Nel 1946 Giorgio Morelli è un giovane giornalista reggiano, cattolico e ex-partigiano.
Il 27 gennaio, mentre sta rincasando dopo uno spettacolo, due uomini gli sparano sei colpi da dietro una siepe.
Rimane ferito gravemente, e un anno e mezzo dopo muore per le conseguenze dell’attentato.
Ha solo 21 anni.
I responsabili non vengono individuati (peraltro non sporge denuncia). Ma con ogni probabilità si tratta di ex-partigiani comunisti che non tollerano la sua campagna di stampa contro i delitti da loro commessi durante e dopo la guerra.
Bastano queste poche note per capire perchè per 80 anni è stato difficile parlare di Morelli, tanto più a Reggio Emilia.
A lungo in effetti la sua memoria è stata imbarazzante.
Per i comunisti, che sapevano di avere qualcosa da nascondere.
Ma anche per i cattolici, che non volevano riaprire una dolorosa ferita.
Negli anni Novanta, quando il paradigma resistenziale è entrato in crisi e si è diffuso un revisionismo anti-antifascista, la storia di Morelli è stata recuperata, per lo più in modo strumentale, rovesciando la precedente retorica resistenziale in mera denigrazione dei partigiani comunisti.
Certo ci sono state alcune voci fuori dal coro, come quella di Sandro Spreafico, che occorre ricordare e ringraziare più di quanto non sia stato fatto.
E si deve citare Sandro Scansani, che nel 2009 ha meritoriamente pubblicato una ristampa anastatica della “Penna” (finanziata dalla Fondazione Manodori).
Ma tra silenzi e grida, ancora mancava una seria trattazione storiografica che ci raccontasse chi è stato Giorgio Morelli; che cosa ha fatto nella sua breve ma intensa vita; e anche dunque, perchè gli hanno sparato.
Questo è il merito del libro di Marta Busani: ricostruire la biografia di Morelli, non solo martire, ma credente, studente, partigiano, giornalista.
Non in tono agiografico, sebbene non se ne nasconda l’esemplarità; nè in modo polemico, anche se non si tacciono le gravi responsabilità nei suoi confronti.
Senza sconti, dunque, ma anche senza acrimonia.
Non per rinfocolare vecchie ferite, nè per alimentare memorie condivise che risulterebbero forzate quanto insipide.
Ma per fare storia, cioè raccontare con onestà e umanità, una pagina difficile quanto rilevante.
Così facendo, non solo si rende giustizia ad un uomo morto troppo presto e che ha vissuto con coraggio, ma si contribuisce anche ad arricchire il ricco e variegato mosaico della Resistenza, in particolare quella cattolica.
Sottraendola alle difese d’ufficio come alle tentazioni liquidatorie.
A ottanta anni dalla Liberazione, a trenta dal grande sforzo collettivo del 1995 (i cinque volumi coordinati da Gabriele De Rosa), il testo di Busani si inserisce a pieno titolo in un novero di testi importanti, da Giorgio Vecchio a Lucia Ceci, da Luigi Giorgi a Alessandro Santagata, che ci consentono oggi di trattare l’argomento con nuovi documenti (in questo caso le carte della Dc reggiana e quelle personali di Morelli) ma anche con nuovi occhi, capaci di articolare e distinguere, senza pregiudiziali e senza steccati.
In quest’ottica voglio ripercorrere qui le principali caratteristiche del testo, traendone anche spunto per alcune valutazioni più generali.
Il primo capitolo del libro illustra la famiglia e la giovinezza di Morelli.
Il padre Mario, perito agrario, è un esponente del Ppi e segretario dal 1919 del sindacato contadini; la madre, Maria Rossi, è maestra in provincia.
I fratelli sono Maria Teresa (1924), poi insegnante; Bianca (1927), medico e missionaria; Paolo (1929), sacerdote; Giuseppe (1931), sindacalista cislino su cui ha scritto di recente Francesco Lauria.
Giorgio passa l’infanzia a Borzano, un paese di collina sopra Reggio Emilia, dove poi continua a trascorrere le estati; ma dal 1935 la famiglia si trasferisce nel capoluogo, nella centrale via Toschi.
