermazione che può sembrare eccessiva rispetto ad altri fattori che influiscono sui connotati personali come la famiglia, il suo status, il patrimonio economico e culturale, il territorio, il livello e il tipo di studi. È vero, questi fattori non vanno trascurati e gli autori non lo fanno, ma da almeno un secolo le differenze fra generazioni si sono fatte molto più marcate che in passato. È evidente l’impatto della tecnologia e dei suoi rapidi mutamenti sulla vita quotidiana. Karl Mannheim, sociologo tedesco, introduce nel 1928 il concetto di generazione come fenomeno sociale e culturale, non semplicemente biologico. Una generazione si distingue quando un gruppo di adolescenti inizia a vedere le cose in modo diverso dagli adulti. I contesti economici, sociali, culturali e politici influenzano i giovani, nel loro momento di crescita, più degli adulti, che invece tenderanno a interpretarli con gli occhi delle loro esperienze passate, e contribuiscono a definire tratti personali persistenti.

Le generazioni elencate sono presenti nel mondo del lavoro. Anche la Silent, la più anziana, non è fatta solo di pensionati. È la più numerosa: 14 milioni e 358 mila persone, pari al 23,8 della popolazione italiana. Spesso è influente, tutt’altro che silenziosa: molti titolari di imprese, affermati docenti, stimati professionisti, vertici istituzionali, opinionisti dei media tradizionali e non solo, hanno almeno 65 anni d’età. Spesso i traguardi raggiunti sono considerati la prova che si è fatta la cosa giusta e quindi alle generazioni seguenti basterebbe seguire l’esempio degli anziani.

Essere consapevoli delle differenze fra generazioni aiuta a ridurre gli scontri, chiusure nel “noi giusti e voi sbagliati”. Il superamento dei pregiudizi per costruire relazioni proficue vale per tutte le generazioni, ma è più importante per chi ha maggiore potere e responsabilità. Quindi anche per chi opera nel sindacato, a qualsiasi livello. Il nostro potere in molti casi è limitato, ma svolgere in modo efficace la funzione di rappresentanza comporta il saper dialogare con tutte le generazioni presenti nei luoghi di lavoro, non appiattirsi nel riferimento a quella numericamente più consistente, e favorire l’ascolto e la reciproca comprensione. L’età media della popolazione italiana è di oltre 48 anni, quella dei dipendenti della maggior parte delle aziende ancora di più, ma per dare un futuro al sindacato occorre dare una particolare attenzione ai giovani. Viene affermato con forza in tutti i congressi, metterlo in pratica non è facile e questo libro offre stimoli interessanti.

Sono NEET sia persone che si pongono al di fuori del mercato del lavoro, sia chi invece cerca una occupazione. Nei luoghi di lavoro non troviamo NEET, ma ci sono soggetti che lo potrebbero diventare o che lo sono stati e si trovano ancora in una situazione di confine. 

Infatti il fenomeno NEET in Italia è rilevante: siamo stabilmente tra i Paesi con le percentuali più elevate. Nel 2022 eravamo al 20,8%, poi nel 2023 scesi al 18%, ma Eurostat ci comunica che siamo circa 10 punti sopra la media Ue e solo la Romania ha risultati peggiori. Situazione che si combina con i cronici differenziali regionali: nel 2023 la percentuale di NEET rispetto alla popolazione fra i 15 e 34 anni era il 12% nel Nord-ovest, l’11,4% Nord-est, il 13,6% al Centro e il 28,4 nel Mezzogiorno.

Altre differenze statistiche nel fenomeno NEET sono le differenze di genere, con percentuali maggiori per le donne specialmente nel Meridione e fra nati all’estero.

