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Mio padre, nell’ultimo periodo della sua vita, aveva iniziato a riflettere sulle dimensioni della democrazia economica sia al livello istituzionale che al livello di democrazia partecipativa dal basso.

Al livello istituzionale stava ideando teorie e definendo strumenti che consentissero il dialogo e la ricerca di un accordo tra i grandi attori sociali, mentre per gli aspetti specifici si sarebbe demandato ad una contrattazione decentrata[1] per agevolare il coinvolgimento e la tutela diretta dei lavoratori e per mantenere una valvola di sicurezza, in azienda e nei luoghi di lavoro, in cui convogliare la conflittualità sociale connessa.[2]

Nelle riflessioni che stava portando avanti aveva lucidamente previsto, e riportato in alcuni articoli in modo provocatorio, la futura definizione del mondo del lavoro ed anticipava già nei primi anni Ottanta fenomeni che si sarebbero verificati molti decenni dopo come i “mini-job”, la possibilità dello smart working, l’inadeguatezza degli uffici di collocamento e la necessità di una loro riforma[3] per poterli rendere in grado di offrire a chi è disoccupato i posti di lavoro che si rendevano disponibili sul mercato. Vi riporto un suo intervento estratto da una intervista[4] del 1984, che potremmo definire visionaria, in cui afferma:

«Noi stiamo andando verso un tipo di forza lavoro che si comporterà sempre più in base a criteri di duttilità e mobilità: non è scritto da nessuna parte o meglio non è certamente una legge di natura che gli operai e gli impiegati debbano lavorare 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, per quattro settimane al mese e per 11 mesi all’anno e sempre nello stesso posto. Noi dobbiamo al contrario prevedere un panorama in cui quello che oggi consideriamo un lavoratore dipendente standard lavorerà per tre ore alla Olivetti, per altre 3 ore presso un’altra azienda della stessa città, e poi magari avrà (se è un impiegato) del lavoro di consulenza o simile da svolgere a casa per un’altra azienda ancora; ed è chiaro che anche lo sviluppo delle nuove tecnologie faciliterà questo tipo di evoluzione. Magari la moglie di questo lavoratore si comporterà allo stesso modo e finiranno per assomigliare (altra provocazione) ad un dentista nel senso che passeranno da un lavoro all’altro con la stessa facilità con cui un dentista cambia i pazienti. Una evoluzione di questo tipo pone dei problemi formidabili al sindacato, che dovrà rappresentare ed organizzare una forza lavoro per la quale non esiste più il cosidetto mercato del lavoro interno, il “posto” di lavoro immutabile, dal quale si esce soltanto per andare in pensione, ma pone anche problemi enormi di riorganizzazione interna alle imprese molti dei cui dipendenti – come già oggi siamo largamente in grado di prevedere – non si recheranno nemmeno più fisicamente sul posto di lavoro, essendo in grado di svolgere attivamente da casa la propria attività».

Nell’analisi di questi temi mio padre non si poneva solamente il problema dell’individuazione degli strumenti politici ed istituzionali in grado di gestire in futuro questi fenomeni, ma si poneva anche il problema della creazione degli istituti normativi che avrebbero dovuto disciplinarli.

Pur restando concentrato nelle sue analisi sull’individuazione di strumenti istituzionali adatti alla gestione dei futuri sviluppi del mercato, aveva sviluppato una sensibilità per gli aspetti giuslavoristici, probabilmente grazie al confronto e all’amicizia con Gino Giugni e Tiziano Treu.

In alcune sue interviste affronta la necessità di una riforma del mercato del lavoro e riflette sul problema di conciliare le richieste di decentramento contrattuale della base con la necessità di una politica dei redditi che tenga conto della regolazione dell’economia.

