Obiettivo di questo scritto non è fornire principi morali per l’esercizio del ruolo di dirigente sindacale né, tantomeno, ricette che permettano di garantire che il comportamento di qualcuno sia conforme alla nostra etica o, per essere più precisi, all’etica che vorremmo che gli altri seguissero.
Questo scritto cerca di trarre dalla letteratura filosofica, sociologica e psicologica alcuni concetti e strumenti di analisi che permettano di capire come è possibile, in questa fase storica, sostenere la coerenza fra etica e comportamenti in generale e in particolare nello svolgere il ruolo di dirigente sindacale. Partiremo dalla definizione di etica e di morale per poi indicare alcune cause della diffusione di questo tema da una ristretta cerchia di intellettuali alla vita corrente di organizzazioni, aziende, persone. Vedremo poi schematicamente quali sono stati considerati i fondamenti dell’etica umana nella modernità e quali sono i meccanismi che permettono di dare una motivazione all’incoerenza fra principi e comportamenti. Approfondiamo poi i connotati dell’etica nel ruolo del dirigente politico-sindacale, infine i rapporti fra questi ultimi e le scienze.
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come la, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia della quale si formo, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non e ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1974, pagg. 197-198
Etica, connotato prettamente umano
Il termine etica deriva dal greco èthos che significa «comportamento», «costume», «consuetudine». Il latino mores, da cui deriva morale, ha lo stesso significato e indicava le norme che, nel diritto romano, regolavano ogni aspetto della vita cittadina, tanto sul piano religioso quanto su quello profano. I termini etica e morale vengono spesso usati come sinonimi ed è per lo più lecito, ma nella letteratura esiste una differenza di significato. La morale corrisponde all’insieme di norme e valori di un individuo o di un gruppo, mentre l’etica, oltre a condividere questo insieme, è la branca della filosofia che studia i fondamenti che permettono di valutare i comportamenti umani, ovvero distinguerli in buoni, giusti, leciti, rispetto a quelli considerati cattivi, ingiusti e illeciti. L’obiettivo di questo scritto non è tanto definire il profilo morale del dirigente sindacale quanto quello di definirne i criteri di valutazione per cui va inserito nel campo della riflessione etica.
La rilevanza attuale dell’etica è data dal fatto che la natura umana ci offre, solo a noi per quanto sappiamo degli altri esseri viventi, la possibilità di distinguere fra bene e male. Un grande regalo, molto difficile da gestire. È venuta meno la tradizione, il potere coercitivo di comunità più piccole e chiuse, «l’ordine autorigenerante che riproduceva sé stesso senza riflettere» dice Bauman. Cambiamenti profondi e sempre più veloci rendono inutilizzabile nel ricorso al passato ricette chiare e semplici per decidere del presente. Il mondo si è fatto complesso, la rigidità di regole del passato lo rendeva duro, meno libero, forse più comprensibile. A scuola nelle versioni di latino abbiamo ripetutamente tradotto il rimpianto dei costumi dei tempi passati, poi è arrivato il cristianesimo, che oltre a guardare ad un radioso futuro ultraterreno non dichiara rimpianti per il passato di questo mondo. Un rimpianto che oggi è troppo spesso presente.
Un filosofo contemporaneo, Philip Pettit, ha spiegato in modo illuminante che siamo creature etiche perché possiamo distinguere tra ciò che desideriamo e troviamo attraente e ciò che invece consideriamo desiderabile e degno di essere desiderato. È quindi una capacità fondamentale dell’essere umano in quanto tale. Abbiamo la capacità di acquisire una etica. Non abbiamo norme etiche prescritte nel DNA. Le apprendiamo e sviluppiamo vivendo la relazione con altri, fin dalla primissima infanzia. La relazione con gli altri è sia emotiva sia razionale. Senza emozioni siamo indifferenti. Senza ragionamento non siamo in grado di correlare causa ed effetto, quindi orientare il comportamento nella direzione desiderata.
Attraverso i processi di socializzazione le persone adottano criteri morali che permettono di autoregolare la condotta, facendo ciò che dà loro soddisfazione e autostima, mentre evitano comportamenti contrari ai loro criteri morali che porterebbero sofferenza, senso di colpa e vergogna. Il percorso di maturazione che ci porta a divenire adulti è questo divenire consapevoli della responsabilità, rendersi conto che “si potrebbe fare altrimenti”, valutare le conseguenze del fare o non fare per noi e gli altri e scegliere.
La moralità non si riduce all’empatia e all’altruismo. Abbiamo alcuni elementi che si ritrovano anche nei primati superiori come la cooperazione e il senso di giustizia, ma gli esseri umani hanno sviluppato e continuano a sviluppare sistemi complessi di norme, giustificazioni, ragionamenti sui comportamenti.
Elaboriamo principi etici attraverso la relazione con gli altri e la relazione con gli altri li mette alla prova. Ci sono situazioni che spingono verso un comportamento che viola i nostri principi; rifiutarle permette di non incorrere nelle sanzioni interiori che i nostri standard ci infliggerebbero, tuttavia, allo stesso tempo, implica la resistenza a influssi ambientali ed espone a varie forme e gradi di sanzioni esterne. I nostri principi sono continuamente messi alla prova dal timore di essere esclusi da un gruppo, derisi, penalizzati nella carriera, subire insulti e violenza fisica.
Pertanto la capacità di definire criteri di distinzione fra i due insiemi, ciò che è attraente e ciò che è degno di essere desiderato, non è facile e ancor più gravoso è applicare tale distinzione al nostro comportamento quotidiano.
La domanda di etica nella società contemporanea
La riflessione etica è complessa e impegnativa. Eppure è una fatica alla quale ci sentiamo chiamati e che sembra sempre meno semplice eludere. Lo dimostra l’attenzione che c’è attorno all’etica nella società contemporanea. La parola «etica» è uscita dal ristretto circolo dei filosofi e la troviamo nei media, nelle aziende e nelle organizzazioni, nella politica. La domanda se ci sia o no corrispondenza fra ciò che attraente e ciò che è degno, è giusto, è bene, si pone in innumerevoli occasioni.
La crescita della densità del dibattito sull’etica è frutto principalmente di tre processi: crescente individualizzazione; indebolimento delle autorità; potenziamento tecnologico. Sono connessi fra loro e si alimentano reciprocamente.
Il processo di crescente individualizzazione consiste nell’aumento delle possibilità di scelte autonome per i singoli individui, della possibilità di differenziarsi dai gruppi sociali di appartenenza, l’indebolirsi dei vincoli che essi ponevano tradizionalmente. Ritengo più calzante l’uso di individualizzazione perché indica un fenomeno strutturale mentre con individualismo si indica un atteggiamento personale che ha assunto nel linguaggio corrente una enfasi negativa, pensiamo ad esempio quante volte viene indicato come un ostacolo alla sindacalizzazione e in generale alla solidarietà. Quello che osserviamo oggi non è un semplice atteggiamento, è l’attenuarsi dei vincoli dati dall’appartenenza di classe, ceto, cultura, genere che ha ampliato le possibilità di realizzare l’aspirazione generale ad esprimere la propria specificità come singola persona con una combinazione unica di ruoli e preferenze e il poterla variare a seconda dei contesti e nel tempo.
È evidente la contraddizione fra il desiderare che i comportamenti altrui siano più prevedibili e conformi a regole stabili e l’aspirazione come singolo a realizzare una nozione di individuo come entità originale e specifica che stabilisce in autonomia scelte e canoni di riferimento. La libertà altrui ci complica la vita, ma quella libertà è simmetrica alla nostra.