Si iscrive alla scuola commerciale (dove incontra il grande amico Eugenio Corezzola) e poi nel 1940 viene mandato all’Istituto agrario dei padri salesiani a Montechiarugolo.
Il padre spirituale don Pietro Pini intuisce le sue doti, ma la madre è scontenta del rendimento scolastico.
Nell’estate 1942 Morelli rientra a Reggio e convince i genitori a passare agli studi umanistici (e per questo prende lezioni private).
Intanto si impegna presso l’Istituto degli Artigianelli, una scuola professionale per orfani, con don Dino Torregiani, Giuseppe Dossetti, Osvaldo Piacentini.
È in questo ambente che, a guerra iniziata, cominciano ad avvertirsi inediti fermenti: nel 1941 gli incontri a casa di Alberto Toniolo; nel 1942 le conferenze in Ghiara per iniziativa di Corrado Corghi (dove arriva anche Giorgio La Pira); nel 1943 le attività del Movimento laureati con Dossetti e Sergio Pignedoli.
Dopo il discorso natalizio di Pio XII anche i cattolici reggiani si mobilitano; e l’occasione è il congresso eucaristico della montagna del maggio 1943, che Pasquale Marconi usa per tessere le fila di una rete antifascista.
Dopo l’armistizio questa organizza la “via delle canoniche”, dove vengono nascosti sbandati e perseguitati.
Si distinguono don Domenico Orlandini a Poiano (poi passa il fronte e si fa addestrare dagli inglesi) e don Pasquino Borghi a Tapignola (che prima nasconde i fratelli Cervi e poi ne ripercorre le orme, finendo ucciso dai fascisti al poligono di tiro nel gennaio 1944).
All’8 settembre 1943 Giorgio Morelli ha 17 anni e sta studiando da privatista per sostenere l’esame magistrale.
Ma ben presto viene coinvolto in una precoce e straordinaria impresa di Resistenza civile che trova nel volume di Busani una attenta ricostruzione.
L’iniziativa è di un gruppo di giovani neodiplomati (o ancora studenti), per lo più legati all’Ac di San Pellegrino e San Teresa, come Ubaldo Morini “Caput” o Mario Ferrari “Stariez”, che decidono di stampare e diffondere un foglio ciclostilato senza nome, ma caratterizzato da due righe colorate nell’angolo, a richiamare la bandiera (nata a Reggio Emilia). Da qui il nome di “Fogli Tricolore”.
Stampati in 150-200 copie, vengono provocatoriamente lasciati nelle cassette della prefettura, della questura, del Pfr.
Già il 14 settembre i “Fogli Tricolore” invitano i soldati tedeschi a disertare e il popolo reggiano a “resistere spiritualmente”, ma anche a creare reti clandestine, boicottare, raccogliere armi.
Ci sono riferimenti al Risorgimento e lodi al re. Per contro sono esplicite le critiche al fascismo per la sua “statolatria” liberticida; e si tenta di fare controinformazione rispetto alla propaganda della Rsi.
Dei nazisti si deplorano il razzismo e la violenza.
La parte costruttiva è ancora vaga: si rimanda a una futura “azione armata e violenta”, ma si temono le rappresaglie sulla popolazione.
I redattori, scoperti mentre tentano di rapinare la cassa dell’Ac, vengono dispersi; ma Morini riprende l’azione nel febbraio 1944, questa volta coinvolgendo anche Morelli.
Gli articoli si fanno più ambiziosi e articolati.
I giovani “mattacchioni” (così si autodefiniscono) rifiutano le offerte dei partiti, ma collaborano col Cln.
Si delinea una particolare attenzione al ceto medio, ma traspare anche una certa sensibilità sociale, come negli articoli di Morelli sul liberalismo o sull’organizzazione di classe.
Le parole d’ordine sono “verità libertà indipendenza”; e si auspica una collaborazione tra democrazia e comunismo.
Il foglio, pur diffuso clandestinamente, ottiene un insperato successo; e i tedeschi sono talmente preoccupati che vista l’incapacità dei fascisti di reprimerlo si mobilitano in prima persona, arrivando anche a stampare dei numeri falsi per diminuirne la notorietà.