«La politica dei redditi deve costituire lo scenario macro economico all’interno del quale i contratti aziendali, di tipo comprensoriale per aziende assimilabili per produzione o dimensione, possono trovare il loro ruolo specifico». [5]

E dava rilevanza al fatto che la contrattazione, per essere credibile, dovesse avvenire secondo regole definite riconosciute da tutti gli attori sociali. A tal riguardo vi riporto una sua sintesi tratta da una intervista dell’aprile del 1984 a “Piccola industria”:

«Certo è che, anche su questo terreno, la libertà aziendale deve poter essere esercitata nell’ambito delle norme che la regolano e che il movimento operaio del sindacato debbono darsi. La libertà vera è sempre condizionata, ma, al contrario del coraggio di Don Abbondio, bisogna sapersela dare». [6]

Un altro aspetto su cui stava riflettendo mio padre era il tempo libero, che da molti oggi è considerato un “bene di lusso” del terzo millennio. In una intervista del 1984 a “La Repubblica” mio padre lo definiva già come tale:

«Il tempo libero è l’unico bene di lusso che, in rapporto al reddito individuale, è fortemente diminuito, anziché aumentare, dal dopoguerra ad oggi. Le statistiche disponibili mostrano, inoltre, che ciò è vero da noi assai più che in tutti gli altri paesi industrializzati».[7]

Si poneva, e poneva all’attenzione delle parti sociali e del dibattito politico, il problema della conciliazione del lavoro con le esigenze familiari, proponendo la creazione di istituti contrattuali (contratti “part-time”[8] intesi non solo in termini di orario ridotto, ma anche e soprattutto di giorni infrasettimanali, venerdì libero, allungamento delle ferie annuali e periodi sabbatici di aggiornamento professionale) che il lavoratore poteva scegliere e, nel caso, doveva contrattare con l’impresa, attraverso il consiglio di fabbrica, con un anno d’anticipo per consentire le necessarie misure di riorganizzazione del lavoro.

Nella proposta di definizione di questi istituti mio padre pensava sia alle esigenze dei lavoratori (solo il lavoratore poteva chiedere il part-time), che delle imprese che, oltre a dover avere il tempo di organizzare le esigenze produttive, non dovevano essere aggravate da costi aggiuntivi nell’accordarlo (ad es. gli accantonamenti sanitari e pensionistici che dovevano essere integrati attraverso forme di assicurazione privata).

Personalmente credo che la maggiore eredità di mio padre, sia come impegno scientifico che come partecipazione di idee e di contributi, sia stata nella definizione di un sistema teorico in grado di consentire la partecipazione dei lavoratori alla definizione delle manovre di politica economica e nella definizione di configurazioni istituzionali in grado di poter creare e far funzionare un equilibrio collaborativo tra i maggiori attori economici e sociali (sindacati, organizzazioni degli imprenditori e governo), sia a livello macro-economico che a livello territoriale.

La sua proposta di un sistema “neo corporativo decentrato”, nonostante rappresenti una apparente contraddizione in termini, era un costrutto teorico internamente coerente in cui gli agenti decentrati agivano a livello di fabbrica, mentre le parti sociali determinavano la macro-contrattazione all’interno di un sistema di relazioni industriali.

Con gli strumenti forniti dalla teoria “neocorporativa decentrata” potevano essere definite delle configurazioni istituzionali in grado di poter creare e far funzionare un equilibrio collaborativo tra i maggiori attori economici e sociali (sindacati, organizzazioni degli imprenditori e governo) e mio padre stava riflettendo sulla definizione delle istituzioni in grado di poter creare ed alimentare questo “gioco collaborativo”.

Per poter descrivere la formulazione teorica che era riuscito ad elaborare poco prima che lo uccidessero parto da un suo lavoro originariamente intitolato The regulation of Inflaction and Unemployment[9] pubblicato postumo e disponibile tradotto nella raccolta delle sue pubblicazioni scientifiche L’utopia dei deboli è la paura dei forti.[10]

Partendo dalla teoria, conosciuta e condivisa ai suoi tempi, dei beni pubblici di Paul Samuelson, Ezio definisce la “stabilità dei salari e dei prezzi” come un “bene pubblico anomalo” che, a differenza di altri beni pubblici come i lampioni, non è garantito dal Governo o dalla società nel suo insieme, ma dipende dal comportamento di un particolare gruppo sociale: i lavoratori e le loro organizzazioni.

Nel descrivere la sua teoria analizza il funzionamento delle relazioni industriali e dei tre maggiori attori sociali che vi partecipano, in rapporto a questo “bene pubblico anomalo” che ha una importanza diversa per i principali attori sociali.