La condizione attuale è risultato di un lungo percorso. Lo sviluppo economico ha giocato un ruolo rilevante nel rendere la libertà di espressione individuale un fenomeno non ristretto a un élite privilegiata. Una tappa fondamentale è stata la rivoluzione industriale che ha reso unità produttiva prevalente il lavoro del singolo individuo, mentre nelle economie agricole e artigianali l’unità produttiva di base era prevalentemente la famiglia. Il successivo sviluppo tecnologico ha ridotto la quantità e pesantezza del lavoro, in primis quello domestico, riducendo vincoli per il ruolo delle donne in particolare, e il consumismo ha ulteriormente esaltato e accelerato il processo. Questo processo materiale ha sostenuto l’evoluzione della cultura, delle norme sociali e di legge orientate ad affermare parità di diritti e di libertà.
L’ampiezza di questa libertà non è certamente uguale per tutti. Zygmunt Bauman parla di «una ideologia della privatizzazione, una nuova ideologia per la nuova società individualizzata, in cui, come ha scritto Ulrich Beck, «ogni individuo, uomo o donna che sia, è invitato, sospinto e trascinato a cercare e trovare soluzioni individuali a problemi creati socialmente e ad applicare tali soluzioni a livello individuale, utilizzando capacità e risorse individuali.»
Il secondo processo, connesso al precedente, consiste nell’indebolirsi delle autorità di riferimento, dovuto da un lato al ridursi del sentirsi vincolati all’obbedienza dall’appartenenza ad una determinata collettività, dall’altro la concorrenza fra autorità diverse, ciascuna con un proprio sistema di valori.
A livello macro si manifesta in occidente da secoli con la separazione fra Chiesa e Stato e con la progressiva autonomia della sfera economica. La religione, che è stato il principale agente normativo morale, ha ridotto molto la sua influenza anche nel nostro paese. La ricerca Ipsos dell’autunno 2017 ha rilevato che quasi il 63% degli italiani si dichiara cattolico, ma solo circa il 27% partecipa alla messa almeno due volte al mese. Da quella ricerca emerge che pur restando socialmente rilevante il mondo cattolico è «tuttavia frammentato dal punto di vista delle opinioni sui temi d’attualità e delle opzioni politiche (in linea con il resto degli italiani)». Possiamo aggiungere che la pratica religiosa non garantisce dal punto di vista etico comportamenti coerenti con i precetti della Chiesa.
A livello micro l’affermarsi dello stile di vita urbano, dovuto alla concentrazione delle popolazioni nelle città e all’assunzione del medesimo stile di vita anche nei piccoli centri, ha diffuso l’anonimato e ridotto il controllo sociale operato tramite le relazioni di reciprocità, diminuendo l’obbligo a comportamenti che salvaguardassero la buona reputazione.
L’impatto dei due processi è forte in particolare sulle famiglie. Da un lato l’individualizzazione sta caratterizzando in maniera sempre più preponderante le relazioni tra i membri della famiglia. Mentre nelle società tradizionali la famiglia si configurava come comunità di bisogno, i cui mattoni erano gli obblighi di solidarietà per la mera sopravvivenza dei membri, nelle società contemporanee dei paesi più sviluppati il legame familiare è diventato fragile. Dall’altro lato i rapidi cambiamenti nella tecnologia, economia, società, rendono vari, articolati e mutevoli i ruoli, e hanno ridimensionato e scombinato le gerarchie. Il riferimento a modelli preesistenti diventa vago e le norme per la loro gestione vanno definite caso per caso.
La combinazione dei ruoli e il sistema normativo rende oggi ogni famiglia un universo peculiare che deve cercare un suo equilibrio senza poter contare sul riferimento a modelli delle tradizioni passate, anche di una sola generazione. Il famoso incipit di Anna Karenina «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» oggi è meno vero. Le vie della felicità si sono differenziate.
Questa complessità carica la famiglia di responsabilità mentre si riducono gli strumenti normativi a sua disposizione. Per fare un esempio fino a cinquanta anni fa per dei genitori era possibile un forte controllo sulle fonti d’informazione dei figli. Affermazioni come «questi non sono discorsi per bambini» potevano avere un senso, perché era effettivamente possibile escluderli da alcuni aspetti della vita per condurli gradualmente alla loro conoscenza. Oggi non più. Qui non si tratta di rimpiangere modelli autoritari e deteriori coercizioni. Si tratta di essere coscienti della complessità attuale della funzione educativa.
Il sociologo Ulrich Beck si è domandato allarmato «come cresceranno i figli se nelle famiglie le regole e le competenze sono sempre meno chiare? E questo è in qualche modo in relazione con la sempre più diffusa violenza giovanile?». Le opere di Massimo Recalcati hanno messo al centro l’evaporazione della funzione paterna, al di là del genere del soggetto che la svolga. Il loro successo, andato ben al di là della schiera degli addetti ai lavori, è un sintomo dell’esigenza di strumenti di riflessione su questi aspetti della contemporaneità.
Il terzo processo è il potenziamento tecnologico. Con ritmo crescente partire dalla rivoluzione industriale la tecnologia ha ridotto il condizionamento della natura sulle nostre condizioni di vita. Per gran parte dell’umanità i bisogni di alimentazione, abitazione, abbigliamento, svago hanno un’ampia gamma di soluzioni con un grado di soddisfacimento senza precedenti nella storia dell’umanità. Ma abbiamo sviluppato anche conoscenze che, in vario grado, ci rendono consapevoli dell’impatto sul pianeta di questi consumi. Sapere dei rischi o dei danni e comportarci in modo incoerente con tali conoscenze può mettere in conflitto i nostri principi e la nostra condotta.
In modo molto più diretto ci pongono di fronte a scelte etiche gli sviluppi della medicina. Hanno allargato in modo enorme le possibilità di intervenire sulla vita, dal concepimento alla morte. Le tecnologie mediche oggi offrono queste possibilità a milioni di persone nei paesi più ricchi e sviluppati. Non credo che occorra dilungarsi con esempi. Penso che tutti coloro che leggono questo testo siano venuti in contatto con situazioni, direttamente o riguardanti persone vicine come parenti o amici, in cui ci si trova di fronte a decisioni attinenti alla vita: se e come avviarla, mantenerla, concluderla. Questioni che solo due o tre decenni fa non si ponevano. Oggi la tecnologia ci offre poteri prima impensabili e la responsabilità di decidere. E ci pone, talvolta in modo drammatico, la questione sulla distinzione fra cosa è desiderabile e cosa è degno di essere desiderato. Una nuova frontiera si sta aprendo con gli sviluppi della robotizzazione. Pensiamo alle possibilità sempre più prossime di automobili a guida autonoma. In caso di incidente preferiamo che i veicoli siano programmati per salvare il maggior numero di vite possibili. Ma anche a costo di quelle dei passeggeri? Se trasporta un anziano deve sacrificarlo per salvare un bambino o viceversa?
Individualizzazione, indebolimento egemonia autorità e potenziamento tecnologico sono tre processi che hanno portato a connotare la società contemporanea come “liquida”. La formula di Zygmunt Bauman ha avuto tanto successo per la capacità di esprimere in modo sintetico ed efficace la realtà attuale.
Siamo più liberi e più incerti. Per evitare l’imbarazzo possiamo negare il problema, annullare la distinzione fra ciò che è attraente e ciò che è degno di essere desiderato promuovendo come legittimo o addirittura virtuoso ogni desiderio. Essa presenta il mondo come magazzino di potenziali oggetti di consumo e l’esistenza individuale come perenne ricerca di buone occasioni, il successo nella vita come accrescimento del valore di mercato dell’individuo. Una visione che si sposa bene con il modello consumistico, però espone alla frustrazione di una perenne insoddisfazione.
Bauman ha dedicato molta attenzione a questi aspetti della vita sociale, mettendo in luce gli elementi di disagio, di malessere che sono presenti nella vita di persone che hanno una condizione di benessere materiale, come singoli individui e come standard diffuso nella società, che non ha precedenti nella storia dell’umanità. La povertà e la ricchezza si assomigliano come poli estremi nel ridurre lo stimolo a domandarsi se qualcosa è degno o no di essere desiderato. Nel caso dell’estrema povertà la mera necessità di sopravvivenza può spingere a cogliere ogni occasione, che appare unica e irripetibile, per soddisfare un bisogno. All’estremo opposto la percezione di una gamma amplissima, quasi illimitata, di possibilità può annullare la necessità di darsi delle priorità.
