
Giovanni Teneggi vive a Castelnovo ne’ Monti, sull’Appennino reggiano. È stato Direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia e ideatore e responsabile nazionale del progetto “Cooperative di comunità” di Confcooperative. Attualmente opera presso Confcooperative delle Terre d’Emilia.
Come ha maturato la decisione di impegnarsi in ambito sociale e quando e come ha incontrato il sindacato e la Cisl?
Riconosco l’attrazione della dimensione sociale e politica con la nascita di una mia azione in tre momenti distinti che riconosco parti reciprocamente implicate del mio percorso, a mano a mano che sono comparsi e restati nella mia esperienza, ma con meccanismi che non saprei indicare specificamente.
Il primo è “involontario”, di conoscenza tacita e sapere indotto naturalmente dal mio nascere, abitare e crescere in un piccolo paese di montagna quando ancora la dimensione comunitaria era curata come indispensabile a tutti individualmente. La partecipazione ai momenti comuni di trasformazione dei prodotti agricoli nell’aia, quella ai luoghi della socialità del bar di paese e del campetto, quella della vita parrocchiale con le ministerialità laicali già negli anni Ottanta necessarie alla continuità liturgica. Tutto era chiamata, impegno e palestra di comunanza, istituzione e socialità.
Il secondo è nell’elaborazione politica che mi ha consentito la politica studentesca alle scuole secondarie superiori nelle file dei movimenti cattolici che si contrapponevano alle liste organizzate dal sindacato della Cgil e volevano un’elaborazione politica propria e distintiva con un’idea di partecipazione e democrazia che mi ha portato fino alle Acli e ad alcune frequentazioni del Movimento giovanile della Democrazia cristiana, rimaste poi incompiute.
Il terzo viene dopo la pausa di formazione e prima esperienza professionale con l’approdo alla collaborazione in Confcooperative, dove l’impegno sociale attivo ho potuto riconoscerlo nella forma cooperativa e nel suo sviluppo come forma e promozione di democrazia economia e sociale. L’incontro con il sindacato e in particolare la Cisl che, nel terzo momento, ha assunto la più ristretta forma della negoziazione contrattuale, non di rado contrappositiva, e della compartecipazione a luoghi di consultazione sociale ha ugualmente altri due momenti: uno precedente di innesco di natura più politica con la progettazione e la gestione della Scuola di educazione alla politica di Acli, Cisl e Chiesa di Reggio Emilia e uno con l’incontro della mia attività di ricerca e sviluppo delle nuove mutualità cooperative di rigenerazione sociale e l’attività di formazione sindacale della Cisl. Due momenti “epifanici” della prospettiva di costruzione democratica e inclusiva della società che dovremmo ritrovare oltre la tutela del singolo interesse categoriale. Nella compartecipazione al percorso della proposta di legge per la partecipazione dei lavoratori nell’impresa ho avuto il privilegio di vedere uno dei momenti di concretizzazione di questa opportunità così come nello studio delle implicazioni sociali territoriali nella gestione delle crisi di impresa.
Quali sono secondo lei le sfide e le priorità per un sindacato moderno?
La contemporaneità, nei cambiamenti che impone sotto la spinta del globale, del digitale e del clima, impone di restituire luoghi e forme di riconoscimento e tutela delle aspirazioni individuali e collettive e dei diritti per la loro realizzazione completamente nuovi e fortemente spiazzanti. La dimensione del lavoro è fra quelle più coinvolte e più decisive in questo cambiamento: trattarla con le categorie concettuali e istituzionali alle quali siamo abituati e che ci hanno accompagnato per gran parte del secolo scorso è implicitamente reazionario e conservativo fino a smentire la funzione sindacale. Direi che la tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici e del lavoro stesso per ciò che deve rappresentare nella vita delle persone resta assolutamente missione e funzione fondativa, ma contemplandovi due operazioni.
La prima che direi ontologica: al concetto di diritto occorre aggiungere quella di aspirazione, a quella di giustizia adempitiva quella di giustizia realizzativa, riferendola a una valenza/implicazione nuova della comunità di lavoro riconoscendo l’“io” del lavoratore, il “tutti” della contrattazione collettiva, il “noi” della comunanza di progetto e comunitaria sui luoghi di lavoro e con i rispettivi contesti sociali.
La seconda di postura nell’evoluzione degli strumenti che, come dicevo, in mancanza, ci fa ricadere nel conservatorismo addirittura elitario per certi versi: se il diritto ci precede e spinge la nostra azione, le modalità delle sue tutele – nel contesto indicato dalla prima operazione – è di scoperta, evoluzione, sta di fronte a noi ed esige una messa in discussione e un ascolto molto più ampi.
Da operatore sociale di grande esperienza, come può il sindacato, secondo lei, continuare a essere una comunità educante?
Spiazzandosi e dandosi quindi nuove opportunità di maturazione ed elaborazione politica e contrattuale nei processi di ascolto, decisionali, di valorizzazione delle proprie prerogative sociali e di potere. In questo indico tre livelli di provocazione e attenzione che potrebbero interessare la gestione del sindacato.
Il primo è già implicito dalle risposte precedenti: la missione data di tutela del lavoratore esige oggi di occuparsi anche di tutela del lavoro, di tutela dei non lavoratori, di attenzione alle forme dell’impresa e della società. Per stare più esattamente alla domanda direi che va affrontata, colta e risolta anche una funzione pedagogica che riguarda le comunità, il ruolo del lavoro, la sua aspirazione, l’economia e l’impresa, la democrazia e il concetto di equità sociale, i processi complessi di potere e redistribuzione partecipati dai lavoratori e che superano di gran lunga quelli meramente legati ai luoghi e alla contrattazione di lavoro.
