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Giuliano Cazzola, nato a Bologna nel 1941, è stato allievo di Federico Mancini, si è laureato in giurisprudenza dove è stato docente di diritto della previdenza sociale. È considerato uno dei massimi esperti di lavoro e previdenza. È editorialista del Sole 24 Ore e del QN, partecipa a parecchie trasmissioni radiofoniche e televisive, è autore di importanti saggi e di una ventina di libri sui temi del lavoro e del welfare. Dopo aver trascorso una lunga esperienza sindacale ricoprendo incarichi di rilievo locale e nazionale nella Cgil, dal 1994 al 2007 ha svolto funzioni di prestigio e di responsabilità negli enti previdenziali (è stato Presidente dei Collegi dei Sindaci di Inpdap ed Inps) e nell’ambito dell’Unione europea. È commendatore al merito della Repubblica. È stato deputato nella XVI Legislatura e vice presidente della Commissione lavoro, nonché componente della Commissione di vigilanza sugli enti previdenziali.

Come ha incontrato la Cisl? Quali sono stati i suoi incontri più importanti con sindacalisti e sindacaliste della Confederazione di Via Po quando era dirigente della Cgil?

Credo essere uno dei pochi ex sindacalisti sopravvissuti che potrebbe parlare per ore dei dirigenti della Cisl che ho conosciuto ad ogni livello della mia esperienza sindacale nella Cgil. 

In generale di tratta di personalità che hanno lasciato un segno del loro passaggio nella vita di questa organizzazione, che vengono ricordati nelle città o nelle categorie dove hanno svolto funzioni di direzione. Con alcuni di loro ho stretto anche rapporti di amicizia. 

In particolare ricordo Mario Ricciarelli, membro della segreteria della Fim Cisl di Bologna, quando io ero alla Fiom.  Era il 1965. Proveniva dalla mitica scuola di Firenze dove aveva partecipato a un corso di formazione della durata di nove mesi e nelle trattative nelle prime esperienze di contrattazione decentrata (premi di produzione, sistemi di cottimo, ecc.) era il più bravo di tutti. Cominciammo a frequentarci con le famiglie e ad andare persino in vacanza insieme. Ma a Bologna avevo buoni rapporti con tutta la Cisl a partire dal suo segretario Vitaliano Taliani, il quale mi mise a disposizione la biblioteca della organizzazione per preparare la mia tesi di laurea dal titolo Metodi e forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro.  

Mi avvalsi di numerose riviste in cui venivano riportate le esperienze di contrattazione più importanti. Ero molto affezionato alla rivista ‘’Dibattito sindacale’’ pubblicata da Pierre Carniti alla Fim di Milano. In quegli anni si faceva strada il dibattito sull’unificazione sindacale di cui, nel mio piccolo, fui tra i protagonisti, quando, nel luglio del 1969, entrai a far parte della Segreteria nazionale della Fiom, prendendo parte all’autunno caldo e all’avventura che portò la categoria ad un passo dall’unità, attraverso un processo dal basso. 

In quella fase lavorai a stretto contatto con Pippo Morelli, Rino Caviglioli, Raffaele Morese ed altri. Ma avvertivo forte il fascino di Pierre Carniti, ammiravo il suo coraggio. Con Pierre ho avuto modo di collaborare nella Commissione della povertà quando ambedue eravamo usciti dal sindacato. 

Al mio ritorno in Emilia Romagna conobbi Luigi Paganelli, un uomo tutto di un pezzo che aveva lavorato con uno storico leader del cattolicesimo democratico nella Cisl e nella Dc, Ermanno Gorrieri; poi quando divenni Segretario generale della Cgil regionale per un determinato periodo (durante la guerra della scala mobile) a dirigere la Cisl venne Pippo Morelli. 

Alla Fulc, il sindacato dei chimici, i rapporti unitari erano buoni, anche se vi rimasi troppo poco per piantare le radici. Approdato in Segreteria della Cgil ritrovai nella Cisl antichi compagni d’armi come Franco Bentivogli e Raffaele Morese. Ovviamente ho lavorato con Franco Marini, Sergio D’Antoni, mentre ho solo conosciuto i Segretari che vennero successivamente perché la mia esperienza sindacale è terminata nel 1994.

Il momento più bello e quello più difficile della sua attività sindacale…

Il momento più bello fu quello della battaglia per l’unità sindacale, quando Trentin diceva che avevamo bruciato i vascelli alle nostre spalle. Va da sé che la brusca frenata che seguì comportò una delusione altrettanto grande. 

Il momento più difficile fu quando da Segretario generale mi trovai separato in casa con i comunisti nel 1984, con il decreto Craxi sulla scala mobile e con referendum abrogativo nel 1985. 