Un consumo inconsapevole che nella nostra società attuale si è esteso dai beni materiali alle relazioni interpersonali. Era difficile immaginare che il mettersi in relazione con gli altri potesse cessare di essere il comportamento cosciente di una singola persona e diventare un bene di consumo acquistabile sul mercato. La tecnologia di internet ha permesso di inventare questo prodotto/servizio e il suo inserimento nei telefonini ha esteso la sua offerta potenzialmente all’intera popolazione del globo. La possibilità di avere relazioni si è ampliata rendendole allo stesso tempo sempre più superficiali. La crescita in estensione si accompagna a minore spessore e consistenza. La perdita di relazioni solide genera di conseguenza sentimenti di solitudine e insicurezza.
Sentimenti che a loro volta accentuano l’esigenza di relazioni solide e durature per affrontare «le acque turbolente» del mondo liquido-moderno. Amore e amicizia per essere solidi richiedono impegno costante, attenzione alla natura intrinseca del proprio partner, sforzo per comprenderne l’individualità e rispettarla. Inoltre richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né ostacolarne la felicità. Insomma, come sintetizza felicemente Bauman «l’amore non è qualcosa che si possa trovare, non è un object trouvé o un ready made. È qualcosa che richiede di essere creato e ricreato ogni giorno, ogni ora.»
Le fonti della morale moderna: libertà, altruismo e ragione
Kant ci ha insegnato che vi è un nesso inscindibile fra libertà e morale. Nella Critica della ragione pratica scrive: «se ora dico che la libertà è condizione della legge morale (…) la legge morale è la condizione a cui soltanto possiamo diventare consapevoli della libertà, voglio solo ricordare che la libertà è la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio conoscendi delle libertà. Poiché, se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci riterremmo mai autorizzati ad ammettere qualcosa come la libertà (…). Ma se non ci fosse alcuna libertà, sarebbe impossibile incontrare la legge morale in noi».
Il linguaggio di Kant non è facile, ma il concetto è semplice ed illuminante. La libertà di scelta per essere reale non può prescindere da criteri di scelta, da una visione che distingue bene e male, giusto e sbagliato. La volontà libera è inseparabile dalla consapevolezza della legge morale.
Libertà di scelta è poter seguire quello che si ritiene giusto. Ma è solo la capacità di definire ciò che è giusto e perseguirlo ci dà la percezione e la misura della nostra libertà. La presenza di questa consapevolezza interiore, di una “legge morale”, è una condizione necessaria per l’esercizio della libertà tanto quanto l’assenza di costrizioni esterne.
Un processo tanto rivolto verso l’interno, la coscienza, quanto verso l’esterno, la conoscenza della realtà del mondo. Un processo che non si conclude se non con la fine della vita. E che non è individuale perché, come abbiamo già detto all’inizio, entrambi gli aspetti sono alimentati dalle relazioni.
La religione può essere una strada per realizzare questo percorso. Una, non l’unica possibile.
Come non esiste morale senza libertà di scelta, senza riferimenti etici non siamo in grado di distinguere ciò che è attraente da ciò che è degno e siamo trasportati dalla corrente delle sollecitazioni a inseguire ciò che appare piacevole senza la capacità di progettare un desiderio.
Annullando la coscienza, riducendola al minimo con la rinuncia alla costruzione, imperfetta e parziale, di criteri di valutazione di giusto e sbagliato, il soggetto diviene puro terreno di conquista altrui. Senza una legge morale interiore non ci sono barriere all’azione manipolatrice, si aprono le porte ai poteri organizzati dell’economia, cultura, politica, e la scelta compiuta è solo l’esito dei rapporti di forza fra queste. Non è detto che questa condizione sia sgradevole, annulla il timore dell’errore e del sentirsi responsabili della nostra imperfezione, limitatezza e il senso di colpa che può seguirne. La libertà diventa libertà “dalla scelta” e non più “di scelta”.
La visione di Kant trova conferma nella filosofia contemporanea che si intreccia con la ricerca scientifica. Ne è un esempio l’elaborazione di Agnieska Jaworska. Si è dedicata al concetto di autonomia distinguendone due aspetti. «Prima di tutto una persona deve avere dei punti di partenza appropriati per prendere decisioni autonome. Verosimilmente questi saranno i suoi propri valori, i principi che guidano la sua vita. Il secondo aspetto è la capacità di condurre la propria vita in accordo con i propri valori. L’autonomia piena implica entrambi questi aspetti, ma credo che il primo sia molto più importante. Senza il primo l’autonomia è impossibile. La questione non si pone nemmeno. Senza il secondo, invece, l’autonomia è compromessa, ma un livello minimo di autonomia può essere realizzato. Questo ci importa specialmente in certe condizioni nella quali questi due aspetti dell’autonomia si scindono: il primo è presente, ma non il secondo. Per esempio, negli stadi intermedi della malattia di Alzheimer si può conservare la capacità di valutare e di dare valore a qualcosa, anche se non si è più in grado di capire come condurre la propria vita. (…) Queste persone hanno bisogno di assistenza per tradurre i propri valori in azioni concrete, per metterli in pratica nelle circostanze particolari delle loro vite. Quando sono assistite possono mantenere un certo livello di autonomia. (…) Può sembrare paradossale se si considera l’autosufficienza come l’essenza dell’autonomia. Credo, invece, che la parte essenziale sia la capacità di dare valore; questa è la radice del governo di sé. (…) Qualcosa di molto speciale che distingue gli agenti autonomi (le persone) da agenti non autonomi (la grande maggioranza degli animali non umani).»
La frase di Kant citata all’inizio può far supporre che l’elaborazione della morale sia un processo esclusivamente razionale. Non è così. Per il filosofo di Könisberg i principi etici non sono frutto di studio e ricerca intellettuale, bensì della «coscienza di un sentimento che vive in ogni cuore umano», della dignità della natura umana. Un sentimento che fa amare se stessi e gli altri in modo imparziale. Amare «sé stesso come uno di tutti coloro ai quali si estende il suo sentimento amplissimo e nobile».
Troviamo in questa concezione una rielaborazione del comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso», coerente con quella che Kant definisce legge fondamentale della ragione pura pratica: «agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, insieme, come principio di una legislazione universale». Ovvero i principi che applichi per orientare il tuo comportamento devono essere gli stessi che vorresti che gli altri applicassero per il loro comportamento nei tuoi confronti.
Un percorso razionale che potrebbe essere inteso come unico, con l’affermazione di norme assolute, valide per tutti e per sempre. Ma ragione e verità assoluta non sono compatibili. La razionalità umana è sempre limitata e lo sbocco normativo del principio kantiano non ha una risposta univoca. Se il percorso fosse unico diventerebbe totalizzante e combinato con il potere dello Stato diventerebbe un regime totalitario. La presa d’atto della limitatezza della razionalità umana si esprime nel pluralismo, in una concezione dello Stato come meta-progetto, progetto dei progetti da preservare con l’impegno della rinuncia alla eliminazione degli avversari.
Per applicare la legge fondamentale alla dimensione della libertà, la libertà che chiedo devo essere disposto a darla agli altri e i limiti che ritengo vadano posti alla loro libertà devono essere gli stessi che vanno posti alla mia. Se ammetto, ritengo opportune, necessarie delle eccezioni ad una qualsiasi regola queste devono valere tanto per me quanto per gli altri.
Quella semplice proposizione di Kant ha una grande potenza. Nell’affrontare la “ragione pratica”, ovvero cercare la risposta alla domanda «Cosa debbo fare?» Kant mostra come la filosofia possa davvero essere strumento per la vita concreta.
