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Il dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale si propone soprattutto come l’occasione per riflettere sulla distinzione che esiste tra il linguaggio computazionale, calcolante, tipico delle macchine e il linguaggio simbolico, quello del senso e dei significati, proprietà specifiche dell’essere umano. Nell’era del digitale, tornano radicalmente in gioco il rapporto tra mezzi e fini, e la libertà e la responsabilità del vivente, a maggior ragione, in una fase storica nella quale nascono nuove oligarchie che saldano il potere politico con quello economico e tecnologico, portando al massimo funzionamento quel capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza che gioca con la manipolazione dei saperi e il condizionamento delle coscienze.

L’evoluzione tecnologica accompagna e sostiene la mutazione genetica del capitalismo, che se negli anni del boom economico si è servito della televisione per orientare e incrementare i consumi, rendendoci, come diceva Pier Paolo Pasolini, “polli d’allevamento”, oggi usa a piene mani il digitale per colonizzare l’immaginario, i desideri e le aspettative soggettive. Una tecnologia tossica e pervasiva, l’ha definita il filosofo francese Bernard Stiegler, finalizzata all’ipercontrollo del singolo, che attenta all’unicità e originalità del soggetto: “un condizionamento dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana”([1]). Nel discorso di Stiegler non v’è alcun rigurgito luddista, ma l’invito a considerare la tecnologia come un farmaco, che nella sua accezione etimologica è rimedio e veleno. Gli esiti dipendono dal suo utilizzo che, se conviviale e a misura di comunità, come prospetta il gruppo di ricerca indipendente, Ippolita, “invece di promettere miracoli e produrre assoggettamento e asservimento, consente emancipazione e potenziamento ecosociale”([2]).

Lo stesso Pasolini, cinquant’anni fa, ci aveva messo in guardia dalla possibile problematica evoluzione dell’alleanza tra capitalismo e avanzamento delle tecnologie. Nel 1975, nel suo intervento al Congresso del Partito Radicale, che venne letto postumo a causa della sua uccisione avvenuta alcuni giorni prima, si espresse a chiare lettere sull’argomento: “I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa”([3]).

Società automatica, uomo seriale, desiderio dell’altro

Viviamo nella “società automatica”, che influenza e condiziona il nostro sentire e le nostre scelte, esponendoci, in assenza della cura di uno spirito critico, a diventare esseri “seriali”.  In questo vortice ci siamo molto più dentro di quanto non immaginiamo. Si pensi all’utilizzo smisurato e meccanico dei social media. Si tratta spesso di una comunicazione riflessa, senz’anima, che, ad esempio, nell’uso ripetuto e non selettivo dei like e delle emoticon, specie di quelle che raffigurano cuori, abbracci e baci, si evidenzia la separazione tra aisthésis (sentimento) e semiosis (significato). Una comunicazione che, paradossalmente, invece di cementare relazioni, in alcuni casi è addirittura il sintomo di quella solitudine che viene adottata, come scrivono Chittaro e Castigliego, “per sfuggire dal mondo sociale e ritirarsi dal potenziale ‘dolore’ dell’interazione con l’altro”([4]).

La questione, antropologicamente, non è banale, e propone un tema decisivo per il nostro stare bene al mondo, che è il desiderio dell’altro, che, come argomentava lo psicanalista francese Jacques Lacan, è il desiderio di essere riconosciuti dall’altro. Senza il riconoscimento altrui non potremmo sapere chi siamo, e anche se con i “like” tale riconoscimento è apparente, quegli attimi fuggenti, emozionanti, presentano comunque implicazioni importanti per il nostro cervello: “Gli effetti di un semplice ‘mi piace’ (like) sono molto più profondi di quanto si possa percepire soggettivamente, tanto che la ricerca in neuroscienze ha mostrato attraverso neuroimmagini che ricevere i like ha un effetto sui circuiti neuronali della ricompensa”([5]).

