Cosa resterà degli anni Ottanta, cantava Raf nell’ultimo Sanremo di un decennio che vide il crollo del Muro di Berlino e del blocco degli alleati dell’Unione Sovietica, così come la sconfitta delle speranze di riforma degli studenti cinesi di Piazza Tienanmen.
E’ indubbio che, tutt’ora, almeno in Italia, questo periodo sia ancora troppo poco studiato, persino poco raccontato, soprattutto per quel che riguarda la storia del movimento dei lavoratori, fatti salvi gli eventi iconici come i 35 giorni alla Fiat, la marcia dei quarantamila o lo scontro sulla scala mobile.
Il libro di Salvatore Vento: “Carniti e Berlinguer: due sinistre a confronto” (Franco Angeli Editore) è, in realtà, il risultato composito di più ricerche, più chiavi di lettura, una, la principale, è il confronto tra due sinistre, quella sociale di Pierre Carniti, indimenticato leader della Cisl, e quella politica di Enrico Berlinguer, altrettanto carismatica guida del Partito Comunista più forte d’Europa.
Ma non è l’unica.
Nello scrigno prezioso che questo ricercatore sociale ed ex sindacalista ci regala, a quarant’anni dai fatti principali trattati, c’è anche altro: la paziente e documentata analisi sull’evoluzione economica, sociale e politica avvenuta con il superamento degli anni Settanta, il decennio delle grandi mobilitazioni sindacali e dello sviluppo delle libertà democratiche in tutto il paese, e l’originale lettura attraverso i processi di cambiamento delle città del fu triangolo industriale: Genova, Torino e Milano.
Non solo, è trasversale nel libro l’attenzione al ruolo delle parti sociali nella lotta al terrorismo.
L’agile scrittura dell’autore affronta il decennio in questione saldandolo con i due anni che lo hanno preceduto, contraddistinti dal compromesso storico tra Pci e Dc e dall’austerità sindacale sancita all’Eur poco prima del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.
Lo scontro sindacale del 1984-1985 è, invece, preceduto da altri eventi significativi come il dibattito sul Fondo di Solidarietà proposto dalla Cisl di Pierre Carniti (lo 0,50% degli aumenti salariali destinati ad un fondo cogestito dal sindacato il cui raggio di azione si sarebbe indirizzato sugli investimenti e lo sviluppo relativi al Mezzogiorno) che vedrà, in primis, l’opposizione del Pci e di Berlinguer, preoccupato del protagonismo sindacale. Un protagonismo che, nella sinistra politica, veniva dispregiativamente definito “pansindacalismo” e che vedrà il Pci opporsi anche al faticoso accordo unitario e tripartito del 22 gennaio 1983, il c.d. “Protocollo Scotti”.
Ma in cosa divergevano le visioni di Carniti e Berlinguer? Quale fu il ruolo, spesso di mediazione, di Luciano Lama?
Affermò Carniti ad un convegno della Cisl di Milano (pagina 80 del libro di Vento): “C’è chi vede in questo grande fatto, nello scambio multiplo tra sindacato ed imprese, sindacato e Stato, Stato e imprese, una deplorevole involuzione neocorporativa. Si sono manifestate, a destra come a sinistra, dubbi, perplessità e seri interrogativi. L’onorevole Berlinguer, parlando a Torino, ha illustrato diffusamente i suoi fremiti di preoccupazione, evocando lo spettro del pansindacalismo, scongiurabile, a suo giudizio, solo con il ritorno a una vecchia e burocratica divisione dei compiti tra sindacato e partito.”
Continuava Carniti (in un tempo in cui Margareth Thatcher teorizzava la fine della società): “Lo Stato, quindi, non può sottrarsi alla necessità di definire, insieme con le grandi organizzazioni, le linee della politica economica, contrattando perciò con imprese e sindacato politica dei prezzi e politica salariale che, congiuntamente ad un governo coerente degli aggregati dell’economia siano funzionali alla ripresa dello sviluppo e dell’occupazione”.
Fu creato da Carniti un gruppo di lavoro confederale, coordinato da Tiziano Treu, per costituire un osservatorio permanente sullo stato di attuazione del protocollo Scotti, proprio per attrezzare anche organizzativamente il sindacato ad affrontare sfide e compiti nuovi.
Solo una decina di giorni dopo non si fece attendere la risposta di Enrico Berlinguer nella relazione al XVI° congresso nazionale del Pci, sempre a Milano: “Se per il sindacato il punto di partenza non è la condizione di vita, di lavoro, di salario degli operai e dei lavoratori, allora anche i discorsi generali di politica economica diventano velleitari e generici, si corre il rischio di cadere in concezioni di tipo pansindacalistico, si introducono elementi di confusione nella concezione della politica e nei rapporti con le istituzioni democratiche e con i partiti”.
Sullo sfondo, ovviamente, il contesto politico, con il Pci tornato saldamente all’opposizione dopo la stagione della solidarietà nazionale, interrotta a cavallo tra il 1979 e il 1980, ma anche le due grandi emergenze economiche del nostro paese: quella occupazionale e quella inflazionistica.
A metà tra i due leader si poneva Luciano Lama, segretario generale della Cgil, che aveva affermato qualche settimana prima: “Non capirei un invito al sindacato a ritornare al proprio mestiere. Anzitutto perché in Italia sempre il sindacato, e più di tutti la Cgil, ha rifiutato la concezione tradeunionista che consiste nel rappresentare solo i lavoratori occupati e di limitarsi alla contrattazione, alla distribuzione del reddito”.