Ci sono ulteriori elementi che mostrano come l’etica non sia esclusivamente il frutto di sistemazione razionale, chiusa nelle barriere della logica. Anche i grandi moralisti britannici, di cui Kant accolse l’influenza, individuarono la fonte dell’etica nel sentimento. Per Hutcheson, Shaftesbury, Hume e anche Adam Smith, noto come uno dei padri della moderna scienza economica, i principi etici sono dati ultimi e indimostrabili e forniti dal sentimento, la sola facoltà che può fornire principi materiali della morale. Non è questa l’occasione per approfondire il loro pensiero, né ne avrei le capacità. Mi preme però sottolineare un aspetto delle opere di Adam Smith cancellato da una lettura “di classe” dei suoi testi. Una lettura che considero distorta, piegata ad interessi di parte. È notoriamente evidenziato solo il suo indicare l’egoismo come un fondamentale fattore di sviluppo economico mentre si omette l’importanza che Smith ha dato all’altruismo e alla necessità di regole che governino mercato e concorrenza. Smith è innanzi tutto un filosofo morale, docente di questa materia all’università di Glasgow. La sua prima opera importante è appunto la Teoria dei sentimenti morali. L’incipit è significativo: «Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante che da essa non ottenga altro che il piacere di contemplarla. (…) Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza altrui è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato. (…) Dal momento che non abbiamo esperienza diretta di ciò che gli altri uomini provano, non possiamo formarci alcuna idea della maniera in cui essi vengono colpiti in altro modo che col concepire ciò che noi stessi proveremmo nella loro stessa situazione»
Senza approfondire la riflessione sul pensiero e l’opera di Kant (in seguito Kant contesterà che l’etica possa essere fondata solo sul sentimento, non essendoci sentimenti di per sé capaci di universalità rigorosa) qui mi limito a concordare che il sentimento è un fattore etico non esaustivo: l’etica è frutto della combinazione dell’adesione a valori e di elaborazioni razionali.
Il fondamento sentimentale, emotivo dei principi morali ha trovato poi significativi riscontri scientifici un secolo dopo. Charles Darwin conferma l’altruismo come “importantissima emozione”. «Quale che sia la complessità dell’origine di questo sentimento, esso è di grande importanza per tutti gli animali che si aiutano e si difendono reciprocamente; e quindi si deve essere accresciuto tramite la selezione naturale; le comunità con un maggior numero di individui capaci di provare simpatia devono aver goduto di una maggiore prosperità e allevato una prole più numerosa»
Altri scienziati hanno proseguito nella strada aperta da Darwin studiando il comportamento degli “animali non umani”. Ha esaminato l’altruismo anche Danilo Mainardi, uno degli etologi più noti grazie alla sua attenzione nel produrre opere divulgative. L’altruismo si manifesta in vari gradi, a cominciare dalla cura verso gli altri più prossimi, la prole, ai quali è affidato dai genitori il mantenimento del proprio patrimonio genetico. Vi sono animali che abbandonano le uova fecondate senza alcuna cura, chi invece sceglie di depositarle in un ambiente favorevole, chi anche le accudisce con cura, e ancora chi prosegue la cura dopo la nascita e chi per anni durante l’infanzia e infine specie dove anche i parenti sono coinvolti nell’accudire. Qui si manifesta un livello superiore di altruismo: la collaborazione fra adulti che assume forme di reciprocità e dono. Anche in quest’ultimo caso si manifesta una gamma varia con diversi gradi di impegno.
Ma dobbiamo stare attenti a non proiettare la dimensione umana sugli altri animali. Danilo Mainardi afferma che alla luce degli studi fatti che esiste «una piena consapevolezza solo nella nostra specie. Non è che le altre ne siano totalmente sprovviste e agiscano come automi. Le ricerche di etologia cognitiva degli ultimi decenni hanno rivelato la presenza di capacità emotive, affettive e forme di attaccamento sociale certamente in uccelli e mammiferi. Ma è solo la nostra specie che ha elaborato un’etica e ha prodotto un giudizio morale. Una nostra esclusiva che condiziona l’intera vita di ogni uomo». Solo nella specie umana si passa dall’altruismo biologico a quello culturale «secondo le regole della natura quello che conta non è la sopravvivenza dell’individuo ma quella della specie (…) [nell’altruismo etico, nella cultura umana] gli individui contano, conta il loro benessere (…) Subentrano concetti come partecipazione consapevole alle altrui sofferenze, diritti dei singoli individui, giustizia (…) Insomma, pur verosimilmente costruita sull’ancestrale piattaforma dell’altruismo biologico, l’etica umana è decisamente altra cosa».
La scoperta freudiana dell’inconscio ha sconvolto l’idea del soggetto cosciente in grado di mantenere il comportamento sotto un controllo pieno e consapevole e ha forti implicazioni etiche. Se i sentimenti e le azioni umane sono frutto delle interazioni fra inconscio e coscienza morale, la dimensione dell’etica, intesa come riconoscimento conscio di valori e norme, risulta ridotta, annebbiata.
Un embrione di osservazione della manifestazione dell’inconscio nel comportamento umano appare già in Kant che nella Fondazione della metafisica dei costumi dove scrive che le nostre intenzioni sono rivelate più dal nostro comportamento che da quanto pensato e sinceramente dichiarato «Non si può concludere con sicurezza che qualche stimolo nascosto dell’amor di sé non sia stata la vera causa determinante della volontà dietro la mera facciata dell’idea del dovere. Poiché noi possiamo lusingarci volentieri di un nobile movente, falsamente presunto, ma in realtà, anche con l’esame spinto più a fondo, non riusciamo mai a individuare pienamente le molle segrete dell’agire»
: infatti, quando si tratta del valore morale, ciò che conta non sono le azioni che si vedono, bensì i loro princîpi interiori, che non si vedono.»
In altre parole se dichiaro di voler bene a qualcuno ma poi regolarmente gli faccio del male uno spettatore esterno può essere in grado di cogliere la vera logica delle mie azioni e mostrare l’inganno di cui sono colpevole, forse anche vittima. Occorre più di e un secolo per arrivare con la psicanalisi ad avviare l’individuazione di questo genere di processi.
La teoria di Freud spiega l’origine della moralità individuale come esito dell’insediamento, attraverso l’educazione, di una coscienza morale che prescrive e punisce, ereditando l’autorità dei genitori. In seguito sono apparse correnti di pensiero della psicologia che si sono staccate dall’idea che la fonte della moralità sia la punizione, sia pur nella forma di sofferenza interiore data dal senso di colpa, e che la fonte sia invece nella capacità primaria dell’altruismo, presente accanto all’autoconservazione.
Emmanuel Lévinas va oltre l’affermare l’insufficienza della sola razionalità, il ricercare premi o sfuggire a sanzioni come base per l’agire morale. Lévinas dichiara che la domanda «Perché dovrei essere morale?» non è il punto di partenza della condotta morale, ma ne indica il crollo e la morte imminente. Secondo Lévinas la prima efficace espressione di assenza di moralità è la domanda di Caino «Sono forse io il custode di mio fratello?». Per Lévinas un atto morale non serve a nessun scopo, non è dettato da un’aspettativa di qualsiasi tipo di vantaggio, comodità, compreso il benessere frutto dell’esaltazione dell’ego. L’agire morale deriva dal fatto stesso di essere vivi e condividere il pianeta con altri esseri viventi.