Ecco dunque che la vicenda di Morelli aiuta a illuminare due importanti questioni storiche: il passaggio dei cattolici dal fascismo alla Resistenza (un percorso lento e articolato, in cui però la guerra assume un ruolo fondamentale e in cui incide spesso la “tela associativa” in cui sono inseriti); e dimensione civile di quest’ultima (da non confondere con la passività o la zona grigia).
L’autrice, citando Gorrieri e Scoppola, parla opportunamente di “sentimento di solidarietà nazionale” che si combina con “un convinto e meditato antifascismo”.
Il secondo capitolo segue Morelli in montagna, dove è costretto a fuggire di fronte alla repressione fascista e poi alla chiamata alle armi di Salò.
Dal marzo 1944 è a Felina, dove comunque continua il lavoro giornalistico, scrivendo sul bollettino partigiano “Il Garibaldino” (il comandante Miro era stato suo professore).
In luglio partecipa alla straordinaria esperienza della Repubblica partigiana di Montefiorino.
Dopo il rastrellamento di agosto torna in pianura e riprende a scrivere sui “Fogli”.
In questa fase collabora con la Sap guidata dall’amico Mario Simonazzi “Azor”.
In dicembre però, nell’ambito di una intensa campagna di repressione fascista, anche la madre e la sorella vengono arrestate (e liberate solo la vigilia di Natale per intercessione ecclesiastica).
Nel gennaio 1945 la situazione in pianura è ormai insostenibile e Morelli sale di nuovo in montagna, aggregandosi stavolta ai partigiani cristiani di “Carlo”.
Poco dopo arrivano anche i fratelli Dossetti; e Giuseppe esorta lui e Corezzola a riprendere a scrivere.
Si discute a lungo sul nome del nuovo giornale, che in un primo tempo deve chiamarsi “L’Alpino”; ma poi si decide per “La Penna”, che mantiene il riferimento alle penne nere, ma richiama anche il nome del monte sotto al quale i partigiani si erano rifugiati dopo il rastrellamento invernale.
Sono mesi intensi e difficili: il nemico non smette di colpire: le Fiamme Verdi perdono uno dopo l’altro tre vicecomandanti (Italo a gennaio, Elio nella battaglia di Pasqua del 1 Aprile, Grappino alle porte della città).
Ma anche dentro il Comando Unico il clima è teso: i comunisti reclutano e indottrinano; non hanno scrupoli verso i nemici prigionieri e neanche per i civili sospetti. Su tutti questi punti le discussioni coi cattolici sono aspre.
Sulla “Penna” (come sul “Ribelle” di Olivelli) si parla di amore e non di odio; e si guarda a una democrazia sostanziale (come dimostrano gli articoli di Dossetti ma anche il necrologio di Roosevelt).
Ma con l’approssimarsi della fine, emergono inevitabilmente le diverse visioni del dopo.
Tutti concordano sulla futura epurazione, ma i comunisti hanno fretta di fare giustizia, anche con le armi; mentre i cattolici attendono il dopoguerra per regolari processi, in cui condannare le azioni criminali e non solo le idee professate.
Tra le fila dei garibaldini si guarda con ammirazione ai russi e agli jugoslavi, e si comincia a parlare di ordine nuovo e di democrazia popolare.
Anche tra i cattolici emergono visioni diverse tra chi come Orlandini vuole mantenere un profilo militare e apolitico e chi, come invece Dossetti, spinge per trasformare le Fiamme Verdi in formazioni della Dc in modo da contrastare i comunisti.
Morelli accoglie con favore la riforma organizzativa del Cvl (Corpo Volontari della Libertà) che, a fine aprile, elimina i segni distintivi delle brigate.
Il 20 inizia la discesa verso la città; e il 24 pomeriggio “Il Solitario” è tra i primi a entrare a Reggio, con la biciletta di Dossetti e un fazzoletto tricolore al collo.
Viene subito reclutato per il nuovo giornale “Reggio Democratica” che esce il 25 con un suo commosso e commovente articolo di fondo intitolato “Ed ho pianto…”.