Il contributo originale del libro consiste nell’indagine sulle dinamiche psicologiche e generazionali che influenzano il fenomeno NEET. È frutto dell’osservazione diretta e della ricerca Kantar Italia 2025, Studio sulla percezione dei giovani italiani verso il mercato del lavoro

Sono identificate cinque tensioni principali che formano l’acronimo Madei. La M è “Marginalizzazione”, che consiste in uno stato di esclusione sociale, economia e culturale che porta all’isolamento. La a è “ansia”, frutto di un senso di insicurezza diffuso, una paralisi per la convinzione dell’incapacità di poter organizzare ed eseguire le azioni che portino a determinati obiettivi. La d è “disillusione” a seguito di esperienze che hanno generato la convinzione che il lavoro non porta né sicurezza economica né gratificazione personale. La e è “entitlement”, la convinzione di meritare opportunità che soddisfino appieno le proprie aspettative personali e professionali, rendendo difficile accettare compromessi. I sta per “idea del lavoro”, ovvero una concezione che lo vede come fonte di stress, alienazione e conflitto con la vita privata.

Sulla base di queste cinque tensioni fondamentali e dell’incrocio fra due polarità estroversione-introversione e passività-assertività gli autori hanno classificato in sette tipologie i soggetti NEET esaminati nella ricerca. Ne riporto le definizioni in modo estremamente sintetico.

Disillusi: speranze infrante e rabbia. Si sono confrontati con il mondo del lavoro, anche da giovanissimi, e ne sono usciti reagendo a condizioni percepite come irrispettose, umilianti. Riguardo al modello Madei prevalgono d, disillusione, appunto, e i, idea di lavoro, che deve rispecchiare condizioni lavorative considerate dignitose.

Ambiziosi: inseguimento del sogno perfetto. Sono i più istruiti, con laurea più di uno su tre, e in maggioranza ragazze; la loro idea che l’impegno e l’eccellenza aprano le porte genera desideri che faticano a conciliarsi con la realtà del mercato del lavoro. Sono potenziali cervelli in fuga. Rispetto a Madei prevalgono la e e la i.

Sabbatici: fermarsi per capire la direzione. Scelgono coscientemente di prendersi una pausa per riflettere, orientarsi e affrontare il futuro con determinazione. La questione cruciale è la durata. Analogamente agli ambiziosi, nel Madei prevalgono e, affermando la legittimità del prendersi il tempo per fare le proprie scelte, e i, avendo una idea di ciò che deve rappresentare il lavoro.

Sacrificati: tra cura e rinunce personali. Sono uomini e, prevalentemente, donne costretti ad abbandonare lavoro o formazione per il ruolo di caregiver o genitori a tempo pieno. Nel profilo Madei spiccano marginalizzazione e disillusione, in un contesto che non dà sostegno a chi deve bilanciare lavoro e cura.

Fragili: combattere contro le proprie paure. Sono giovani con problemi di forte insicurezza e spesso anche di salute mentale. Spesso si sentono soli nell’affrontare i loro problemi, facilmente banalizzati con il semplice sollecito a cambiare. Marginalizzazione e ansia sono gli elementi che descrivono la loro condizione nel modello Madei.

Disorientati: bloccati nell’imbarazzo della scelta. Di fronte a un panorama di possibilità non si sentono in grado di decidere. Privi di un obiettivo chiaro per paura di fallire o per insufficiente fiducia nella scelta. Anche per loro prevale marginalizzazione e ansia. 

Svincolati: fuori dagli schemi, liberi dai vincoli. Sono concentrati su sé stessi, attratti dal fare esperienze per alimentare la propria crescita personale senza pensare al futuro lavorativo. Connotati del loro profilo sono entitlement, espresso dalla convinzione che seguire le passioni sia un diritto legittimo e non un lusso, e da un’idea di lavoro, che deve integrarsi armoniosamente con lo stile di vita.

Le tipologie illustrate, con le loro specificità, mostrano che non esistono soluzione valide per tutti i casi. La consapevolezza della complessità del fenomeno NEET è condizione necessaria per affrontarlo da parte di tutti i soggetti che possono intervenire: le famiglie, la scuola e le agenzie formative, le istituzioni pubbliche e le aziende. Una comprensione a cui possiamo contribuire come sindacato grazie alle reti di ascolto costituite dalle nostre rappresentanze, radicate ed estese nella realtà sociale, nel concreto di aziende e territori.


Federico Capeci, Valentina Meli, Endri Basha, (2025). NEET. I 7 volti di una generazione in attesa. I disagi, le aspettative e gli interventi possibili, Milano, Franco Angeli.