Se spesso siamo vittime degli automatismi che ci muovono e condizionano, in buona parte noi stessi tendiamo a rinforzarli, scrive il neurofisiologo Lamberto Maffei, a causa “delle ripetizioni di funzioni a cui sono stati sottoposti con il risultato che le loro connessioni sinaptiche sono diventate stabili ed efficaci: si può dunque concludere che l’abitudine fa parte dell’apprendimento (…) un’autostrada verso la robotizzazione del sistema nervoso”([6]). Quanto emerge da studi raffinati, ci porta a ritenere che la questione degli automatismi, investendo la persona nei suoi percorsi di crescita umana e nella sua individuazione soggettiva presenta significativi risvolti anche sul piano sociale e relazionale. E quindi anche sindacale, in quanto le tecnologie digitali, nella prospettiva fin qui delineata, costruiscono immaginari individuali verticali, a volte narcisistici, che fiaccano le relazioni intersoggettive e le solidarietà orizzontali. Parliamo di quelle relazioni che costituiscono l’infrastruttura sociale della rappresentanza collettiva, che ha nello scambio di significati tra le persone e nella condivisione di un progetto di cittadinanza il suo nobile collante.

La metamorfosi del conflitto tra capitale e lavoro, tra capitalismo e rappresentanza del lavoro, se da un lato, continua a giocarsi sul terreno della redistribuzione del reddito, dall’altro investe in maniera significativa e strisciante, la questione della libertà e dell’autodeterminazione delle persone. L’appannarsi delle motivazioni a prendere parte alla vita collettiva e al sentire una comunità di destino, così come la rinuncia all’adesione al sindacato, risentono anche della saturazione culturale prodotta da immaginari e narrazioni a senso unico, volte a svilire approcci di tipo cooperativo e partecipativo e a convincere che la competizione sia la migliore scorciatoia per la riuscita di sé. Ma è un sé senza l’altro che i social media rimandano, a modo di specchio, come rappresentazione desiderabile dell’io, ma che disturba le relazioni e diventa un potente solvente del legame sociale.

La questione degli automatismi è di carattere etico oltre che teorico, scrive Ivan Pelgreffi, e lascia emergere “il quadro di una progressiva meccanizzazione e normalizzazione di ampie falde delle nostre esistenze, nel tempo di lavoro, nel tempo libero (oltre a quel campo, sempre più esteso, della loro indistinzione) e che spaziano quindi dalle standardizzazioni dei comportamenti indotti all’interno di organizzazioni sino agli spazi connessi alle cloud technologies web-digitali e al potere di predeterminazione degli algoritmi. L’automatismo è formante (…). L’automatismo determina gli assetti in cui ci muoveremo, i nostri schemi motori, i modi di comportamento e di pensiero, come nell’espressione forma mentis”([7]).

Automatismi, forma mentis e formazione

La leva più potente che abbiamo a disposizione per mettere sotto osservazione gli automatismi, riducendone gli effetti più deleteri per noi e per gli altri, è la formazione. Ma qui evidentemente iniziano i problemi, perché spesso è proprio una sua torsione nella direzione dell’istruzionismo e dell’addestramento che ne fa, paradossalmente, un’alleata della “società automatica”, col conseguente paradosso che i sistemi educativi e formativi, scolastici e non, finiscono per trasformarsi nella stampella del pensiero dominante.

Ivan Illich, negli anni ’70, per questa ragione propose di descolarizzare la società; dal suo punto di vista temeva che, anche attraverso la scolarizzazione di massa, si potessero generare processi manipolatori e un apprendimento povero di sapere critico e incline al conformismo. In buona sostanza: se la formazione non riesce a custodire lo spazio della domanda e della dimensione simbolica, facendosi luogo altro dalla società automatica, e se viene ridotta al rango di tecniche, di problem solving e cassette degli attrezzi, sterilizza la sua portata educativa, creativa, trasformativa dell’esistente, finendo per rimettere continuamente al mondo, moltiplicandone gli effetti indesiderati, il linguaggio funzionalista portato del pensiero neoliberista dominante. André Gorz, autorevole sociologo francese, che è stato un punto di riferimento per la Fim e la Cisl, negli anni ’80 esprimeva lucidamente un concetto che calza a pennello anche nella odierna società del digitale e dell’AI: “il pensare matematizzante genera il trionfo delle macchine sulla mente che ha scelto di funzionare come una macchina”.