Morelli dunque partecipa attivamente alla Resistenza reggiana e ne incontra e frequenta i protagonisti.
La sua vicenda ci consente di analizzare dal di dentro le dinamiche di crescita del movimento (di cui sono uno specchio importante i giornali partigiani, recentemente mappati dall’Istituto Parri), ma anche di rilevarne le fragilità.
In particolare la sua concordia discors, che appare straordinaria se consideriamo le diverse culture politiche di partenza (e teniamo presente altri casi nazionali); ma che non fa velo ai differenti approcci alla lotta e alle diverse modalità di condurla.
Qui come ci hanno mostrato i recenti lavori di Piva e Santagata, occorre fare attenzione a non accontentarsi di divisioni superficiali; e di non limitarsi alla autorappresentazione degli attori.
Ma in generale è vero che i partigiani “rossi”, spesso tra l’altro provenienti dalla pianura, mostrano modi spicci, sono più disponibili alla violenza, tendono a politicizzare la lotta. E questo crea attriti con i “bianchi” che non sono disposti a transigere su certe cose e che quindi all’inizio del 1945, a Reggio come nella vicina Modena, decidono di formare una Brigata autonoma.
Nel terzo capitolo la guerra è finita, ma comincia un tormentato dopoguerra.
Non solo il conflitto ha lasciato un pesante lascito di distruzione e di morte; ma anche una coda di violenza (e di abitudine ad affidarsi ad essa come arma politica).
Morelli scrive su “Reggio Democratica” e poi sul “Volontario della Libertà”.
Ma si impegna soprattutto in una nuova impresa di Dossetti: l’Ogi, cioè una organizzazione giovanile trasversale in competizione con il Fronte della gioventù.
All’inizio di giugno del 1945 alcuni giovani, cattolici ma non solo (ci sono ad esempio Renzo Bonazzi e Romolo Valli) escono dal Fronte e tentano questo esperimento (in parallelo fanno lo stesso le donne che, guidate da Raimonda Mazzini, danno vita al Cif).
L’Ogi organizza concerti, corsi di lingue e conferenze (ad esempio quella del 9 luglio 1945 sul ruolo dei partiti). Nascono sezioni anche a Parma e Modena.
Il 24 agosto esce un numero unico della “Penna” (a cui Morelli non partecipa) che celebra don Borghi, ma critica la proliferazione dei Cln e cavalca alcune polemiche dell’Uomo qualunque.
Il VdL (Volontari della Libertà) risponde aspramente e a quel punto i cattolici escono dal giornale unitario e fondano, per iniziativa di Morelli e dei fratelli Corazzola, la “Nuova Penna”.
Dal 23 settembre 1945 al 24 agosto 1947 ne usciranno 24 numeri, ma con periodicità e veste grafica irregolare, a causa dei boicottaggi che colpiscono la redazione, la stampa, la distribuzione.
Il giornale si presenta inizialmente come l’organo ufficioso dei reduci delle Fiamme Verdi e dedica molte pagine alle loro gesta e alla commemorazione.
Ma ben presto cominciano le polemiche con l’Anpi e il Pci.
In ottobre ad esempio “La Nuova Penna” contesta i Cln che si aprono alle organizzazioni di massa comuniste.
A marzo abbraccia la causa di Trieste italiana, organizzando il 15 una manifestazione che viene interrotta con la forza dai “rossi”.
In estate polemizza con la Dc di Piani per la scarsa considerazione che sembra dare alla vicenda di Ca’ Marastoni (e saluta con favore la sua sostituzione con Romolotti a “Tempo Nostro”).
E all’inizio del 1947 simpatizza per il nuovo partito di Saragat.
Ma la disputa fondamentale riguarda gli episodi di sangue che costellano la Resistenza e il dopoguerra reggiani.
