Esiste un “prima” e un “dopo” nella lettura e comprensione, e quindi nel fronteggiamento, di un fenomeno complesso qual è dalle sue origini e soprattutto nel suo sviluppo, la camorra.
Siamo alla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta, quando, grazie all’iniziativa di Pino Acocella, in quegli anni Direttore della Scuola sindacale Cisl per il Mezzogiorno con sede a Taranto, prende corpo l’idea di istituire a Napoli, presso la Fondazione Colasanto della Cisl Campania, l’«Osservatorio sulla camorra».
Il terremoto in Irpinia e la trasformazione del Dna della camorra
In quell’epoca, nel 1980, il 23 novembre, la Campania visse uno dei suoi eventi più tragici, il terremoto dell’Irpinia, che non fu solo una catastrofe umana, con la morte di oltre 2700 persone e trecentomila rimaste senza casa, ma segnò la svolta imprenditoriale, organizzativa e affaristica della camorra, cui fecero da volàno i fondi pubblici stanziati per la ricostruzione.
Come ricorda lo stesso Acocella, proprio il cambiamento del Dna della camorra, che si candidava al governo dell’economia a fini criminali e di potere, andando oltre il controllo del territorio attraverso le attività illegali, accelerò in casa Cisl la costituzione dell’Osservatorio, in quanto emergeva «la previsione preoccupata che il Sud avrebbe rischiato di essere investito da una inflazione locale, con gravi conseguenze per i nostri destini economico-sociali, ma soprattutto perché la camorra avrebbe colto l’opportunità per ampliare la propria area di influenza, dal momento che il post-terremoto sarebbe stato un’occasione di rafforzamento degli affari da parte del clan della criminalità organizzata».[1]
Sin da allora, solo a pochi appariva chiaro che non ci si trovava di fronte alla crescita di un manipolo di criminali organizzati, come tendeva ad affermare una certa retorica dominante nella maggior parte dei media e dell’opinione pubblica, ma che si venisse impiantando un vero e proprio sistema di governo del territorio, grazie all’alleanza con imprenditori compiacenti, e con parti corrotte delle pubbliche amministrazioni locali che consentivano alla camorra il controllo sulla spesa pubblica e sugli appalti.
La nascita dell’«Osservatorio sulla camorra» si proponeva quindi come uno spartiacque nell’analizzare e interpretare un fenomeno di criminalità organizzata che andava facendosi «sistema», sorretto da un’infrastruttura politico-affaristica, rispetto a una visione semplificatoria che continuava a considerare la camorra come un’organizzazione mafiosa di vecchio stampo. Quel cambio di paradigma culturale nel leggere un fenomeno complesso, diventò tema di ricerca scientifica, di approfondimento, di studio e dibattito pubblico, grazie ad Amato Lamberti, sociologo dell’Università di Napoli che Pino Acocella chiamò alla direzione dell’Osservatorio: «La consuetudine dei nostri confronti nella sede dell’Osservatorio sulla camorra – ricorda Acocella – poté così diventare – pur nella riservatezza che contraddistingueva carattere e lavoro di Amato – occasione preziosa di approfondimento continuo e generare – in tempi nei quali nessuno si occupava di quella questione nell’ambito della ricerca scientifica oltre ad Amato Lamberti – un centro di competenza nella materia che neppure in seguito (quando divenne “di moda” e crebbero i divulgatori e gli imitatori di Amato che non citavano mai l’originale) ha avuto eguale seguito altrove».[2]
La guerra tra i clan e le relazioni con la politica