L’apprendimento è una questione complessa, ma molto conta come si apprende. Ugo Morelli, in una recente intervista parla dei tre livelli dell’apprendimento: quello naturale, inconsapevole, quello intenzionale, mirato a raggiungere uno scopo, e il terzo, definito da Gregory Bateson, “deuteroapprendimento”, quello di “apprendere ad apprendere”, prerogativa degli esseri umani in quanto animali simbolici. “Grazie alla metacognizione, mediante la quale il soggetto ha la capacità di riflettere su di sé e sulla propria attività – argomenta Morelli – possiamo sostare sulle cose e rileggerle, per ripercorrere i passaggi di un processo, per cercare il significato delle esperienze, per riflettere su ciò che abbiamo osservato, per riconoscere possibilità, allargare i punti di vista, elaborare ipotesi inedite. (…): quell’apprendimento che qui stiamo auspicando, in grado di rompere la cornice esistente che genera un presente soffocante e di creare le condizioni per un futuro differente”([8]).

Anche la formazione sindacale, alla luce delle radicali trasformazioni avvenute nel lavoro e nei contesti organizzativi, che inducono a costruire nuovi linguaggi della rappresentanza([9]), è chiamata a ripensare approcci e pratiche dell’apprendimento che aiutino i sindacalisti ad abitare la complessità crescente del loro “mestiere”, che per essere efficace nella dimensione contrattuale oggi deve curare particolarmente quella relazionale, se si vuole allargare la base associativa e potenziare la rappresentatività. Non si dà infatti una “meccanica” della contrattazione, che funziona per inerzia. 

Se muta il territorio del lavoro è urgente dotarsi di mappe aggiornate, ridisegnandole partendo dai margini e via risalendo, per ridurre la frammentazione sociale, pur tenendo in conto i contesti territoriali, le soggettività plurali. Persone che vanno innanzitutto ascoltate, perché il loro bisogni e desideri possano essere rielaborati sindacalmente e diventare materia prima della contrattazione collettiva. Conoscere, ascoltare le persone che lavorano, vuol dire mettersi nei loro panni, vivendo ogni incontro con quello stupore che, come diceva Pavel Florenskij, è all’origine di ogni forma di conoscenza. Va da sé che una formazione sindacale strutturata come un sistema scolastico o di addestramento professionale darebbe scarso rilievo a quella conoscenza di prima mano, come la chiama il filosofo dell’educazione, Alfred North Whitehead, che raccoglie saperi e informazioni emergenti dall’esperienza e dalla relazione con l’altro.  “La mente dell’allievo – scrive Whitehead – non è una scatola da riempire senza garbo con idee estranee (…) Se si hanno frequenti contatti con giovani appena lasciano la scuola e l’università, si notano subito le menti instupidite di coloro la cui educazione si è ridotta all’acquisizione di conoscenza inerte”([10]).

Intercorporeità, codici affettivi e teatro

Il mestiere del sindacalista nel terzo millennio va in parte ripensato. Fino a ieri la sua azione, prevalentemente contrattuale, era sostenuta da una base solidaristica tra le persone, che, al venir meno di ideali e ideologie nate in un altro tempo storico, si è praticamente frantumata, o resiste a fatica, in attesa di trovare ragioni e valori comuni che nutrano anche oggi l’impegno sindacale. Quali siano i solventi e quali i coagulanti della rappresentanza collettiva del lavoro, è un punto dirimente dal quale ripartire, in una prospettiva politica di co-evoluzione e co-educazione con chi lavora. Ciò non significa abbandonare il proprio Dna, ma usarlo come immaginario e come lievito capace di generare significati condivisi nei quali possano riconoscersi sempre più persone, da un lato allargando la base associativa, dall’altro dando forza alla rappresentanza.

Ma è necessario cambiare lo sguardo sul lavoro e sui luoghi dove va in scena quotidianamente e in maniera differente dal passato, dove convivono generazioni differenti e soggettività plurali, anche di genere. Per costruire relazioni di fiducia, bisogna individuare per ciascuna persona i codici di accesso al suo mondo interno. Va da sé che non esistono manuali in materia e che la via didattica cognitivo-razionale non è praticabile per conseguire l’obiettivo. Non si tratta infatti di insegnare il mestiere a qualcuno, ma di creare contesti formativi per i sindacalisti che rimettano in gioco le emozioni, e si prendano cura dell’affinamento di quei sensori affettivi che aumentano le potenzialità di incontro con l’altro, soprattutto rimettendo in movimento il corpo. Ciò contrasta con una formazione e un’educazione dall’impronta istruzionista, come sottolineano nel loro ultimo libro Gallese e Morelli, e che va superata assumendo l’inter-corporeità come riferimento, quindi adottando quel: “paradigma corporeo che, con un approccio pionieristico, non solo inascoltato ma nelle più frequenti situazioni osteggiato, alcuni cercano di portare avanti, sostenendo che l’apprendimento è relazione basata sul primato dell’azione e del movimento; che si conosce per ricerca di significato e spazi di scoperta; che può fare da catalizzatore dell’innovazione formativa e educativa necessaria (…) le condizioni corporee e del sistema cervello-mente, unitamente ai sistemi emozionali, sono condizioni per sostenere ogni processo di apprendimento”([11]).

