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Stefano Zamagni è professore di Economia politica presso l’Università di Bologna, in cui ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di economia, impegnandosi negli anni soprattutto negli studi sul mondo del no profit. È tra gli ideatori delle Giornate di Bertinoro per l’economia civile, un momento di approfondimento e dialogo sul ruolo e le attività del Terzo Settore in Italia. Tra i suoi libri ricordiamo: L’economia del bene comune (Città Nuova, 2007), Avarizia. La passione dell’avere (Il Mulino, 2009), Impresa responsabile e mercato civile (Il Mulino, 2013), L’economia civile (con Luigino Bruni, Il Mulino, 2015), Responsabili. Come civilizzare il mercato (Il Mulino, 2019). Per Aboca edizioni ha pubblicato Disuguali. Politica, economia e comunità: un nuovo sguardo sull’ingiustizia sociale (2020).

Iniziamo con il suo incontro con Mario Romani, ispiratore e fautore della cultura sindacale della Cisl…

Mario Romani è stato il mio professore di Storia Economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, la cui Facoltà di Economia ho frequentato dal 1962 al 1966. Essendo stato ammesso al Collegio Augustinianum, ho potuto beneficiare in diverse occasioni di incontrare il prof. Romani, quando, di tanto in tanto, veniva al Collegio per tenere conferenze e seminari. Mario Romani è stata una figura privilegiata di cristiano che ha saputo testimoniare, con coerenza e saggezza, i valori cui sempre è rimasto fedele. Di grande momento il suo contributo alla elevazione della cultura sindacale cislina.

Che valore ha un rapporto sinergico tra sindacato e cultura?

Se è vero che la Cultura (con la “C” maiuscola!) è componente essenziale per ogni ambito di vita umana, lo è ancora di più per un sindacato. Mi spiego. Cultura significa generazione di pensiero, che è di due tipi: pensiero calcolante e pensiero pensante. Quest’ultimo è il pensiero che suggerisce una direzione, che dà cioè il senso dell’agire. Il pensiero calcolante, invece, ci dà ciò che serve per risolvere problemi specifici, sia pure rilevanti. Ma non essendo in grado di indicare il telos, la meta finale, il pensiero calcolante, una volta divenuto dominante, lascia un’organizzazione in balia delle onde della storia e vittima delle mode del momento. Ebbene, un’organizzazione sindacale come la Cisl non può rinunciare a generare pensiero pensante, come purtroppo è accaduto nell’ultimo trentennio, salvo sporadiche occasioni. Bisogna imparare a discernere tra veri e cattivi maestri. Romani è stato un vero maestro. Maestro è colui che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Come e con quali priorità il sindacato e la Cisl in particolare possono essere protagonisti attivi della sussidiarietà circolare?

Il principio di sussidiarietà circolare viene elaborato, per primo – ma non con questa espressione – da Bonaventura di Bagnoregio, il più grande francescano dopo S. Francesco, in un saggio del 1292. Viene poi lasciato in disparte, perché troppo innovativo, data la cultura dei tempi. Nel 1615 viene avanzata da H. Grotius e da L. Althusius la nozione di sussidiarietà verticale e poi di quella orizzontale. Oggi sappiamo che queste due versioni della sussidiarietà non bastano più se il fine che si vuole perseguire è il bene comune. Quale lo scopo della versione circolare? Quello di dare ali al modello tripolare di ordine sociale: Stato, Mercato, Comunità, dove il pilastro della Comunità deve essere autonomo dagli altri due (autonomo non significa separato, né indipendente!). Entro il modello bipolare, Stato – Mercato, il sindacato mai potrà portare a compimento la sua missione propria, che è quella di accrescere il livello di civilizzazione della società.

Lei ha scritto un saggio che si intitola: L’impresa come associazione vs l’impresa come merce. Come giudica l’impegno della Cisl per la partecipazione dei lavoratori? Quali sono, secondo lei, le sfide più importanti dopo l’approvazione della legge?

Quali sono, poi, le priorità, gli errori da non compiere e le alleanze da realizzare per un sindacato protagonista del presente e del futuro?