Nel quarto capitolo leggiamo che Morelli indaga sull’amico Azor, scomparso il 21 marzo e ritrovato cadavere il 3 agosto. Nel gennaio 1946 comincia a fare dei nomi, rilevando anche la misteriosa scomparsa delle denunce fatte in questura dalla famiglia. In febbraio i sospettati sono arrestati ma poi rilasciati (e scappano all’estero). Morelli torna a parlarne in dicembre, in occasione della inaugurazione del cippo a lui dedicato. Ma il processo si avrà solo nel 1950.
Seguono poi indagini sui preti uccisi, come l’amico don Iemmi o don Ilariucci o don Terenziani (e Morelli inizia anche a indagare su Rolando Rivi).
Si occupa di altri casi sospetti di partigiani scomparsi (da Anselmo Menozzi a Pietro Cipriani a Nanni Lasagni) e sui numerosi soprusi denunciati in provincia.
E avvia anche una campagna per il ritrovamento di fosse comuni.
Ovviamente questo atteggiamento indispone l’Anpi di Didimo Ferrari “Eros”, che comincia a accusare Morelli e i suoi di danneggiare la Resistenza e poi di essere dei reazionari.
“La Nuova Penna” risponde rilanciando, dicendosi disponibile a una nuova clandestinità.
A quel punto gli attacchi diventano personali; fino all’episodio dell’attentato ricordato all’inizio.
La notizia arriva sui giornali nazionali; e ora anche la Dc prende posizione, con una violenta accusa di Dossetti in Teatro il 5 febbraio.
Eros allora chiama in causa delle fantomatiche Squadre di Azione Mussolini che sarebbero responsabili dei delitti con l’obiettivo di screditare la Resistenza. Poi provvede ad espellere Morelli e Corezzola dall’Anpi (anche se poi, ma la Busani non lo dice, Morelli viene riconosciuto come patriota nel 1957).
A quel punto essi accusano Ferrari non solo di coprire ma di ispirare i delitti (come scrivono il 20 aprile, lui “ha armato l’anima dell’assassino”).
Fioccano le denunce: Gombia, ma anche l’ex amico Cocconi e addirittura Togliatti.
Persino Marconi chiede loro di moderare i toni. Ma trovano poi un alleato nel nuovo vescovo Beniamino Socche, che arriva in diocesi a maggio e subito gli viene ucciso un sacerdote, don Umberto Pessina.
Rigidamente anticomunista, Socche non solo scomunica gli assassini e interdice il suo paese, ma lancia una violenta campagna contro i partigiani, collaborando e in alcuni casi indirizzando le indagini.
Il clima si surriscalda ulteriormente ad agosto, quando nel giro di una settimana vengono uccisi anche
Mirotti, Ferioli e Farri.
A quel punto la campagna contro il “Messico d’Italia” diventa nazionale e si muove anche il governo.
“La Nuova Penna” parla di “foibe” emiliane con oltre 3.000 morti (numeri che oggi possiamo ritenere esagerati).
Come noto a fine settembre Togliatti è a Reggio dove pronuncia il famoso discorso Ceti medi e Emilia rossa.
Meno noto il fatto che contestualmente stigmatizzi i vertici del Pci locale (che poco dopo sostituisce il segretario Nizzoli con il fido – per il momento – Valdo Magnani).
Ma Busani ci ricorda anche che in quell’occasione viene impedito a Dossetti di salire sul palco per replicare.
Intanto “L’Unità” pubblica una sua controinchiesta sui delitti, totalmente autoassolutoria.
A ottobre “La Nuova Penna” deve sospendere le pubblicazioni: Morelli è a curarsi a Varese Ligure; e Corezzola è impegnato nel processo per diffamazione intentato da Domenico Braglia, sindaco di Castellarano (vinto dal giornale).
La firma del Solitario torna il 6 aprile 1947: in Tutti comunisti gli assassini chiede ai partigiani cattolici di uscire dall’Anpi.
Poi si trasferisce a Milano, dove la sorella gli procura una sistemazione e padre Gemelli gli offre cure specialistiche.
Trascorre le ultime settimane ad Arco di Trento, dove, dopo un apparente miglioramento, si spegne il 9 agosto 1947.
Busani ricorda le ultime lettere a familiari ed amici, in cui si mostra sofferente ma sereno.