Per concludere questa schematica ricostruzione delle fonti dell’etica ricorriamo al lavoro di un sociologo e un filosofo, Francesco Alberoni e Salvatore Veca. In L’altruismo e la morale scrivono «La solidarietà, la fratellanza, l’amore sono dati. Si rigenerano continuamente, si producono continuamente nella società. Non è la ragione che li genera. Ma la ragione li prende a carico. La ragione non può far sbocciare l’innamoramento. Non può far sorgere l’amore materno. Non può far distillare l’amore dall’amicizia. Ma può considerarli beni preziosi da riconoscere, da accogliere, da coltivare, da proteggere, da far prosperare. (…) La morale ha una doppia natura. Per comprenderla occorre un doppio sguardo. (…) Il semplice amore, il semplice altruismo, non sono, di per se stessi, morali. La madre che ama svisceratamente suo figlio, l’innamorato che ama follemente la sua amata, non sono, per questo stesso fatto, esseri morali. La morale sorge solo se appare la ragione. La ragione, a contatto con l’altruismo, lo trasforma, ne muta la natura e lo rende morale. Se un padre ha tre figli ma si occupa essenzialmente di uno (…) agendo solo sotto l’impulso dell’amore, non si comporta moralmente. È ingiusto. Solo la ragione, facendolo riflettere sui bisogni degli altri figli, (…) lo porta sul terreno morale. Eppure nessun comportamento morale sarebbe possibile se il padre non amasse i suoi figli. (…) la semplice esperienza di cercare di essere imparziali, obiettivi, muta il nostro modo di vedere le cose, modifica la nostra stessa sensibilità emozionale, la qualità del nostro amore. L’abitudine alla riflessione morale modifica il nostro carattere, lo rende virtuoso. Perciò dobbiamo concludere quanto segue: è vero che la ragione senza altruismo è vuota, ma è anche vero che l’altruismo senza ragione è cieco. Altruismo e ragione, uniti insieme, producono una cosa diversa, la morale.»
Il disimpegno morale
Da quanto scritto sopra l’etica sembrerebbe essere inscindibile dall’altruismo. Eppure l’altruismo scompare tante volte in modo drammatico nei comportamenti umani. Noi umani possiamo infliggere sofferenze oppure, senza esserne autori, le giustifichiamo o restiamo indifferenti. Come possiamo comporre la contraddizione fra principi in cui crediamo e comportamenti praticati? Si può torturare, rubare, molestare bambini, corrompere e inquinare conoscendo la differenza fra bene e male e sentirsi in pace con la propria coscienza? A questa domanda offre una risposta la «teoria del disimpegno morale» di Albert Bandura. Deceduto novantacinquenne nel 2021, non è molto noto nel nostro paese eppure risulta il più citato psicologo vivente soprattutto grazie a questo suo contributo teorico che spiega come sia possibile giustificare il comportamento immorale eludendo l’immedesimarsi nelle vittime, il senso di colpa, la vergogna. Gli studi di Albert Bandura su condotte aggressive e disimpegno morale hanno messo in luce il ruolo degli standard interni al singolo nella guida e controllo del comportamento e il ruolo dell’ambiente sociale, in particolare i media, nella costruzione di questi standard.
Bandura ha individuato una serie di meccanismi che intervengono in quattro ambiti: il comportamento, l’agire morale, gli effetti, la vittima.
Riguardo al comportamento i meccanismi di disimpegno morale consistono nella giustificazione morale, l’etichettatura eufemistica ed il confronto vantaggioso. La giustificazione morale rende positiva e accettabile la condotta nociva ponendola al servizio di scopi socialmente e moralmente validi. Per trasformare persone civili in combattenti tenaci non si punta ad alterare la loro aggressività e principi morali; ci si arriva «ridefinendo il carattere morale dell’uccidere, sottraendolo all’autocensura (…) per proteggere i loro valori più cari, per salvare la pace nel mondo, l’umanità dalla tirannia. (…) Disse bene Voltaire affermando che chi riesce a farvi credere delle assurdità riesce a farvi commettere delle atrocità». Ognuna delle parti in lotta si sente moralmente superiore, santifica le proprie azioni e condanna quelle altrui come barbarie compiute in nome di odiosi principi.
L’etichettatura eufemistica è usare termini attenutati per rendere accettabili azioni dannose; si “eliminano” nemici, magari etichettati indiscriminatamente come terroristi e le uccisioni di civili sono “danni collaterali”; per le direzioni aziendali i lavoratori da licenziare sono “esuberi”; le falsità diventano “versioni differenti”.
Infine il disimpegno morale tramite il confronto vantaggioso consiste nel presentare un comportamento “non così malvagio” come quello adottato da altri soggetti, da controparti o avversari oppure nel passato. Ad esempio ci si consola e legittima dicendo «I nostri concorrenti fanno di gran lunga peggio».
Nell’ambito dell’agire morale i meccanismi di disimpegno individuati sono la diffusione della responsabilità oppure il trasferire o nascondere la responsabilità. La diffusione della responsabilità opera quando si giustifica la violazione morale con la diffusione del medesimo comportamento «Lo fanno tutti, se non lo facessi sarei ingiustamente penalizzato». Nel nostro paese è facile collegarli all’evasione fiscale o alla sottomissione alla criminalità organizzata. Lo spostamento della responsabilità consiste nell’occultare o minimizzare il ruolo attivo avuto nel generare danni. «Ho solo obbedito agli ordini». Il caso più noto è quello di chi è accusato di crimini nei lager o in guerra. In quei casi ci sono autorità superiori che hanno esplicitamente ordinato crimini. In una azienda o in una organizzazione raramente un dirigente è così sprovveduto da farlo, il meccanismo si realizza comandando «Mi risolva il problema. Non voglio sapere come. È affar suo. L’importante è che mi porti il risultato chiesto».
Spostamento e occultamento della responsabilità si coniugano “felicemente”: sposto la responsabilità ad un altro con il patto che questo non mi faccia vedere come realizza l’obiettivo. Da un lato chi ordina non vuole vedere i comportamenti che portano al risultato, dall’altro chi esegue sposta la responsabilità su chi ha dato l’ordine riguardo all’obiettivo. Pensiamo ad esempio ai recenti scandali sulla vendita di prodotti finanziari a clienti disinformati. Si genera una complicità in cui da un lato si finge di non sapere il come si opera, dall’altro si finge di non aver deciso come agire. Quando si agisce come elemento di un gruppo il senso di responsabilità del singolo si attenua e «la gente si comporta più crudelmente di quando ciascuno ritiene di dover rendere conto personalmente delle proprie azioni». Una ulteriore esempio è il cercare di legittimare un comportamento scorretto trasferendo la responsabilità agli organi di controllo che «applicano le regole solo ai nemici; se fossi considerato tale mi condannerebbero lo stesso anche innocente, quindi perché rispettarle?».
Nell’ambito degli effetti i meccanismi di disimpegno morale consistono nella distorsione delle conseguenze o nel minimizzarle. Si tratta di ignorare le conseguenze negative per gli altri di una azione, oppure minimizzarne la dimensione comparandola ai benefici. Tanto più facile quanto i danni sono a carico di persone ignote, lontane. Quindi l’uso di questo meccanismo psicologico è favorito da catene gerarchiche in cui chi comanda è distante da chi esegue e da chi subisce le conseguenze degli ordini. I casi estremi sono la guerra comandata da tecnologia a distanza, gli attentati terroristici. Nel mondo del lavoro possiamo comparare il licenziamento in una grande multinazionale e in una piccola impresa. Nel suo ultimo lavoro Bandura accusa con forza la Chiesa Cattolica di aver applicato questo meccanismo nel trattare gli abusi sessuali ai danni di minori.
Riguardo alla vittima i meccanismi di disimpegno sono la sua deumanizzazione e attribuzione della colpa agli avversari. La forza delle sanzioni morali – vergogna, senso di colpa – dipende da come i vessatori vedono le vittime. Vederli come esseri umani mette a disagio, invece vederli come esseri subumani riduce questo rischio e legittima l’uso della forza, “l’unico linguaggio che capiscono”. È noto come l’ideologia nazista classificasse come Untermenschen (subumani) gli ebrei, gli zingari, ecc. Un meccanismo utilizzato da sempre in guerra, ma anche nella vita civile verso schiavi, donne, minoranze razziali, malati psichiatrici. Le vittime possono arrivare a convincersi della loro inferiorità e legittimare esse stesse il loro degrado. Nello stesso ambito opera l’attribuzione della colpa agli avversari o alle circostanze. Le controversie in genere si innescano con una serie di azioni e reazioni ed è raro che non possa essere individuato un evento che permetta di accusare l’avversario di aver scatenato una legittima reazione.