I lavoratori e le associazioni che li rappresentano sono meno interessati al raggiungimento della “stabilità dei salari e dei prezzi”, ma sono più interessati ai possibili interventi pubblici del Governo nell’area della distribuzione del reddito, dei salari sociali, della politica del lavoro e della legislazione sociale, che definisce “macro beni”, a cui possono essere meno interessate altre categorie sociali.

Alcuni esempi di questi “macro-beni” possono essere i sussidi pubblici di disoccupazione, i fondi pensione ed i corsi di riqualificazione, l’assicurazione per la malattia, che recano un beneficio maggiore ai lavoratori.

Per raggiungere un equilibrio nel perseguimento del bene pubblico “stabilità dei salari e dei prezzi”, mio padre proponeva uno scenario politico in cui “macro-beni” differenti (pubblici e non) sono scambiati tra diversi gruppi sociali tramite una contrattazione, che in altri lavori definì “scambio politico”, tra i tre principali agenti sociali (sindacati, organizzazioni degli imprenditori e Governo).

Secondo mio padre la struttura delle relazioni industriali permetteva in via teorica uno scambio di “macro-beni” e riportava nell’articolo alcuni esempi di buon funzionamento di questo tipo di relazione industriale (Austria, Norvegia, Giappone, durante gli anni Settanta ed i primi anni Ottanta) ed alcuni casi in cui questo “scambio politico” non poteva aver luogo (Italia, Francia e Inghilterra, negli anni Settanta) a causa di un sistema di relazioni industriali che lui definì “decomposto”.

Nei “sistemi di relazioni industriali decomposti” almeno uno dei tre principali agenti sociali agiva in modo indipendente dagli altri e/o lo “scambio politico” non era credibile in quanto non avveniva secondo regole riconosciute.

Nel corso dell’articolo mio padre analizza le cause che impediscono lo “scambio politico” in modo dettagliato e nella parte iniziale le descrive a partire da definizioni economiche note e riconosciute come la teoria del “free riding” e dei “beni pubblici”.

Partendo dalla definizione di un “sistema di relazioni industriali decentrato” e dalla definizione della “stabilità dei salari e dei prezzi” come un “bene pubblico” la coesistenza di tanti piccoli sindacati e di un sistema di prezzi non stabile con aspettative di inflazione, fa sì che gli operatori siano indotti ad assumere un comportamento da “free rider”.

In questo contesto, infatti, se un piccolo sindacato evita di contenere le rivendicazioni salariali può, in un certo senso, passare inosservato ottenendo notevoli benefici in termini di maggior salario relativo senza accrescere in modo significativo il salario medio di inflazione.

Ezio fa notare, non senza una velata polemica, che in un sistema decentrato questa “importanza di non essere importanti” di natura marshalliana, comporta un aumento del salario reale del piccolo sindacato free rider che incentiva, all’aumentare del decentramento, il free-riding e porta nel suo complesso ad una inflazione più elevata e ad un salario reale più basso per tutti. Per dirla con le sue parole «singolarmente ogni gruppo di lavoratori o sindacato ha un comportamento razionale, ma il risultato complessivo può essere assolutamente irrazionale».

Il fatto che questo comportamento da free-rider passi più o meno inosservato e la resistenza alle richieste salariali da parte degli imprenditori, dipendono dal grado iniziale di stabilità dei prezzi (più i prezzi sono stabili ed il tasso di inflazione atteso è basso, più si noterà il comportamento del piccolo sindacato e maggiori saranno le resistenze degli imprenditori che avranno maggiori difficoltà a scaricare sui prezzi l’aumento dei salari, minore è la stabilità dei prezzi e maggiore è il tasso di inflazione attesa, più il free-riding passerà inosservato e maggiori saranno le possibilità per gli imprenditori di scaricare sui prezzi gli aumenti salariali) e questo determina una “non linearità” del fenomeno.

Nell’articolo mio padre analizza anche altre cause che possono determinare l’impossibilità di uno “scambio politico” anche per i sistemi di relazioni industriali più accentrati che consentono una minore possibilità di free-riding.