Ma la maggiore sofferenza sul piano personale la ebbi negli ultimi anni in cui stavo nella Segreteria della Cgil responsabile delle politiche sociali. Sul piano personale io conservo soltanto dei sentimenti di gratitudine verso la Cgil; se a suo tempo ci furono incomprensioni fu certamente per colpa mia, perché a nessuno è consentito di rappresentare un sindacato quando è convinto che la sua politica sia sbagliata. Diversamente di chi si rovina giocando ai cavalli o frequentando belle donne oppure con l’alcol e la droga, io mi innamoro perdutamente dei Governi rigorosi, meglio se tecnici. 

Così all’inizio degli anni Novanta mandai in malora una brillante carriera sindacale perché credevo nel Governo Amato contro il quale la mia organizzazione proclamava degli scioperi generali.

Hai vissuto, da sindacalista, stagioni fortemente unitarie e anche momenti di grave divaricazione tra le Confederazioni, come in occasione del referendum sulla scala mobile. Come vede oggi il pluralismo sindacale italiano?

Allora anche nello scontro esistevano una dignità e una correttezza che oggi sono sparite. 

I comunisti della Cgil di allora erano dei signori rispetto ai cani perduti senza collare che contornano il padre/padrone Maurizio Landini. Nel 1984 i comunisti avevano la maggioranza in tutti gli organismi dirigenti, ma non se ne avvalsero mai per proclamare degli scioperi. Le lotte e le manifestazioni erano affidate a comitati di consigli di fabbrica di cui facevano parte anche transfughi della Cisl e della Uil. La sconfitta del Pci nel referendum venne ben presto accettata come tale senza le polemiche che Landini ha inteso fare su quello dell’8 e 9 giugno. Poi ai vecchi sindacalisti vengono sempre in mente le parole del principe di Lampedusa: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene».

Quali sono, per lei, le caratteristiche e le sfide di un sindacato moderno?

Penso che dobbiamo a Gino Giugni una rappresentazione del ruolo del sindacato tuttora valida.           Il grande Maestro  considerava il conflitto come componente ineliminabile di una moderna società industriale, pluralista e democratica, nella quale gli interessi dei diversi gruppi sociali divergono e quindi sono destinati a scontrarsi senza mediazioni o soluzioni autoritative, ma sono destinati e a trovare uno spontaneo e dinamico equilibrio attraverso la contrattazione collettiva, derivandone una spinta importante all’innovazione organizzativa e tecnologica del tessuto produttivo, nonché allo sviluppo della società e del welfare. In altre parole, intendendo il conflitto come espressione di una fisiologica tensione dialettica tra interessi contrapposti, si trovava sul versante decisamente opposto a coloro che inclinavano a considerare lo sciopero – che di quel conflitto costituisce una espressione – come una sorta di malattia del corpo sociale; ma nello stesso tempo, su un altro versante, considerava come decisamente limitativa per l’azione del sindacato una concezione del conflitto come epifenomeno di una lotta di classe comunque animata dalla visione di un orizzonte alternativo alla società capitalistica, e quindi, in fin dei conti, come variante o sottoprodotto del conflitto politico, come era nella visione dominante negli anni Cinquanta, visione che, a suo dire, finiva per negare la specificità dell’esperienza sindacale. Infatti, la Cgil di oggi non è ancora un partito, ma non è più un sindacato.  Tocca alla Cisl tenere aperto un dibattito in attesa di tempi migliori, perché – come scrive Italo Calvino – «Si deve sempre cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Un augurio e un auspicio in vista del Congresso nazionale Cisl…

La Cisl deve continuare a fare i conti tutti i giorni con questo ritorno alle origini della Cgil.  La Cisl è nata nel 1948 come reazione contro un sindacato che si contrapponeva pregiudizialmente ai legittimi Governi di allora.  Non mi pare che ci siano delle ragioni di carattere squisitamente sindacale per riservare all’attuale Governo una lotta senza quartiere come quella mossa da Landini e dagli ascari della Uil. A parte il logoramento di un’arma come lo sciopero generale su obiettivi che si riducono a slogan, la Cgil è arrivata al punto di sabotare anche la firma dei contratti nazionali di lavoro pur di creare insoddisfazione e malessere tra i lavoratori. Non vedo spazi lasciati da un sindacato come la Cgil per sviluppare una politica sindacale oggettiva e responsabile. Anzi, quando Landini parla di una legge sulla rappresentanza, non pensa di eliminare solo i contratti e i sindacati pirata, che sono un’esigua minoranza, ma crede di poter estromettere, insieme ai nuovi alleati del sindacalismo di base, la Cisl dalla contrattazione collettiva.