Altri autori hanno messo in luce la tendenza umana di “empatia a corto raggio”, il prendere in considerazione le implicazioni del comportamento a breve termine e per le persone con le quali si è in stretto contatto. Il raggio può diventare così corto da ridursi ad un punto, la soddisfazione di sé stessi; Narciso è diventato l’emblema della contemporaneità, con una concezione della libertà come mera autorealizzazione. Il principio guida è l’indipendenza da tutti e il narcisista paga per la sua autorealizzazione un prezzo molto alto: la perdita dell’affettività. Non prova sentimenti per l’altro, disprezza ogni slancio umano, si tiene alla larga da qualsiasi coinvolgimento affettivo. Oggi siamo connessi gli uni agli altri, ciò nonostante non è affatto detto che siamo davvero interessati ai destini di chi ci è prossimo. Al contrario, l’umanità sta attraversando una gravissima crisi di solidarietà.
I meccanismi definiti da Albert Bandura stati consapevolmente utilizzati da sistemi politico-sociali. Possono essere altresì essere utilizzati da singole persone indipendentemente dal contesto sociale. La prevalenza dei fattori sociali o di quelli psicologici individuali nell’orientare il comportamento è tuttora una questione discussa. Albert Bandura sostiene che «una piena comprensione richiede una prospettiva integrata, nella quale gli influssi sociali operano attraverso meccanismi psicologici per produrre effetti comportamentali. Il disimpegno morale è profondamente legato ai sistemi sociali, ma le persone sono allo stesso tempo prodotti e produttori dei sistemi sociali. I fattori personali influiscono sulle pratiche in cui si manifesta il disimpegno morale, rendono qualcuno più propenso a servirsene e determinano i modi in cui si manifestano le scelte morali. (…) Una società civile richiede, oltre ai codici personali di ognuno, sistemi sociali che sostengano il comportamento solidale e rifiutino la crudeltà. I sistemi politici monolitici, che hanno un solido controllo sui più importanti mezzi di persuasione sociale, possono esercitare un maggior potere giustificatorio, rispetto ai sistemi pluralistici che presentano prospettive, interessi e solidarietà diverse. La diversità politica e la tolleranza verso il dissenso creano le condizioni che consentono di lanciare allo scoperto una sfida agli appelli morali sospetti»
Senza dubbio è vero ma non basta l’appartenenza a un sistema democratico per stare tranquilli. La democrazia non è uno sport da spettatori. Post-truth, traducibile in italiano con “post-verità”, è la «parola dell’anno 2016» scelta dall’Oxford Dictionary. Con “post-verità” si intende una notizia completamente falsa che, spacciata per autentica, con un forte appello all’emotività sarebbe in grado di influenzare una parte dell’opinione pubblica, diventando di fatto un argomento reale, una credenza diffusa, dotata di un apparente senso logico pur essendo priva di un riscontro reale. La parola selezionata come parola dell’anno dovrebbe «riflettere l’ethos, l’umore dominante o le preoccupazioni dell’anno», ma anche «avere un durevole potenziale come parola di significato culturale». Una prospettiva che ritengo assai probabile e che ha trovato conferme sul dibattito riguardo all’esistenza o meno del virus causa della Covid 19 o sull’efficacia dei vaccini.
Nel 2016 è stata trainata dalla Brexit e dall’elezione di Donald Trump. La “post-verità” ha sbaragliato la concorrenza di alt-right (parola che definisce la destra razzista, nazionalista e online in Usa) e di Brexiteer (fautore della Brexit), entrate nella rosa dei candidati finale, ricavata da 150 neologismi. Il prestigioso vocabolario britannico ha incoronato una locuzione aggettivale che si applica a «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel modellare l’opinione pubblica degli appelli emotivi e delle convinzioni personali». Il termine non è stato coniato quest’anno, sarebbe in uso da almeno una decina d’anni, ma la sua frequenza d’uso «quest’anno è aumentata del 2000% rispetto al 2015», in coincidenza con il referendum britannico e con la campagna per la Casa Bianca. È il dato rilevato da Oxford Dictionaries, che per individuare le tendenze sociali analizza le parole più usate ogni mese. Secondo quanto ha dichiarato alla Bbc Casper Grathwohl, degli Oxford Dictionaries, «post-verità» può davvero diventare «una delle parole chiave del nostro tempo alimentata dall’uso dei social media come fonte di notizie e dalla crescente sfiducia nei fatti come presentati dall’establishment».
Etica e ruolo dirigente politico e sindacale
L’etica riguarda tutti, ogni persona sviluppa la propria e la rende concreta nel vivere. Il ruolo dirigente implica caratteristiche specifiche della dimensione etica. Il contributo più profondo su questo tema resta quello offerto da Max Weber quasi esattamente un secolo fa. La politica come professione/vocazione (Politik als Beruf) è la trascrizione di una conferenza tenuta da Max Weber nel 1919, un anno prima della morte, su richiesta dei «giovani studenti» di Monaco.
La questione centrale è «qual è il rapporto reale tra l’etica e la politica? Sono forse del tutto estranee l’una all’altra? O è vero viceversa che la “medesima” etica vale per l’azione politica come per tutte le altre?»
Weber si riferisce all’attività politica per il governo dello Stato, ma ritiene altresì che il potere si eserciti anche in forme diverse e in altre aree per cui la sensazione di «mettere le mani negli ingranaggi della storia» va riferita ad una più ampia molteplicità di soggetti. Il sindacato è certo uno di questi e Weber fa ripetuti riferimenti ad esso.
Rappresentanti nei luoghi di lavoro, operatori, segretari eletti ai vari livelli derivano dalla funzione di rappresentanza un potere decisionale che, in misura e in circostanze diverse, permette di influire sulla vita di altre persone. È necessario che chi decide/accetta di esercitare questa fondamentale attività umana lo faccia consapevole delle sue specifiche caratteristiche e implicazioni. Agli altri resta la responsabilità di aver delegato e, eventualmente, aver evitato d’assumere maggiori poteri e responsabilità.
«Quali sono le qualità per cui egli può sperare di essere all’altezza di tale potere (per quanto limitato esso possa essere nel caso singolo) e quindi della responsabilità che gliene deriva? Sconfiniamo così nel campo delle questioni etiche. (…) Tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza» dichiara Weber.
Passione nel senso di Sachlichkeit, precisa l’autore. Non intende uno stato emotivo travolgente, una «agitazione sterile» bensì la «dedizione ad una causa» (Sache) evidenziando come spinta all’impegno politico l’adesione ad una parte, a visioni e interessi definiti. Il che si sovrappone pienamente all’attività sindacale. L’orientamento dell’azione è guidato dalla responsabilità verso la «causa» cui ci si è messi al servizio. I passi concreti sono determinati dalla lungimiranza, dal tener conto della realtà, di cosa è attuabile. Il termine che Weber utilizza è augenmass, che significa anche “capacità di misura ad occhio”. Mi sembra efficace nell’indicare la capacità di staccarsi temporaneamente dall’azione e osservarla con «calma e raccoglimento interiore».
È in sintonia Napoleone Bonaparte, per il quale la passione politica «è una specie di lente, attraverso la quale si vedono gli individui, le opinioni ed i sentimenti attraverso i cristalli della propria passione. Ne consegue che nulla è un bene o un male in sé, ma soltanto a seconda del partito al quale si appartiene. È una maniera assai comoda di vedere le cose e noi ne approfittiamo. Anche noi abbiamo le nostre lenti e se non guardiamo le cose attraverso le nostre passioni, le guardiamo almeno attraverso i nostri interessi» Una deformazione di cui occorre essere consapevoli ed un leader – avverte Napoleone – deve badare che «la lente della politica non gli ingrandisca o rimpicciolisca troppo gli oggetti. E, mentre li osserva con la massima attenzione, deve badare alle redini che tiene in mano. Il carro che guida spesso ha cavalli diseguali».