Eravamo allora nel pieno della più feroce guerra tra clan della camorra, che, nel 1982, toccò il punto più alto facendo registrare oltre 250 morti ammazzati. Si fronteggiavano in Campania la Nuova camorra organizzata (Nco) del boss emergente Raffaele Cutolo, e la Nuova famiglia (Nf) di Zaza, Giuliano, Nuvoletta, Gionta e Bardellino. In palio c’era non solo il controllo del fiorentissimo mercato della droga, ma, nella prospettiva di Cutolo, soprattutto il superamento di ogni alleanza con Cosa Nostra siciliana di Totò Riina, alla quale erano affiliati i boss napoletani della Nuova Famiglia che ne condividevano strategie e affari. Un segnale fortissimo al riguardo arrivò da parte di Cutolo, allora detenuto nel carcere di Poggioreale, proprio durante la notte del 23 novembre del 1980, quando nel tumulto generale conseguente al terremoto, ammazzò, insieme ai suoi sodali, alcuni uomini di spicco del clan rivale. L’ascesa di Cutolo fu accompagnata da ulteriori dimostrazioni di forza attraverso atti criminali e omicidi. Nel 1981, in occasione di una nuova scossa di terremoto, ripetendo la scena dell’anno precedente, ordinò di ammazzare altri esponenti della Nuova famiglia. La sua ferocia, tuttavia, raggiunse l’apice qualche settimana dopo, quando pianificò l’assassinio del vicedirettore del carcere di Poggioreale, Giuseppe Salvia. Nella sua strategia criminale, ancorché comunicativa, Raffaele Cutolo intese dare una lezione esemplare e plateale a un onesto e rigoroso servitore delle istituzioni, che si era reso “colpevole”, ai suoi occhi, di usare con il boss di Ottaviano, che in carcere godeva di molti privilegi, come racconta la pubblicistica dell’epoca, il medesimo trattamento riservato a ogni detenuto. Qualcosa di intollerabile per Cutolo che nei giorni precedenti, a fronte di una perquisizione cui era stato sottoposto, arrivò addirittura a schiaffeggiare pubblicamente il vicedirettore Salvia per l’onta subita.
Ma l’evento di quegli anni che illustra appieno il livello di potere e di influenza politica che avevano raggiunto Cutolo e la sua organizzazione camorristica sulla vita pubblica nel nostro Paese, fu, nel 1981, la mediazione operata dal boss di Ottaviano con le Brigate rosse, dietro lauto compenso economico e la promessa di partecipare alla ricostruzione post-terremoto, per la liberazione dell’assessore regionale ai Lavori pubblici, della Democrazia cristiana, Ciro Cirillo: «A questo esito – scriverà nel 1993 la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante – sottolineando la dinamica inquietante dei fatti – non si giunge dopo un’efficace opera di intelligence, né dopo una brillante azione di polizia. Vi si giunge dopo trattative condotte da funzionari dello Stato e uomini politici con camorristi e brigatisti. Tre anni prima, durante il tragico sequestro dell’onorevole Moro, il mondo politico e lo stesso partito dello statista avevano respinto qualsiasi ipotesi di trattativa con i terroristi. La negoziazione, decisamente smentita nei primi tempi, è oggi riconosciuta senza infingimenti».[3] Più recentemente, della questione è tornato a parlarne il giudice Carlo Alemi, che per anni aveva seguito giudiziariamente il caso Cirillo; nel suo libro uscito nel 2018 ricorda: «Per la verità, dal primo momento in cui ho iniziato a indagare sul sequestro Cirillo, malgrado la Dc avesse negato tale circostanza, si era diffusa la notizia secondo cui, per il rilascio del Cirillo, era stato pagato un riscatto di tre miliardi di lire, di cui metà sarebbe stata versata alla Nuova camorra organizzata del boss Raffaele Cutolo (tale circostanza mi sarebbe poi stata confermata a verbale da diversi cutoliani)»[4].
Predatoria, parassitaria, simbiotica: l’azione della camorra secondo Amato Lamberti
Senza la politica, ha costantemente ricordato Amato Lamberti, la camorra sarebbe rimasta soltanto
un’associazione criminale. E ciò emerge in maniera chiarissima anche dalla sentenza emessa nel processo denominato Spartacus, che portò alla condanna – dal primo grado alla sentenza definitiva della Cassazione – dei boss del clan dei Casalesi (Schiavone, Bidognetti, Iovine e Zagaria), un’organizzazione nata dallo scontro tra la Nco di Cutolo e la Nuova famiglia e che tra i tanti efferati crimini si macchiò anche dell’uccisione, nel 1994, di don Peppe Diana a Casal di Principe.