Il punto che, a mio giudizio, la Cisl dovrebbe porre in cima alle sue priorità è che il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno umano fondamentale. È il bisogno che ogni persona avverte di concorrere a trasformare la realtà di cui è parte, edificando così sé stessa. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per l’ovvia ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. Sappiamo anche che non sempre i bisogni possono essere espressi nella forma di diritti politici o sociali. Bisogni come quelli di rispetto, dignità, senso di appartenenza non possono essere rivendicati come diritti. È dunque il bisogno di lavorare a dare fondamento, non solo giuridico ma pure etico, al diritto al lavoro, che diversamente risulterebbe un diritto infondato e pertanto passibile di venir calpestato. 

Notevole la conseguenza che discende dall’accettazione di tale prospettiva di discorso. Essa chiama in causa il fatto che il lavoro umano possiede due dimensioni: acquisitiva, l’una ed espressiva, l’altra. La prima indica che per mezzo del lavoro, la persona acquisisce il potere d’acquisto con cui provvedere alle proprie necessità. A tale dimensione corrisponde il concetto di lavoro giusto.  

La seconda dimensione esprime il fatto che attraverso il lavoro, la persona realizza il proprio potenziale di vita, sviluppando i talenti che ha ricevuto dalla natura. A tale dimensione corrisponde il concetto di lavoro decente che è tale se favorisce e consente la fioritura umana. Occorre dunque vigilare perché lavoro giusto e lavoro decente non vengano mai disgiunti, se si vuole andare oltre la sfortunata idea secondo cui il lavoro umano sarebbe una merce, per la quale esiste un apposito mercato: il mercato del lavoro, appunto. 

Il lavoro non è un “fattore della produzione” che deve adattarsi alle esigenze del sistema produttivo per accrescerne la produttività. Al contrario, è il processo produttivo che va modellato per consentire alle persone la loro fioritura. Già al n.67, la Gaudium et Spes (1964) indicava che: «Occorre dunque che tutto il processo produttivo si adegui alle esigenze della persona e alle sue forme di vita» – e non viceversa.  Non è forse in ciò la ragione ultima del successo cislino nell’aver visto approvata la legge sulla partecipazione dei lavoratori (anche) alla gestione dell’impresa?

Perché pare così difficile, oggi, conservare in equilibrio lavoro giusto e lavoro decente? È forse la non conoscenza dei termini della questione oppure la non disponibilità degli strumenti di intervento a impedire la ricerca di una soluzione? Niente affatto. La causa, piuttosto, è una organizzazione sociale incapace di articolarsi nel modo più adatto a valorizzare le risorse umane disponibili. 

È un fatto che le nuove tecnologie del digitale liberano tempo sociale dal processo produttivo, un tempo che l’attuale assetto istituzionale trasforma in disoccupazione oppure in forme varie di precarietà. L’aumento, a livello di sistema, della disponibilità di tempo – un tempo utilizzabile per una pluralità di usi diversi – continua ad essere utilizzato per la produzione di cose o servizi di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che invece siamo indotti a consumare, – è questo il neo-consumismo – mentre non riusciamo a consumare beni come quelli relazionali e i beni comuni. 

Il risultato è che troppi sforzi ideativi vengono indirizzati su progetti tesi a creare occasioni effimere o transitorie di lavoro, anziché adoperarsi per riprogettare la vita di una società post-industriale fortunatamente capace di lasciare alle nuove macchine le mansioni ripetitive e dunque capace di utilizzare il tempo così liberato per consentire alle persone di riprogettare i propri piani di vita. 

