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“L’invecchiamento ha assunto infatti le tinte di una tragica pena, e si fa strada una gigantesca opera di rimozione nei confronti della vecchiaia”[1].

Viviamo il paradosso di un progressivo allungamento della vita, prospettiva e speranza comunemente condivise, che è al tempo stesso percepito e rappresentato come un problema ed una criticità per la società.

Per lungo tempo la psicoanalisi si è disinteressata dell’invecchiamento e della vecchiaia, considerandone prevalenti il decadimento, il limite e l’assenza di prospettive. Si riteneva che lo sviluppo psicologico si concentrasse nei primi due decenni di vita[2].

Per Freud le persone anziane non sono più educabili, oltre al fatto che “(…) il materiale da elaborare prolunga indefinitamente la durata del trattamento”[3].

Emergono due aspetti, che peraltro continuano a condizionare l’interpretazione sociale dell’essere anziano. Da un lato, la rigidità, la scarsa plasticità che viene considerata tipica dell’età, da un certo momento in avanti; dall’altro, la fatica dell’“occuparsi” degli anziani protagonisti di un inevitabile declino che può indurre a pensieri condizionati dall’avverbio ormai (ovvero, dalla domanda “ne vale la pena”?)[4].

Il pensiero di Gustav Jung (1875-1961) riabilita la vecchiaia, quale parte di un processo che interessa l’intera vita, in ogni sua età, di ricerca e compimento di sé.

Il riferimento è al concetto junghiano di individuazione, che è la ricerca di sé attraverso il ritrovamento e il dialogo con ciò che in noi stessi è inespresso e a livello inconscio ed anche più oscuro; è individuare l’individuo che è in noi e connetterlo alla dimensione sociale. L’individuazione è quindi un processo che va nella direzione di “ampliare la propria coscienza”. Inizia a metà del percorso della vita e implica un allontanamento ed un distacco dalla realtà mondana e crea sempre nuove possibilità e nuove tensioni trasformative. Solo da vecchi avremo l’opportunità di conoscere il senso della nostra vita, in tutta la sua complessità e interezza.

“Viviamo per raggiungere il maggior sviluppo spirituale possibile e per ampliare quanto più possiamo la nostra coscienza. Finché è possibile mantenersi in vita, sia pur solo a livelli minimi, bisognerebbe impegnare tutte le proprie energie per raggiungere l’obiettivo della presa di coscienza”[5].

È interessante ed evocativa l’espressione junghiana “mettere radici nell’anima”: operazione che sarebbe propria della fase matura della vita delle persone, che tenderebbe alla trascendenza, e che sarebbe successiva a quella indicata come “mettere radici nel mondo”, di costruzione dell’Io, forte e con i piedi per terra.

Facendo un salto cronologico significativo, Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) nel suo De Senectute, mette al centro la cura della mente e dell’animo ancor più di quella del corpo, sul presupposto che nella vecchiezza non ci sono forze, ma neppure si richiedono. Quasi come se l’animo, nel continuo esercizio e cura, possa essere preservato dalla senilità a dispetto della forza fisica dalla quale poter prescindere, proprio grazie alla forza della mente. “Assisto i miei amici, vo in senato spesso, e di mia iniziativa là porto cose molto e a lungo meditate, e le difendo con le forze dell’animo, non del corpo”[6].

La conoscenza e l’esercizio delle virtù vengono indicate come le più opportune armi della vecchiezza, proprio perché non abbandonerebbero mai, neppure in età più avanzata.

Questa prospettiva è interessante, e non è una visione semplicemente consolatoria.

A ciò si aggiunga che con la vecchiaia cambia anche il rapporto con il tempo, variabile che condiziona gli spazi di vita nelle età precedenti. C’è più tempo, in effetti, per guardarsi dentro, per concentrarsi sulla dimensione personale e sociale, di cura delle relazioni e di sé.

Inoltre, questo spazio di vita, di esistenza, è potenzialmente sempre più lungo: c’è ancora margine per progetti, ri-scoperte, esperienze, di rinnovamento e di nuove opportunità.