Spartacus, non fu un processo contro una banda di criminali, ma contro lo strapotere di quella che fu denominata la «camorra imprenditrice», e che secondo gli studi dell’Osservatorio sulla camorra si sviluppava almeno su tre livelli: predatorio, parassitario, simbiotico. In un approfondito saggio apparso nel 2009 su “Quaderni di Sociologia”, Amato Lamberti suggeriva di distinguere nettamente questi tipi differenti di modalità adottate dalla camorra, evitando con cura di accomunarli genericamente sotto l’etichetta di “criminalità organizzata di tipo mafioso”, e di comprenderli dentro una successione evolutiva.[5]
Il primo livello, ossia l’azione “predatoria” della camorra, si sviluppa attraverso la minaccia, il ricatto, la violenza, finalizzata a “vendere protezione”: una impresa «che assicura e fornisce servizi illegali, come quelli della protezione delle persone, della sicurezza delle attività economiche, del contrabbando di merci, del gioco d’azzardo, dell’usura, richiesti dai mercati illegali».[6] L’altra faccia di questa presenza sul territorio riguarda la rappresentanza sociale della camorra, soprattutto nei quartieri popolari, al fine di garantire un reddito, lavoro e sicurezza ai giovani e soprattutto ai familiari di camorristi finiti in carcere: una sorta di sostituzione dello Stato nel prelevare risorse, imponendo il pizzo, e redistribuirle per creare consenso e fare proseliti.
Segue un secondo livello, cosiddetto “parassitario”, che vede impegnata l’impresa criminale camorristica nella produzione e nel commercio di beni e servizi illegali: contrabbando di sigarette, sfruttamento della prostituzione, spaccio di droga, lotto clandestino, riproduzione di Cd e Dvd falsi, ed altre attività simili. In tal modo, la camorra crea una concorrenza sleale con il mercato legale, producendo e commercializzando prodotti e servizi a prezzi imbattibili.
Vi è, infine, un terzo livello che Lamberti definisce “simbiotico”, ossia di fusione, interconnessione, cooperazione, come se l’organizzazione camorristica si mimetizzasse nella società, in grado – come nel settore dell’edilizia – di operare sia sul mercato legale che su quello illegale, ad esempio partecipando alle gare di appalti pubblici e contestualmente costruendo lotti immobiliari in maniera abusiva.
Più in generale, proprio per l’avidità di denaro e iper la necessità di poter disporre di grossi capitali e in tempi brevi, la camorra imprenditrice dedicò in quegli anni un’attenzione particolare sia al settore dei rifiuti, specie di quelli nocivi e tossici e al loro costosissimo (per le amministrazioni pubbliche) smaltimento – contribuendo peraltro in maniera decisiva all’inquinamento ambientale in particolare in quella che poi è stata chiamata Terra dei fuochi – sia a quello dell’edilizia nelle sue diverse attività, soprattutto con il controllo del mercato del calcestruzzo e del movimento-terra, che consentivano alla camorra di imporre monopolisticamente il prezzo e quindi di prelevare a monte il pizzo sull’attività delle imprese.
Amato Lamberti: studioso, maestro e gentiluomo
Amato Lamberti, oltre che un autorevolissimo ricercatore e studioso, è stato anche un maestro, soprattutto per il suo coraggio ed entusiasmo nel portare avanti, malgrado difficoltà, intimidazioni, minacce, il suo generoso impegno, facendo dell’Osservatorio sulla camorra anche un punto di riferimento per gruppi, associazioni culturali, sociali, ecclesiali, e per quei giovani che si dedicavano alla ricerca e allo studio di un fenomeno che condizionava pesantemente la vita delle imprese, delle istituzioni e dei cittadini. Tra questi giovani c’era anche Giancarlo Siani, un giornalista poco più che ventenne, che scriveva per “Il Mattino” di Napoli, raccontando quotidianamente l’ascesa e le gesta criminali della Nuova famiglia di Valentino Gionta, in un territorio, devastato socialmente e in crisi economicamente, come Torre Annunziata.