Per questi sistemi un notevole rischio viene da un possibile conflitto di natura politica e/o ideologica che può far sì che la “stabilità dei salari e dei prezzi” non sia più considerato un “bene pubblico” e finché il sistema non raggiunge una distribuzione dei salari e degli stipendi che gode di un ampio consenso, l’inflazione può essere un fenomeno permanente.

Ezio riconduce alla concorrenza tra diverse categorie di lavoratori per il mantenimento delle proporzionalità (una categoria che aveva uno stipendio proporzionalmente maggiore all’aumentare del salario ottenuto da un’altra categoria, sciopera a sua volta per avere un aumento che ripristini la precedente proporzionalità), definito in dei lavori precedenti come “danza propiziatoria”,[11] i tre “casi difficili” di Francia, Regno Unito e Italia almeno fino alla fine degli anni Settanta.

Nell’analisi di questi esempi evidenzia l’inadeguatezza del paradigma neoclassico e del suo assunto che  la distribuzione del reddito tra salari e stipendi e tasso di profitto derivi da rapporti di mercato fissati dalla tecnologia ed evidenzia come questa possa essere modificata dall’azione dei gruppi sociali ed in particolar modo dalla contrattazione collettiva e dai cambiamenti dello scenario politico, a seguito della fissazione delle imposte e dei trasferimenti a favore di alcuni gruppi o a sfavore di altri.

Nell’articolo Ezio rivendica una fondamentale indeterminatezza di mercato della distribuzione del reddito, da cui consegue la centralità di una sua determinazione politica, che immagino avrebbe ulteriormente sviluppato, ma che al momento definisce solamente nei termini di una contrapposizione con le teorie neokeynesiane che accettano il modello neoclassico della distribuzione del reddito (compresa la teoria del capitale umano e le sue implicazioni per struttura dei salari e degli stipendi), e giustificano la politica dei redditi come un tentativo di curare i numerosi malfunzionamenti del mercato come il potere monopolistico, la collusione tra gli imprenditori o la forza del sindacato in specifici settori dell’economia.

Nel suo schema teorico, la ricerca di una soluzione di equilibrio per la macro-regolazione di inflazione e disoccupazione era perseguita nella “centralizzazione neo-corporativa”, mentre la definizione delle regole del gioco a livello di fabbrica era perseguito in modo “decentrato” una volta raggiunto un accordo a livello macro.

La teoria del neocorporativismo partiva dalla definizione di tre aspetti di un sistema centralizzato di relazioni industriali: la neo-cooptazione dei sindacati, la centralizzazione della contrattazione collettiva e la neo-regolamentazione dei conflitti industriali.

Sulla base di queste tre determinanti mio padre costruì un “indice di neocorporativismo” per valutare il grado di accentramento di un sistema di relazioni industriali e la regolazione dell’inflazione e della disoccupazione.[12] 

Questo indice era composto considerando otto variabili:

  1. Il grado di neo-cooptazione dei rappresentanti sindacali e delle Confederazioni degli imprenditori;
  2. Il grado di accentramento della contrattazione collettiva;
  3. La percentuale delle forze lavoro coinvolta nella contrattazione collettiva;
  4. La durata media dei contratti di lavoro;
  5. Il grado di simultaneità dei rinnovi contrattuali;
  6. La misura in cui pochi contratti chiave possono influenzare il risultato di altri contratti;
  7. Il processo di neo-regolamentazione dei conflitti industriali;
  8. Il grado di indicizzazione dei contratti salariali ai prezzi (ad esempio del precedente trimestre o anno).

Ezio costruisce questo indice tramite un modello econometrico applicato a tre periodi temporali: 1968-1973 che precede la prima crisi petrolifera, 1947-1979 successivo alla prima crisi petrolifera e 1980-1983 successivo alla seconda crisi petrolifera.