Riformulare l’offerta formativa sindacale

I recenti e importanti studi neuroscientifici sulle dinamiche dell’apprendimento spingono e aiutano a riformulare un’offerta formativa sindacale che da qualche tempo mostra delle rughe. Il nodo cruciale è rendere sostenibile un impegno per gli altri oneroso sul piano emotivo e cognitivo e che non può reggere nel tempo solo sulle motivazioni e promesse iniziali. L’esposizione ai tumultuosi cambiamenti e alla frammentazione culturale, condita da un’instabilità emotiva diffusa, non si possono fronteggiare con il repertorio delle competenze tradizionali del sindacalista, pena la frustrazione, il disincanto, la demotivazione e in casi estremi l’abbandono dell’impegno sindacale. L’esperienza individuale, professionalmente e umanamente ricca, ha invece bisogno di luoghi di rielaborazione, di sosta, di rigenerazione, nella ricerca di armonizzare le diverse dimensioni di sé e della propria esistenza.

La formazione sindacale ha bisogno più che di un aggiornamento, di una revisione profonda che conduca a ristrutturare l’intero setting formativo immaginandolo come uno spazio dove vengano in scena nella relazione con altri sindacalisti, gli accadimenti quotidiani, le esperienze vissute, le aspettative soggettive. Ciò che si prova, spesso è più importante e comunque viene prima di ciò che si pensa. Attraverso la finzione scenica, che rende l’esperienza fonte di conoscenza, la formazione è generatrice di apprendimento se si fa esercizio, palestra, atletica, laboratorio. Se diventa Teatro: un setting formativo che viene trasformato in set teatrale, che rimette in scena drammaturgicamente il vissuto – il dramma è azione nella sua etimologia – per trarre significati e senso dagli eventi della vita e dall’azione sindacale.

Parlare di esperienza teatrale nella formazione non ha alcuna relazione con l’utilizzo di quelle denominate, forse impropriamente, tecniche teatrali applicate alla didattica, che per similitudine possono essere ricondotte alle simulazioni o ai giochi di ruolo. L’adozione della formazione come teatro ha implicazioni ben più significative e impegnative, per i formatori e per i corsisti, ma anche esiti spesso inattesi quanto positivamente sorprendenti. Sostiene in proposito il pedagogista Pier Cesare Rivoltella, che “la didattica è teatro e il teatro è didattica. L’attenzione è sull’è, che spinge al rifiuto di analisi comparative che suggeriscono tra didattica e teatro delle semplici analogie (come spesso capita in contesto aziendale) a vantaggio di una soluzione di identificazione forte tra le due esperienze”([12]).

Il teatro, in quest’ottica, non può essere ridotto a sola metafora educativa né può essere considerato una metodologia tra le altre. Per ciò che è capace di movimentare in termini emotivi, sentimentali, cognitivi, relazionali, l’esperienza drammaturgica è rivelatrice di ciò che siamo, e soprattutto delle parti di noi stessi che meno conosciamo, o che, ostinatamente, non vogliamo vedere. Uno spazio drammaturgico che “doppia la vita” accrescendo la consapevolezza dei nostri gesti, mettendo sotto osservazione, come una moviola, gli automatismi della nostra vita, per poter adottare una loro gestione critica, come avrebbe detto Konstantin Stanislavskij. 

Non si va a vedere il Macbeth per studiare la storia della Scozia, ma per capire cosa si prova dopo aver tradito un amico. La frase attribuita a un critico letterario a commento dell’opera di Shakespeare ci fa comprendere a quali profondità del nostro mondo interno può arrivare la forza educativa del teatro. E d’altra parte il nostro paese può vantare una forte ricerca e sperimentazione relativa al rapporto tra teatro e educazione, risalente alla produzione intellettuale e accademica di un grande pedagogista qual è stato Riccardo Massa, che, insieme ai suoi allievi, a fine anni ’90 dette luogo all’Università Bicocca di Milano a una serie di corsi in materia, accompagnati da un laboratorio teatrale.