Ma la sintonia tra Napoleone e Weber si ferma qui perché l’imperatore è stato affetto di quella che il nostro sociologo considera la malattia più perniciosa per un politico: la vanità, «un nemico assai frequente e ben troppo umano». Esaminiamola meglio.
Per assumere un ruolo dirigente, anche a un livello minimo, occorre aspirare al potere. «L’istinto della potenza» appartiene perciò alle sue qualità normali. La patologia sorge quando quell’aspirazione diventa esaltazione puramente personale, ricerca di potere fine a sé stesso e non al servizio della «causa». Non si riesce più a separare la buona riuscita della causa da quella personale e si considera questo secondo come prova sufficiente della realizzazione del primo. «Godere del potere semplicemente per amor della potenza, senza dargli uno scopo per contenuto» può dare la gratificazione della popolarità e l’illusione del buon esito dell’agire. Per timore del capo gli appartenenti a un gruppo, un’organizzazione, uno stato, si mostrano obbedienti ed ossequiosi, ma il leader accecato dalla vanità «opera di fatto nel vuoto e nell’assurdo».
Come si valuta quindi un’attività politica o sociale? «Una politica si valuta per la nobiltà dell’intento! Così si risponde. Bene. Ma qui si parla dei mezzi, e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede» replica Weber. E prosegue: «Chi voglia agire secondo l’etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi – giacché essi costituiscono una coercizione – e si iscriva nei sindacati gialli. Ma soprattutto non parli di “rivoluzione”. Giacché quell’etica non insegnerà certo che sia proprio la guerra civile l’unica guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo il Vangelo rifiuterà di prender le armi oppure le getterà via. (…) E finalmente: il dovere della verità. Per l’etica assoluta si tratta di un dovere incondizionato. Se ne è dedotta la conseguenza di pubblicare tutto, specialmente i documenti a carico del proprio paese, e, in base a tale pubblicazione unilaterale, di riconoscere la propria colpa, unilateralmente, incondizionatamente, l’etica assoluta non si preoccupa delle conseguenze.»
Qui Weber presenta la sua distinzione fondamentale fra due tipi di etica: l’etica della convinzione (o assoluta o dei principi, secondo le varie traduzioni) e l’etica della responsabilità.
La separazione fra etica della responsabilità ed etica assoluta può essere fatta risalire in embrione a Kant quando distingue due significati del dovere: ciò che si deve fare come mezzo in vista di un fine e ciò che di deve fare per se stesso. Nel primo caso è una necessità condizionata, dedotta dal fine, nel secondo è una necessità assoluta, non dedotta da altro.
Weber sviluppa l’analisi e rende più acuta la separazione fra i due principi; afferma che «ogni agire orientato in senso etico può oscillare» tra loro: operare da giusto e rimettere l’esito nelle mani di Dio oppure rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni. E precisa: «Non che l’etica assoluta coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di principi». Ma c’è una «incolmabile» differenza fra le due e spiega che «a un convinto sindacalista il quale si regoli con l’etica assoluta potrete esporre con la massima forza di persuasione che la sua azione avrà per conseguenza aumentare le speranze della reazione, di aggravare l’oppressione della sua classe e di impedirne l’ascesa: ciò non gli farà la minima impressione. Se le conseguenze di una azione determinata da una convinzione pura sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l’agente bensì il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali. Chi invece ragiona secondo l’etica della responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto di presupporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla. Costui dirà: “Queste conseguenze saranno imputate al mio operato”»
La tensione fra le due etiche non è mai risolvibile una volta per tutte: non si può decretare quale fine debba giustificare quel determinato mezzo.
Continuo con ampie citazioni perché mi sembra che il testo di Weber illustri al meglio il suo pensiero, senza bisogno di altri interventi se non quello di selezionare i passaggi principali. «Anche i primi cristiani sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo. (…) I grandi modelli di carità e di bontà, siano essi nati a Nazareth o ad Assisi o nei palazzi reali indiani, non si sono serviti del mezzo politico della violenza, il loro regno “non era di questo mondo”, eppure essi hanno operato ed operano in questo mondo. Chi anela alla salute della propria anima e alla salvezza di quella altrui, non le cerca attraverso la politica.»
Conscio che questi passaggi possono sembrare una legittimazione della violenza senza limiti Weber sottolinea che «Certo, la politica si fa con il cervello, ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione» e non può essere considerata irrilevante nell’agire politico, ma se si debba seguire l’etica della convinzione o quella della responsabilità, e quando l’una o quando l’altra, nessuno è in grado di determinarlo a priori. Per questo «un uomo maturo – non importa se giovane o vecchio d’anni -, il quale senta realmente e con tutta l’anima questa responsabilità per le conseguenze e agisca secondo l’etica della responsabilità, dice a un certo punto: “Non posso far diversamente, da qui non mi muovo”. Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica”. (…) La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso».
Etica nel ruolo dirigente politico sindacale e scienze
Torniamo alle tre qualità di chi vuole svolgere un ruolo politico: passione/dedizione a una causa, lungimiranza/senso della misura, responsabilità. La loro combinazione consiste nella capacità di valutare l’adeguatezza dei mezzi rispetto al fine, ovvero, nelle parole di Weber «la questione dell’opportunità dei mezzi in relazione allo scopo». La scienza dà un contributo in quanto consente di analizzare in primo luogo se le condizioni esistenti permettono il compimento dei fini che ci si è proposti, quindi, se questo risulta realistico, «le conseguenze che avrebbe l’impiego dei mezzi richiesti accanto all’eventuale attuazione dello scopo proposto». Come dicono alcuni economisti “non ci sono pasti gratis”, e ogni scopo infatti «costa o può costare qualcosa (…) [ma] tradurre quella misurazione in una decisione non è certo un compito possibile della scienza, bensì dell’uomo che agisce volontariamente». La scienza non decide cosa è bene o male, «non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve ma soltanto ciò che egli può e – in determinate circostanze – ciò che egli vuole (…) la conoscenza del significato di ciò che è voluto». In altre parole i costi prevedibili dei mezzi prefigurati, intesi come conseguenze economiche, sociali, culturali, politiche del loro utilizzo.
Quindi il leader politico o sindacale deve impadronirsi delle conoscenze scientifiche necessarie all’esercizio del suo ruolo se vuole agire in modo responsabile verso la causa che ha scelto di servire. Tali conoscenze gli permettono di comprendere e valutare che «ogni agire, e naturalmente anche, secondo le circostanze, il non agire, significa nelle sue conseguenze una presa di posizione» riguardo determinati valori. Un problema politico-sociale ha nella sua natura il non poter esse risolto in base a considerazioni tecniche, implica interessi e visioni del mondo.
Queste considerazioni sono dense di significato per chi si occupa di formazione in una organizzazione che agisce nell’arena politico-sociale, segnano la necessità e i limiti di questa funzione in rapporto agli altri ruoli organizzativi, ai processi e agli organismi decisionali.
Se l’essenza dell’agire razionale è la ricerca dei mezzi più idonei per conseguire determinati scopi, anche nell’attività di formazione è necessario trovare una risposta alla domanda sul rapporto fra etica della responsabilità e quella della convinzione. Quale rapporto esiste fra «il dovere scientifico di vedere [e mostrare] la realtà dei fatti» e «l’adempimento del dovere pratico di sostenere i propri ideali»? Per Weber andavano accuratamente distinti e nessun professore può fare propaganda alle sue convinzioni politiche con «la protezione della cattedra». Deve porsi al servizio della verità, dando strumenti affinché i singoli allievi possano capire la realtà in cui agiscono, interpretarne i meccanismi e quindi valutare le conseguenze dei propri atti per agire “in modo responsabile” con cognizione di causa. L’insegnante deve essere capace di distinguere e separare la dimensione razionale e quella valoriale. Ad esempio mostrare con uguale scrupolo i punti di forza di diverse teorie economiche, non solo quella della corrente di pensiero cui si aderisce svilendo le altre. Scienze sociali e impegno politico non devono essere confusi tra loro, anche se molto spesso la passione politico-sociale è stata ed è la spinta verso quel filone di studi.