E’ molto ampia e documentata la ricostruzione di Vento dell’accordo di San Valentino (14 febbraio 1984) e delle divisioni nel movimento sindacale con il Pci critico fino alle estreme conseguenze, le assemblee dei cosiddetti “autoconvocati” e le nota manifestazione nazionale del 24 marzo 1984.
Anche in questo caso il dissenso tra Governo, Cisl, Uil, componente socialista della Cgil con il Pci (e più sfumatamente con la componente comunista maggioritaria della Cgil) è non solo di merito (la questione dei punti di scala mobile), ma di metodo.
Prima della rottura, il 6 gennaio 1984 il Pci nel suo comunicato finale scrisse: “Se la trattativa tra governo e sindacati verterà, come deve, su un cambiamento degli indirizzi di politica economica, il governo non può limitarsi al confronto con il sindacato. Il dibattito e le deliberazioni sulla politica economica devono avvenire nel Parlamento, come nel confronto sindacale, con la più grande limpidezza. La funzione del movimento sindacale va sostenuta, ma la trattativa fra Governo e parti sociali va sottoposta agli esami e alla valutazione del Parlamento”.
Il Pci, come è noto, si impegnerà nell’ostruzionismo parlamentare e successivamente nella raccolta firme per il referendum abrogativo del decreto sulla “sterilizzazione” di tre punti della scala mobile.
Risponderà Carniti a Berlinguer: “Per la Cgil il rifiuto era a prescindere dal merito dell’accordo. Da quando il Pci ha adottato la strategia dell’alternativa, i comunisti sono entrati in una fase di grande inquietudine, di grande incertezza e di grande disagio. Berlinguer sembra aver scelto l’interpretazione escatologica dell’alternativa, come grande prospettiva storica. Berlinguer ha rovesciato la linea di Amendola per il quale prioritario era portare avanti una linea riformista e candidarsi ad essere legittimato come forza di governo (…). Berlinguer ha messo in discussione i rapporti internazionali con l’Unione Sovietica, ma ha indurito la politica interna”.
Lo scontro sarà durissimo: andranno definitivamente in liquidazione la Federazione unitaria Cgil Cisl Uil, le categorie unitarie a partire dall’Flm, ma, soprattutto, a livello di base la dura dialettica si sposterà nei Consigli di fabbrica, acuendone la crisi politica e organizzativa già esistente.
Anche i protagonisti saranno fortemente segnati dall’evoluzione impetuosa degli eventi: si assisterà nell’ordine all’infarto, per fortuna senza gravi conseguenze, di Pierre Carniti, alla morte improvvisa di Berlinguer e all’assassinio, da parte delle Brigate Rosse, di Ezio Tarantelli, l’economista di matrice comunista che aveva trovato nella Cisl lo spazio negatogli dalla Cgil per le proprie teorie di contrasto alla disoccupazione e all’inflazione.
Il tutto fino all’ultima battaglia, il referendum sulla scala mobile con l’ampia, generalizzata e per molti versi inattesa vittoria dei No all’abrogazione del decreto.
A Ezio Tarantelli e alle sue teorie, che non si fermavano alla sola predeterminazione della scala mobile, è dedicato l’intero capitolo tre del volume di Vento, con testimonianze di Lorenzo Caselli, Pierre Carniti e Bruno Trentin.
Il capitolo quarto ci racconta della fine di un ciclo storico e dell’addio dei leader carismatici, dopo la scomparsa di Berlinguer, infatti, lasciano la segreteria generale prima Carniti al X° Congresso della Cisl del luglio 1985 e poi Luciano Lama, l’anno successivo.
Ricchissimo è il capitolo cinque con la ricostruzione del contesto storico-sociale nelle tre città dell’ex “triangolo industriale”: Genova, la città del porto e delle partecipazioni statali, Torino, la città della Fiat e Milano, città multiproduttiva e moderna.
Di particolare interesse la parte su Torino con la cronologia ragionata della lotta dei 35 giorni del 1980, i ricordi dei protagonisti, le ricerche sulla condizione operaia, i cambiamenti della città.
Il capitolo successivo è significativamente intitolato: “la ragione dopo anni di tempeste” e racconta della paziente ricucitura nei rapporti tra le tre confederazioni; lo stesso si può dire del livello di categoria che culminerà con la straordinaria partecipazione al referendum sulla piattaforma contrattuale dei metalmeccanici del giugno 1986.
Un’ultima interessante “appendice” del volume è dedicata al rapporto tra gli accordi del 1983-1984 e quelli del 1992-1993, con una riflessione sul tema della concertazione.
Non si può essere che in accordo con Raffaele Morese, quando nella prefazione, definisce il libro di assoluta attualità.
I temi di fondo, in tempi di attacco al ruolo del sindacato e dei lavoratori, alle forme di rappresentanza, alle dimensioni della democrazia e di frantumazione della produzione del lavoro e della produzione, sono tutti di estremo interesse, così come la lezione riformista di uomini come Pierre Carniti ed Ezio Tarantelli è tutt’ora degna di ricordo, analisi e discussione.
Ma, al di là dei leader, al di là dell’anatomia del confronto-scontro tra Carniti e Berlinguer, non possiamo ignorare la lezione di popolo del referendum del 1985.
Si chiede, giustamente, Emmanuele Massagli, nella postfazione: “Chi nel 2024 voterebbe a favore di un decreto che, di certo, tagli il valore dello stipendio attuale scambiandolo con la promessa (inevitabilmente incerta) di un futuro macroeconomico più stabile per tutti”?
Eppure, scrive, Massagli, questo è accaduto.
Anche per questo le avvincenti vicende degli anni Ottanta hanno ancora qualcosa da insegnarci e si dimostrano un riferimento prezioso per non perdere la rotta.