Un augurio e un auspicio in vista del prossimo congresso nazionale Cisl…

L’auspicio che formulo agli amici della Cisl, in vista del loro prossimo Congresso nazionale, è che diano inizio ad un cammino teso a suggerire come armonizzare azione sindacale e Intelligenza Artificiale Generativa. Le nuove “macchine” non eseguono solo istruzioni incorporate negli algoritmi – così è stato fino ad anni recenti – ma apprendono, generalizzano, generano. Sono cioè “macchine cognitive”, nelle quali la cognizione non è dedotta attraverso passaggi logici. Voglio credere che la Cisl non si lasci abbacinare dalla linea dell’accelerazionismo, secondo cui nulla vi sarebbe da fare se non accelerare il processo già in atto per arrivare più in fretta al punto di rottura (Cfr. A. Williams, N. Srnick, Manifesto accelerazionista, Laterza, 2018); né dalla linea opposta degli esaltati acritici della nuova rivoluzione industriale – i cosiddetti tecno ottimisti ad oltranza (Cfr. il Tecno-Optimist Manifesto redatto da Mark Andreessen – un superricco americano – e pubblicato nell’ottobre 2023).

Quel che auspico è che la Cisl voglia piuttosto partire dal celebre documento fortemente voluto da Papa Francesco Rome Call for AI Ethics, del gennaio 2020, firmato dai leader di diverse religioni e da rappresentanti di alcune importanti istituzioni. Quale l’idea guida che sta alla base del progetto neo-umanista della Rome Call, un progetto che è in palese contrasto con il progetto transumanista accolto (e lautamente supportato) dai tecno-ottimisti? È il rifiuto della posizione secondo cui la rivoluzione digitale porta a considerare la persona come una mera “interfaccia”. Invero, non è corretto dire che le nuove tecnologie dis-intermediano i rapporti personali, perché li re-intermediano in modo nuovo, rendendo appunto la persona una “interfaccia” capace bensì di stabilire contatti, ma al costo di ridurre le relazioni intersoggettive a relazioni tra oggetti. Quanto sta avvenendo è la supina accettazione della proposta che tutto quello che il Sindacato può fare e sperare di conseguire è di facilitare i contatti fra le due interfacce. 

È in vista di ciò che occorre tornare a pensare la Tecnica e non solo continuare ad occuparsi della Tecnologia e dei suoi successi. Uno dei guasti più seri che l’egemonia culturale contemporanea ha creato nelle nostre società è proprio questo: che non vi sarebbe bisogno di pensare, l’importante sarebbe fare, per ottenere risultati utili. 

Ma come si fa ad agire se l’azione non è preceduta dal pensiero? Ecco perché la Cisl deve battersi per introdurre nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo il Diritto all’Habeas mentem, un diritto volto a tutelare la libertà di pensiero della persona dalle manipolazioni che il progresso in atto va attuando. Prendersi cura della mente è oggi un compito irrinunciabile per chi ha a cuore la libertà in tutte e tre le sue dimensioni (la libertà da, di, per). Non può essere la Tecnica a fissare l’agenda, a meno di accogliere supinamente quella nuova forma di potere che Paolo Benanti chiama “potere computazionale”. 

Quale la sua cifra? Quella di recidere il nesso tra competenza tecnica e comprensione delle sue conseguenze.  Serve quindi un pensiero capace di confrontarsi con l’incertezza, di affrontare situazioni in cui le conseguenze non sempre sono prevedibili. Ebbene, è questo il fondamento dell’etica della responsabilità: si tratta di elaborare un quadro di riferimento per valutare azioni e omissioni non solo in base all’intenzione degli agenti, ma anche in base agli effetti che esse possono generare in ambiti complessi e lontani nel tempo. Nel suo Il principio responsabilità (1979), Hans Jonas opportunamente ha parlato di un principio di precauzione: “in dubio, pro malo”, ovvero di fronte all’incertezza sugli effetti di una nuova potente tecnologia, occorre dare più peso alla “profezia di sventura” che “alla profezia di beatitudine”. 

È ragionevole pensare che una sfida del genere possa essere raccolta e vinta dalla Cisl?  Chi scrive pensa di sì, perché conosce la storia di questo sindacato e soprattutto i princìpi che ne hanno guidato l’azione fino ad oggi. Si rammenti che quando c’è un “perché”, c’è sempre anche un “come”, a patto che si faccia tesoro della massima di Platone, secondo cui: «La mente non si apre se prima non hai aperto il cuore».