I risultati empirici che riporta nell’articolo sono molto interessanti ed evidenziano che i sistemi con un maggior grado di neocorporativismo funzionano meglio in generale ed il vantaggio comparato di questi sistemi aumenta successivamente alle grandi crisi petrolifere: «Ne consegue che, finché il tasso di inflazione viene mantenuto entro limiti modesti, come nel periodo precedente il 1973, l’indice (di povertà, n.d.r.) di Okun non mostra variazioni particolarmente elevate al variare del grado di centralizzazione dei sistemi di relazione industriali. Ma quando le cose peggiorano, ad esempio all’indomani di entrambe le crisi petrolifere, il grado di neocorporativismo, “conta più di ogni altra cosa”».[13]

La centralizzazione neocorporativa e la politica dei redditi orchestrata tra i maggiori attori sociali costituiva lo scenario macroeconomico all’interno del quale i contratti aziendali di tipo comprensoriale per aziende assimilabili per produzione o per dimensione potevano trovare il loro ruolo specifico.

Nella parte finale di questo articolo c’è un rimando alla sua eredità intellettuale, purtroppo profetico, che è ancora estremamente attuale e spero sia ripreso da altri economisti: «Resta da svolgere un lavoro enorme, sia a livello empirico che teorico. C’è da augurarsi che i risultati preliminari qui riportati offrano ad altri studiosi spunti per future richieste».


[1] «Il nuovo sistema di relazioni industriali dovrà tenere ben distinti i due ruoli della contrattazione centralizzata (di predeterminazione dell’inflazione del salario monetario per settori) e aziendale (struttura salariale, passaggi di qualifica, gerarchia, divisione del lavoro e qualità della vita in fabbrica in azienda), secondo modelli di relazioni industriali di struttura del salario ben noti (quali l’Austria, Germania, i quattro paesi scandinavi ed il Giappone)» dall’articolo Il sindacaro”, gennaio-giugno 1984.

[2] Intervista ad Ezio Tarantelli a cura di Andrea Valentini, Il neocorporativismo decentrato su “Quale Impresa”, luglio to dopo il decreto, in  “Prospettive del Mercato del Lavo1984.

[3] Il sindacato dopo il decreto del 14 febbraio 1984, in “Prospettive del Mercato del Lavoro”, gennaio-giugno 1984.

[4] Intervista ad Ezio Tarantelli a cura di Andrea Valentini, Il neocorporativismo decentrato, in “Quale Impresa” luglio 1984.

[5] Relazioni industriali/Parla Tarantelli, Non C’è Futuro Senza Regole, “Piccola industria”, aprile 1984.

[6] Ibidem.

[7] L’undicesimo comandamento, “La Repubblica”, 17 luglio 1984.

[8] Lavorare meno lavorare tutti, “La Repubblica”, 17-18 giugno 1984.

[9] Articolo pubblicato postumo a cura di Lloyd Ulman (University of California, Berkley) e Dadiv SosKice (University College, Oxford).

[10] Filosa R., Rei G. (a cura di) (1988), L’utopia dei deboli è la paura dei forti, Bologna, Franco Angeli.

[11]«Purtroppo in Italia abbiamo un governo il quale ha necessità di rendersi credibile dopo trent’anni di riforme mancate; un imprenditore, il quale per troppo tempo ha considerato il lavoratore come l’oggetto del proprio comando e il sindacato come l’istituzione che gli impedisce di comandare; e un sindacato che ha coltivato troppi tabù. E mentre ciascuno ha danzato la sua danza propiziatoria l’economia va a picco, è andata a picco e temo continuerà ad andare a picco se non si cambiano le regole del gioco. E il problema della disoccupazione giovanile e il problema meridionale resteranno insoluti», dall’intervista di Ezio Tarantelli a “Tribuna Sindacale”, Rai2, 23 febbraio 1982.

[12] La scelta del termine “indice di neocorporativismo” si collega ad altri studi sul “grado di neocorporativismo” che cita in nota come riferimento per altri approcci (Lehmbruch, 1977; Lehmbruch e Schmitter, 1982; Smitter, 1974, 1977;  Winkler, 1976).

Nell’articolo Tarantelli rapporta i risultati empirici dell’indice proposto ad altri indici di “centralizzazione” precedentemente calcolati da Windmuller, 1975; Blyth, 1979; Headey, 1972; Wilensky, 1976; Schmitter, 1981; Ide, 1981 calcolandone il coefficiente di correlazione.

[13]Filosa R., Rei G. (a cura di) (1988), L’utopia dei deboli è la paura dei forti, Bologna, Franco Angelipag. 785.