La definizione del punto di equilibrio nel dilemma fra etica della convinzione ed etica della responsabilità non è mai facile né risolto una volta per tutte; ci interroga sempre, quando abbiamo un ruolo in cui esercitiamo qualche forma di potere, di influenza sulle opinioni e comportamenti altrui, come è quello dato dalla rappresentanza e dalla direzione di una struttura sindacale.
Il pericolo per chi si definisce in genere «riformista» e tiene dunque conto della parzialità e dell’imperfezione del suo agire, è svendere i principi e diventare un trafficante di compromessi. Il pericolo contrapposto è il narcisismo di chi preferisce comunque una sconfitta in purezza che una vittoria ammaccata. La profilassi contro entrambi i tipi di degenerazione è che chi assume un ruolo politico o sindacale che conferisce un potere prenda contestualmente l’impegno ad acquisire le conoscenze necessarie per svolgerlo. Superficialità, ignoranza, imprudenza nella presa di decisione sono colpe di cui potrà rispondere. Questo implica la necessità di una formazione adeguata, chiama alla responsabilità chi gestisce e organizza l’offerta formativa.
Credo che per svolgere una funzione formativa di qualità occorra specializzarsi in numero limitato di ambiti disciplinari, in modo da poter seguire con una certa attenzione la letteratura scientifica, il dibattito interno a quelle discipline in modo da poter cogliere quello è coerente con le esigenze dell’organizzazione. Una attività che per essere davvero utile non può essere separata dalle altre funzioni organizzative per alimentare con i contenuti adeguati nei tempi appropriati i processi decisionali ai vari livelli e l’implementazione delle decisioni prese.
È una semplicità difficile a farsi in organizzazioni complesse a legame debole come le organizzazioni sindacali. Abbiamo visto che la dimensione etica è eminentemente personale, ma influenzata dal contesto sociale. Il comportamento etico è condizionato da cultura, sistema premiante e meccanismi operativi adottati nel sistema in cui si opera. Vale per le aziende, per i partiti, i sindacati e perfino per le organizzazioni che hanno fini elevati di orientamento e salvezza umana come le Chiese, che sono pur sempre costruzioni umane.
Secondo Stefano Zan, uno dei massimi studiosi di sociologia delle organizzazioni contemporanee, i meccanismi di governo delle organizzazioni complesse a legame debole come i sindacati sono connotati da infusione di valori. Ciò fa sì che l’organizzazione assuma valore in sé, che questo valore sia indipendente dai risultati che ottenuti e dall’efficienza nelle prestazioni. Un esempio è la convinzione, spesso rivendicata con orgoglio nel sindacato, che non essendo una organizzazione orientata al profitto non ci si deve curare che il bilancio economico d’esercizio si chiuda in positivo e le perdite possono essere legittimate dalle buone intenzioni. Anche darsi come obiettivo il mero pareggio espone al rischio che un minimo imprevisto sul lato delle entrate o delle uscite porti ad una perdita. Perdita che, secondo una convinzione fin troppo diffusa, è sensato chiedere sia colmata da altri, in nome della condivisione dei valori a cui sono riferiti i comportamenti che l’hanno provocata.
Questa visione legittima e favorisce la leadership da parte di professionisti nel consenso interno e dilettanti nella gestione delle risorse economiche e umane, con una debole capacità di previsione dei costi delle loro decisioni e quindi una fioca e fragile capacità di esercizio dell’etica della responsabilità.
Zan avverte che i sistemi con tali caratteristiche sono esposti al rischio di tre tipi di degenerazione divenendo: 1) chiusi, autoreferenziali, irresponsabili; 2) ambigui e non trasparenti; 3) dominati dal dilettantismo.
Si tratta di rischi, non di una dannazione ineluttabile. L’esposizione ai rischi può essere controllata e prevenuta con una serie di interventi. Stefano Zan ne suggerisce alcuni, coerenti fra loro. In primo luogo ridurre l’autoreferenzialità, sostenuta dai meccanismi di autodifesa, comprensibili ma non giustificabili, di chi si sente non del tutto competente dal punto di vista tecnico per il ruolo assunto.
La proclamazione di un codice etico può essere un passaggio importante per richiamare l’intera una organizzazione, in particolare chi occupa posizioni di potere, ad un comportamento coerente con determinati valori e norme. La Cisl ha approvato il proprio Codice Etico con il Consiglio generale del 16 dicembre 2015. «Con il Codice etico e comportamentale, tutti i/le dirigenti, gli/le operatori/trici, i/le delegati/e, i/le militanti e gli/le associati/e della CISL, si impegnano nella propria attività, ad operare nel rispetto delle norme statutarie e regolamentari (…) e sulla base dei principi di integrità, correttezza, onestà e legalità. Si tratta di promuovere e affermare maggiormente un modello di relazioni tra strutture sindacali, dirigenti, militanti e associati/e per valorizzare espressioni comportamentali e relazionali intese quali cornici di riferimento della missione CISL finalizzata al rafforzamento del rapporto fiduciario e partecipativo dentro l’organizzazione e con i/le nostri/e associati/e e con tutto il mondo del lavoro».
Sia ben chiaro: un codice etico è sempre espressione di un ideale a cui si aspira; è un criterio di riferimento per valutare se un comportamento è accettabile o riprovevole. Non è una prescrizione in grado di impedire che un comportamento erroneo si verifichi. Al codice devono essere affiancati strumenti e modalità di controllo della coerenza fra comportamenti e norme e occorre che tali strumenti siano applicati. La trasparenza non serve a nulla senza qualcuno che guardi attraverso.
A questo scopo occorre agire su due versanti; dal lato esterno aprire canali di confronto per dare voce a clienti, utenti, associati affinché possano emergere ed essere affrontati motivi di malcontento o insoddisfazione senza che la cancellazione o la mancata iscrizione sia l’unica strada per manifestarsi. Dal lato interno realizzare modelli omogenei ed efficienti di contabilità e procedure trasparenti affinché sia possibile un controllo chiaro dell’utilizzo delle risorse economiche e umane e dei risultati conseguiti.
Questi provvedimenti hanno come conseguenza rendere più agevole il controllo su atti compiuti e risultati raggiunti sostenendo il rafforzamento del senso di responsabilità e la possibilità di applicare sanzioni positive e negative senza che queste vengano considerate come arbitrarie o strumentali e di parte.
La percezione che nella vita dell’organizzazione esistano e si rafforzino interventi di questo genere ha come conseguenza il rafforzamento della professionalità e della competenza, sostenendo e motivando chi cerca di avere conoscenze e capacità adeguate e congruenti al ruolo organizzativo svolto e dando un segnale che in caso diverso è difficile mantenere una certa posizione.
Non si tratta di cose facili a farsi, specie in organizzazione in cui il potere decisionale è prevalentemente nelle mani di chi poi dovrà subire le decisioni prese. Ma è possibile. Personalmente sono convinto che è in crescita la convinzione che l’uso appropriato delle risorse è una variabile vitale per il futuro delle organizzazioni di rappresentanza.
Perché i nodi vengano al pettine occorre il pettine (strumenti di controllo adatti); occorre pettinarsi regolarmente (usare gli strumenti in modo appropriato e regolare); occorre che quando si incontra il nodo lo si sciolga e non si rinunci a pettinare (affrontare la violazione delle regole, correggere e, dove necessario, sanzionare). All’inizio, certo, può essere doloroso. Ma poi i capelli diventano sciolti e diventa una tranquilla e anche piacevole routine.
Bibliografia
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