Siani era affamato di sapere e desideroso di capirne sempre di più; il suo impegno di cronista era alimentato da una grande passione civile, la stessa di Amato Lamberti, intellettuale raffinato e fuori dagli schemi. Il loro incontro, per entrambi, si rivelò particolarmente significativo, ma che aveva già avuto punti di contatto sia all’Università di Napoli, dove Siani seguiva le lezioni di Sociologia dell’arte e della letteratura di Lamberti, prima che lo stesso assumesse la cattedra di Sociologia della devianza e della criminalità, quindi attraverso la rivista della Cisl «Il Lavoro nel sud», con la quale Siani collaborava e nella cui sede si trovava anche l’Osservatorio sulla camorra.[7]
L’attività giornalistica e investigativa di Giancarlo Siani era diventata insostenibile per la criminalità organizzata, per questa ragione la camorra, il 23 settembre del 1985, per mano del clan dei Nuvoletta lo uccise mentre rientrava a casa, a bordo della sua Mehari di colore verde. Il giorno prima di essere ucciso Siani aveva scritto per “Il Mattino” di Napoli l’ennesima tragica cronaca da Torre Annunziata dedicata ai cosiddetti muschilli (tradotto dal napoletano: i moscerini), ossia quei ragazzini di 10-12 anni utilizzati da nonni e genitori affiliati ai clan camorristici per consegnare a destinazione le bustine di droga. Chiudendo il pezzo, Siani si chiedeva: quale futuro ci sarà per loro?
Alla morte del giornalista e amico Giancarlo, Amato Lamberti volle ricordare che «anche alla “gente perbene” Giancarlo Siani era diventato insopportabile. E non solo perché, con i suoi articoli e col suo muoversi a caccia di informazioni e riscontri, ne disturbava, complicava gli affari, puliti o meno che fossero, ma perché “sporcava” l’immagine di una città che per loro, i “perbene”, aveva sì dei problemi, ma andava presentata complessivamente sana e operosa. Aveva quindi tutta la città contro: camorristi e benpensanti».[8] Un fenomeno così pervasivo necessita peraltro di condizioni ambientali favorevoli, di un’ampia area grigia, o di quelle che Lamberti chiamava facilitazioni che a Napoli e in Campania con la crescente disgregazione sociale e la forte precarizzazione della vita, soprattutto delle giovani generazioni, ampliava il consenso e lo spazio di manovra della camorra. Un contesto attraversato da una diffusa subcultura deviante che finiva per coinvolgere anche fasce sociali che, per cultura, tradizioni e condizioni di vita, ne erano estranee.[9]
Guardando a distanza di anni ciò che è accaduto a Napoli e dintorni, si può dire che l’esperienza dell’Osservatorio sulla camorra è stata decisiva per trasformare una realtà che sembrava in balia di un destino immodificabile. Innanzitutto, per come è nata: radicata nel sindacato, nella Cisl, e anche negli studi sul Mezzogiorno degli anni Ottanta. Ricorda in proposito Pino Acocella che l’Osservatorio non solo organizzò un convegno, pubblicandone gli atti, su “Il Sindacato contro la camorra”, ma stese il dossier Lo Stato sociale nel Mezzogiorno, curato dallo stesso Acocella, con Amato Lamberti, Gerardo Ragone, Amalia Signorelli e Salvatore Vinci, che fu pubblicato sul n.21 della rivista Cisl «Il Progetto». Ma l’esperienza dell’Osservatorio è stata importante anche per ciò che ha prodotto, alimentando con il suo approccio multidisciplinare e interdisciplinare una progettualità sociale e una cultura della prevenzione che considera l’importanza ma anche l’insufficienza di qualsivoglia politica di ordine pubblico proposta per curare un male che affonda le radici nella cultura e nel senso che le persone e soprattutto le giovani generazioni conferiscono alla loro esistenza e alle relazioni con gli altri. Negli ultimi due decenni, la camorra è stata quanto meno azzoppata e oggi fa fatica a rialzarsi – malgrado i continui tentativi di riorganizzarsi e che invitano a tenere altissima la guardia – per i molti colpi subiti sia dalla magistratura che dalle forze dell’ordine, ma soprattutto dal mutamento di clima intorno ad essa, cui hanno contribuito molte iniziative nate dalla società civile e che vedono protagonisti soprattutto i giovani. Penso a esperienze positive, vere e proprie bussole dell’innovazione sociale ed economica, che hanno rovesciato relazioni sociali familistiche e oppressive, e inaugurato quelle generative non solo dell’individuazione soggettiva e collettiva, ma anche di un’economia civile e di lavoro dignitoso. È accaduto, ad esempio, nel Rione Sanità con la valorizzazione del patrimonio storico-artistico grazie alla progettualità di padre Antonio Loffredo e dei giovani della cooperativa La Paranza, oppure nelle periferie durissime di Napoli Est, attraverso l’azione educativa dei Maestri di Strada con Carla Melazzini e Cesare Moreno, o nell’agro aversano e nel casertano con le diverse attività nel campo sociale ed economico messe in piedi dal Consorzio Nco – Nuova cooperazione organizzata – da Aversa, a Casal di Principe, a Sessa Aurunca. E potremmo allungare all’infinito l’elenco delle innumerevoli e belle esperienze che hanno cambiato la cultura e il volto dei territori rigenerando relazioni di comunità e sviluppo sostenibile sia sociale che ambientale.