Una funzione che supera la contrapposizione categoriale e propone, accede, allestisce una condivisione di problematizzazione e maturazione di nuove comuni rappresentazioni.
In questo apprezzo alcune correnti della filosofia contemporanea che, proprio nell’epoca della conoscenza, indicano l’urgenza insieme alla giustizia sociale anche di giustizia cognitiva e, anzi, ponendo la seconda come condizione della prima. Voglio essere chiaro, non nego che la funzione contrattuale resti centrale, ma solo un sindacato parte e driver di una comunità educante sugli aspetti indicati per obiettivi di giustizia sociale e cognitiva è all’altezza di una contrattazione efficace e credibile per una equa giustizia redistributiva.
Il secondo attiene all’introduzione di un principio di non esclusione ed equità sociale che potrebbe addirittura essere violato o limitato da un sindacato che non si dà una prospettiva educante. Tanto più rilevante in una società che per cause che abbiamo necessariamente tutti partecipato diventa strutturalmente oligarchica e scissa con un aumento delle differenze e delle esclusioni sociali in forme diverse: plutocrazia (contrattazione di maggiore potere a chi ha già), gerontocrazia (potere alla maggioranza più anziana) ed anche epistocrazia (potere a chi sa o può accedere alla conoscenza).
Se la contrattazione e la negoziazione sociale devono tenere conto di queste derive in essere come educarci già dentro al sindacato, prima che fuori, alla mitigazione delle rappresentanze e del potere per l’equità?
Un terzo è direttamente conseguente a questo. Oggi nell’istituire o de-istituire luoghi e diritti prevale il flusso e la trasversalità rispetto allo stabilito di settore e specializzato. Come educarci e istituire in questa contemporaneità, facendo ragionevolmente e pacatamente, perché educatamente (avendolo imparato insieme) prevalere ciò che non so ancora e il suo divenire trasversale rispetto a ciò che so e per un settore solo?
Come si legano la partecipazione promossa dalle cooperative di comunità, che l’ha vista a lungo come un punto di riferimento assoluto a livello nazionale, e la partecipazione dei lavoratori?
La cooperativa di comunità è la più grande provocazione posta alle forme della mutualità, del lavoro, della contrattazione sociale e dell’impresa degli ultimi anni.
Ha valenza sociale senza essere necessariamente di terzo settore, quindi dichiara la possibilità di una valenza sociale e comunitaria pervasiva (non accessoria, successiva o surretizia) di tutte le economie e di tutte le imprese.
Esplicita pubblicamente e senza riserve la possibilità di collaborazione in questa economia di risorse formali e informali, anche di tempi di lavoro ineditamente volontari e professionali esprimendo una supermissione sociale che in quanto comunitaria e controllata localmente si rende possibile e praticabile.
Concretizza nuovamente e rigenera capitalismo territoriale superando la crisi delle sue forme classiche di ordine peculiarmente familiare come dimensione per una negoziazione di gestione, di riparo o di sviluppo più ampia della consueta e tendenzialmente contrappositiva bilateralità.
Indica i luoghi e le comunità come frutto di processi intenzionali ed esperti di allestimento e manutenzione, con una valenza fondamentale del lavoro, di lavoratrici e lavoratori e dell’impresa che possiamo definire nuovamente di implicazione distributiva e non di mero impatto re/post-distributivo.
La domanda che mi chiede di collegare cooperazione di comunità alla partecipazione dei lavoratori è complessa e per me luogo di ricerca non di risposte, mi pare però che queste tre acquisizioni, rese possibili dalla cooperazione di comunità in rapporto e realizzabili solo con una specifica comunità territoriale di adozione e riferimento, possono essere tratte o attese per analogia stretta dalla partecipazione dei lavoratori alla propria comunità aziendale e di filiera produttiva.
La partecipazione dei lavoratori all’impresa esige una supermissione del lavoro e dell’apporto dei lavoratori che non riguarda solo l’esito del giusto compenso per i lavoratori e dell’efficiente realizzazione produttiva per l’imprenditore, ma i più generali esiti di missione dell’unica comunità aziendale con una legittimazione/valorizzazione più ampia per senso, forme, tempi, fra formale e informale, del lavoro e dei lavoratori.
Riporta a un mutualismo comunitario di lavoratrici e lavoratori anche oltre le forme a ciò peculiarmente vocate dell’impresa cooperativa, di cui all’art. 45 della Costituzione italiana. Implicato al primo aspetto, “materializza” una comunità del lavoro collegata all’azienda e, tramite lavoratrici e lavoratori, al contesto sociale attorno di grande ampiamento delle possibilità di intervento e supporto nella vicenda aziendale. Nella cooperativa di comunità è il socio abitante il nesso di ownership e implicazione fra impresa e territorio, qui invece chi ci lavora. Mi sembra di grande interesse. Se non fosse così peraltro la partecipazione dei lavoratori potrebbe addirittura paradossalmente mettere in discussione, invece che rafforzarla, l’azione sindacale. Se non è valore aggiunto potrebbe diventare disintermediazione.
Indica necessariamente che il valore non ha due ristretti ed esclusivi momenti di redistribuzione con il salario e la remunerazione del capitale, bensì altri e più ampi, economici e di senso, con ulteriori spazi di gratificazione, legittimazione, riconoscimento della risorsa lavoro, non strumentale ma compartecipativa.
Un augurio e un auspicio in vista del Congresso Cisl…
Che sia un Congresso di conoscenza, educazione, spiazzamento elaborativo, apertura di spazi di innovazione istituzione verso questi e altri motivi di creatività. E che sia anche divertente!