Corezzola gli dedica un numero speciale della “Nuova Penna” destinato però a essere l’ultimo (e naufragano anche le previste edizioni di Parma e Modena).
La Dc cittadina gli intitola la sezione cittadina; e i Dossetti ne proseguono la battaglia, fino all’uscita dall’Anpi nel febbraio 1948.
Ma poi un lungo oblio.
Solo alla fine degli anni Sessanta, per iniziative dell’Alpi, il suo corpo verrà traslato nella cappella di Ca’ Marastoni, che tanto aveva voluto e sostenuto.
E solo nei primi anni Settanta “La Penna” verrà meritoriamente ristampata per iniziativa di Ercole Camurani (cioè di un liberale, non di un cattolico).
Il libro di Marta Busani ci permette dunque di rendere il doveroso omaggio a un protagonista dimenticato della Resistenza.
Ne illumina le doti spirituali e intellettuali, senza indulgere nell’agiografia: ne mostra infatti anche le ingenuità e le avventatezze.
Ma soprattutto evita di cadere nelle strumentalizzazioni: mischiare Morelli con i fascisti, come ha fatto Pansa, significa tradirne la memoria quanto i comunisti.
Come ricorda Giorgio Vecchio nella bella introduzione infatti, rilevare l’anticomunismo di Morelli (diretto peraltro contro le pratiche violente piuttosto che verso l’idea in quanto tale) non significa in alcun modo dimenticarne l’altrettanto spiccato antifascismo.
È auspicabile che questo volume, e le partecipate presentazioni che lo stanno riguardando, contribuiscano ad una discussione umana e matura.
Di Morelli dobbiamo ricordare la morte, se possibile chiarendo i punti ancora oscuri.
Ma dobbiamo soprattutto rievocare e tenere a mente il suo impegno da vivo per la libertà e la verità, al di là delle propagande ideologiche; e la sua capacità di guardare il futuro e perseguire il bene comune.
Come detto questo libro ci può aiutare anche a illuminare alcuni aspetti generali della storia e della memoria della guerra di Liberazione, con particolre riferimento al mondo cattolico.
A indagare cioè le specificità (quindi le virtù ma anche i limiti) della Resistenza cattolica, dei cattolici, dei democristiani: tre categorie che non si sovrappongono, nè esauriscono la gamma del rapporto tra fede e lotta.
Anche perchè occorre ricordare che i partigiani delle Garibaldi non sono tutti comunisti; e che anche tra i cattolici, come ci mostra il caso reggiano, esistono divergenze significative. E che oltre a quello religioso (e dentro di esso) pesano fattori territoriali e sociali, ma anche di genere e di generazione, che sconsigliano categorie troppo strette e interpretazioni troppo esclusive.
Di queste e altre cose collegate si è discorso il mese scorso a Roma in un importante convegno organizzato dall’Istituto Sturzo, dall’Isacem e dall’Università di Torino.
Tra gli organizzatori, i relatori e gli animatori di quell’incontro c’era Paolo Trionfini, studioso e amico da cui ho imparato tanto e con cui spesso abbiamo discusso di questi temi.
Due settimane dopo Paolo è venuto improvvisamente a mancare.
Non credo ci sia modo migliore di ricordarlo che farlo qui, dopo aver parlato di Giorgio Morelli, di cui pure aveva scritto. Come i redattori della “Penna”, Paolo ci sarà “sempre giovane nel cuore”.
Riferimenti bibliografici
L.Giorgi, Ermanno Dossetti, il Margine, Trento 2015
F.Piva, Uccidere senza odio, Franco Angeli, Milano 2015
Oltre il 1945, Viella, Roma 2017
T.Piffer, a cura di, Le formazioni della Resistenza autonoma, Marsilio, Venezia 2020
F.Lauria, Sapere libertà mondo. La strada di Pippo Morelli, Edizioni Lavoro, Roma 2020
A.Santagata, Una violenza “incolpevole”, Viella, Roma 2021
A.Pepe, “Sparate ma non odiate”, Ave, Roma 2022
G.Vecchio, Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee, Viella, Roma 2022
M.Busani, Giorgio Morelli “Il Solitario”, Studium, Roma 2024