Negli anni è cresciuta anche la consapevolezza che il modello camorristico è affascinante soprattutto per quei giovani costretti sin da bambini – come accade ai muschilli raccontati da Giancarlo Siani – a respirare già nella propria famiglia, nel vicinato, una cultura che, in assenza di altri riferimenti, seduce perché dà riconoscimento sociale, e assicura in tempi rapidi immagine, prospettive di “carriera” e guadagni che nessun lavoro, nessuna professione – che costa fatica e impegno, studio e sacrifici – anche quelle socialmente e redditualmente più remunerative, sono in grado di offrire.
Amato Lamberti, ha indicato, in questo senso, una strada prioritaria, quella educativa e della cura delle relazioni e degli ambienti di vita, ricordandoci che per combattere la camorra bisogna partire dal sottosistema di conoscenze, credenze e atteggiamenti delle persone. «Tali conoscenze, credenze e atteggiamenti – scriveva – devono esistere prima di tutto nell’ambiente di vita del soggetto e vengono assunte e incorporate nella personalità allo stesso modo degli altri elementi della cultura circostante… È l’organizzazione sociale a determinare la distribuzione di devianza e conformità, in quanto definisce la struttura della rete di interazione sociale per cui si acquisiscono i gruppi di riferimento e si attua il processo di apprendimento della cultura»[10].
Amato Lamberti, morto nel 2012 all’età di 69 anni, ha lasciato una grande eredità e un patrimonio di studi, di ricerca e di metodo, da non dispendere. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo lo ricorda come un uomo gentile, rigoroso, sobrio, generoso, coerente. Virtù che portò anche nell’impegno politico e nelle istituzioni. Fondatore dei Verdi a Napoli, rivestì le importanti cariche prima di Assessore alla Normalità al Comune di Napoli nella giunta Bassolino, dal 1993 al 1995, e poi dal 1995 al 2004, quella di Presidente della Provincia di Napoli.
[1] G. Acocella (2022), Ricordo de l’«Osservatorio sulla camorra». In memoria di un amico, in (a cura di Nino Daniele), Amato Lamberti e Giancarlo Siani, Storia di passioni civili e lotta alle camorre, IOD Edizioni, 2022.
[2] G. Acocella, Ricordo de l’«Osservatorio sulla camorra». In memoria di un amico, op. cit.
[3] https://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/stampati/pdf/36362.pdf
[4] C. Alemi (2018), Il caso Cirillo. La trattativa Stato-BR-camorra, Tullio Pironti Editore.
[5] A. Lamberti (2009), La tenaglia della «camorra»: politica, economia e criminalità organizzata in Campania, “Quaderni di Sociologia”, 50.
[6] Idem.
[7] L. Brancaccio (2022), Il contesto storico della collaborazione tra Amato Lamberti e Giancarlo Siani, in (a cura di Nino Daniele), Amato Lamberti e Giancarlo Siani, Storia di passioni civili e lotta alle camorre, IOD Edizioni.
[8] A. Lamberti, Aggressiva, martellante e coraggiosa: questa è l’informazione che fa paura alla camorra, Osservatorio sulla camorra, ottobre 1985
[9] A. Lamberti, Materiali per una analisi sociologica del fenomeno camorra, «Osservatorio sulla camorra», I, 1, maggio 1983
[10] A. Lamberti, La camorra. Materiali per una analisi sociologica, Osservatorio sulla camorra, Bollettino, maggio 1983, Volume I.