In una delle sue lezioni Massa parlando del rapporto tra il teatro e la vita e soprattutto tra il teatro e l’educazione, così si esprimeva: “L’esperienza teatrale tematizza esplicitamente la possibilità di teatralizzare la vita: tutti i giorni, noi teatralizziamo qualcosa nella nostra vita e non potremmo vivere se non teatralizzando qualche cosa, ma questa consapevolezza, che potremmo definire teatrale, che pure è costitutiva della nostra vita, non è presente, poiché siamo soliti essere appiattiti sui rituali della vita, sull’azione. Quello che è specifico della consapevolezza teatrale è che la nostra vita può essere ripresa in mano, esplorata, interpretata, elaborata. Questa consapevolezza viene tematizzata nell’evento teatrale ed è simile alla consapevolezza pedagogica: l’educazione è resa possibile da questo spazio di azione, di vita, ma anche di elaborazione e di interpretazione (…) Il teatro educa non solo in senso esplicito, come il teatro didattico o didascalico della tradizione brechtiana, ma nel senso che in esso c’è in gioco un progetto di cura di sé, di formazione di sé, di educazione di sé, di esperienza di sé”([13]).

Su queste solide basi scientifiche e su una ricerca e una sperimentazione che durano ormai da più di dieci anni, la formazione sindacale FIM, grazie alla consulenza scientifica di Ugo Morelli, psicologo e scienziato cognitivo, e alle competenze artistiche di Thomas Otto Zinzi, drammaturgo, attore e regista,  ha reso permanente il laboratorio teatrale sia nel corso lungo per dirigenti – il COD – sia nei corsi per delegati a livello regionale e territoriale, con una sperimentazione particolare, a livello decentrato in Piemonte, attraverso percorsi formativi residenziali svolti totalmente con il linguaggio drammaturgico, con l’obiettivo di affinare la sensibilità e i codici affettivi per potenziare la comunicazione con gli altri.

Il teatro introdotto nella formazione sindacale, come mostrano le testimonianze in sede di verifica dei partecipanti, presenta un effetto virtuoso multiplo incoraggiante: la riscoperta della motivazione profonda che porta all’impegno sindacale, attraverso lo scavo interiore operato dallo sblocco della dimensione emotivo-affettiva; la percezione di un potenziamento della capacità di incontro e comunicazione con gli altri, grazie a un lavoro sul corpo che rimettendosi in movimento (verso l’altro) apre spazi inediti alle relazioni intersoggettive; la decantazione e la rigenerazione di stati d’animo e sguardi sulla realtà tendenti al fatalismo e alla convinzione che nulla può cambiare; la crescita del senso di appartenenza all’organizzazione come esito del riconoscimento reciproco tra colleghi e della cura e attenzione percepita verso di sé con la formazione ricevuta.

L’esperienza teatrale come formazione rende verace il racconto di sé, perché è il corpo che si fa linguaggio, e ciò avviene anche attraverso snodi faticosi, dolorosi, impegnativi, già nel momento nel quale si fanno i conti con l’ansia, la timidezza, la resistenza nell’esporsi agli altri. Ma proprio allora il teatro diventa, come dice Carlo Sini, l’arte della conoscenza, o come dice Brecht, un contributo all’arte di vivere, tenendoci lontano dalla formattazione degli automatismi.

L’ultima, in senso cronologico tra le diverse esperienze formative realizzate in FIM con il teatro, è stata particolarmente emozionante per chi vi ha preso parte ma anche corroborante per l’organizzazione. Si è trattato di un percorso formativo sulla questione di genere tenutosi in Piemonte a Fenestrelle, al quale hanno preso parte sedici delegate della FIM. Un tema normalmente trattato attraverso convegni e seminari e che, in questa occasione, abbiamo voluto proporre con un linguaggio poetico, confidando in una maggiore sedimentazione nelle persone e nell’organizzazione e in una più forte risonanza circa l’importanza e, di contro, la ancora scarsa presenza del “codice femminile” nell’azione di rappresentanza collettiva, compresa quella sindacale  (non tanto e non solo la scarsa presenza delle donne nell’organizzazione).

La base portante di questo percorso formativo attraverso il teatro è stata la scrittura di un canovaccio drammaturgico intitolato “Il codice mancante”, un testo composto sia da parole di donne che nella storia civile, politica, sindacale, hanno portato la specificità e le istanze femminili nel discorso pubblico, sia da versi e testi di personaggi femminili presenti in opere teatrali di grandi autori e autrici. Guidati dalla sapiente regia artistica di Thomas Otto Zinzi, supportato dallo staff formativo, dapprima nell’esercitazione e interpretazione individuale, quindi nell’azione scenica collettiva, poi nella rappresentazione finale, ha preso corpo una scrittura di scena originale, con inchiostro femminile, capace di far arrivare ai presenti, attraverso i volti, i corpi, le parole e gli stati d’animo delle delegate sindacali, totalmente immedesimatesi nei personaggi, tutta la crudezza e la perentorietà di un messaggio che la finzione scenica ha reso diretto, senza la mediazione depotenziante di parole retoriche, perfettamente corrispondente allo sguardo sul tema che le donne della FIM volevano offrire all’organizzazione. Nell’arco breve di due giornate e mezza il percorso, totalmente sperimentale, si è rivelato un’esperienza formativa densa ed entusiasmante, sotto più versanti: nell’accrescere la motivazione, l’autostima e il riconoscimento reciproco delle partecipanti, nonché la consapevolezza che il codice femminile, quello mancante nel discorso pubblico,  della cura e dell’accoglienza, se liberato dalla trappola del focolare domestico, dove spesso è ancora confinato, può diventare una risorsa unica per trasformare il mondo. L’esperienza teatrale è diventata politica, capovolgendo rappresentazioni consuete della realtà, ed esponendo il valore non comprimibile delle differenze e il superamento di ogni logica di assimilazione all’altro. Questa è la potenza educativa del teatro: cambiare lo sguardo sul mondo e su ciò che accade, dis-attivando qualsiasi automatismo, de-robotizzando il vivente.

Come ricorda Lea Melandri, figura tra le più significative del femminismo italiano, citando un passo di Sibilla Aleramo “…su tutte le cose l’uomo ha riflettuto, poi le ha riplasmate e lanciate nella vita. La donna s’è accontentata di questa rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile. E di tutto quello che ella parallelamente intuiva, nulla o quasi nulla ha mai detto agli altri, perché nulla o quasi nulla ha mai detto a se stessa”([14]). 


[1] B. Stiegler, La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi, 2019

[2] Ippolita, Hacking del sé. Disertare il capitalismo del controllo, Agenzia X, 2024

[3]   P. P. Pasolini, Intervento al Congresso del Partito Radicale, 11,1975

[4] L. Chittaro, G. Castigliego, Le illusioni dei social media. Maschere e specchi della nostra personalità, Mimesis, 2024

[5] L. Chittaro, G. Castigliego, Le illusioni….op. cit.

[6] L. Maffei, Solo i folli cambieranno il mondo, Il Mulino, 2023

[7] I. Pelgreffi, Filosofia dell’automatismo. Verso un’etica della corporeità, Orthotes Editrice, 2018

[8] Imparare a uscire dalla cornice del presente. C’è troppo poco futuro nei discorsi degli adulti. Intervista a Ugo Morelli, a cura di F. Floris e I. Paganotto, Animazione sociale, 378, 2,2025

[9] Per una trattazione più puntuale sul tema si rinvia a E. Fellin, U. Morelli, R. Iaccarino (a cura di), I nuovi linguaggi della rappresentanza sindacale, Edizioni Lavoro, 2024

[10] F. Cappa (a cura di), Alfred N. Whitehead, I fini dell’educazione, Milano, 2022, Raffaello Cortina Editore

[11] V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, 2024

[12] P. Cesare Rivoltella, Drammaturgia didattica. Corpo, pedagogia, teatro. Editrice Morcelliana, 2021

[13] R. Massa, La peste il teatro, l’educazione, a cura di F. Antonacci e F. Cappa, Franco Angeli, 2001

[14] S. Aleramo, La donna e il femminismo, Editori Riuniti, 1978, in A. Attisani, L. Melandri, La vita impresentabile. Femminismo e corpo teatro. Un dialogo, Cronopio, 2024