“L’invecchiamento pone nuovi vincoli ma apre nuove possibilità, e sono proprio le nuove limitazioni, o le perdite, a generare nuove forme di abilità. Il processo di sviluppo, a qualsiasi età, prevede guadagni e perdite nella capacità adattiva (…). Tuttavia l’invecchiamento comporta, rispetto alle altre età, una quota di perdite maggiore per intensità e frequenza. Il punto è come trovare una sintesi realistica e praticabile nella dinamica tra crescita, espansione e contrazione. Sta forse in questa sintesi una dimensione sociale e individuale della saggezza?[7]

Pare proprio che la vecchiaia più che il regno degli equilibri sia il regno delle polarità: saggezza o demenza, tanto da imbrigliare le immagini della vecchiaia in queste due visioni opposte, estreme, tramandate nei secoli.

Se è vero che la vecchiaia di per sé non porta alla saggezza, allo stesso modo essere vecchio non può essere automaticamente associato alla perdita di lucidità, alla degenerazione delle facoltà mentali e ad un inevitabile invecchiamento cerebrale.

Peraltro, negli anni più recenti sono state riviste le teorie sull’invecchiamento cerebrale, grazie alla ricerca scientifica e ai suoi progressi ed alle nuove tecnologie.

A molto hanno valso le scoperte sulla neuroplasticità, che hanno dimostrato che il cervello può creare nuove connessioni neuronali anche in età avanzata, soprattutto se sottoposto a stimoli quali l’apprendimento e l’impegno ed esercizio mentale.

Ciò ha aiutato a smentire la connessione tra vecchiaia e demenza, quando in prevalenza si ha un normale processo di invecchiamento cerebrale, che è ben diverso dal caso di malattie degenerative quali l’Alzheimer che intacca irrimediabilmente le funzioni cognitive.

Per lo scrittore Erri De Luca la vecchiaia è “l’età sperimentale”[8], in cui per la prima volta (per le generazioni passate era diverso) si è in tanti e potenzialmente per lungo tempo.

Impariamo a guardare alla vecchiaia come a un Terzo Tempo della vita che è anche un buon momento per esercitarsi a cambiare[9], pensiamola quale terreno da scoprire, in cui cercare il proprio spazio come individui.

Siamo vittime e, al tempo stesso, artefici con i nostri pensieri e pregiudizi di una categorizzazione delle persone anziane; trattiamo la vecchiaia come un’unica categoria sociale, svalutiamo gli anziani e non teniamo conto dei tanti possibili modi di invecchiare e, conseguentemente, dei tanti tipi di vecchiaia, che si differenzia per stato di salute, grado di autonomia, stile di vita, livello e grado di partecipazione alla società.

L’invecchiamento è un evento, pertanto, soggettivo.  

Eppure, quando parliamo di vecchiaia, domina un’immagine collettiva dell’anziano che non contempla i singoli soggetti e le loro storie, in cui l’indebolimento e la senescenza del fisico sono assimilati ad un corpo che si ammala. Senectus ipsa est morbus, si sosteneva nell’antichità. E ancora: vecchiezza significa anche maggiore lentezza, in una società veloce, attiva, in cui è importante essere performanti, sempre, tonici nei corpi, resistenti, rapidi, tecnologici. I vecchi non sono ritenuti socialmente competitivi e in questo senso non sono produttivi.

L’inizio della vecchiaia è una convenzione sociale. A 65 anni e più si entra a far parte della popolazione degli anziani. La definizione della soglia anagrafica è, appunto, fissata per convenzione ed è utile ai fini statistici. Il problema è che ne condiziona l’approccio e lo sguardo complessivo nei confronti degli anziani, popolazione estremamente variegata, in progressivo aumento, con prospettive di vita sempre più ampie, diversi dagli anziani di un tempo.

In Italia, rappresentano quasi un quarto degli abitanti (dal 1° gennaio 2025)[10].

Analizzando alcune voci, i dati che ne ricaviamo ci aiutano a sostenere quanto composito, diverso dall’immaginario stereotipato e collettivo, sia il cosiddetto “mondo degli anziani”.

La loro partecipazione alla realtà del lavoro, culturale e sociale è cresciuta significativamente nel tempo ed è, insieme alla salute e sicurezza, uno dei pilastri della strategia promossa dalla World Health Organization per rendere le città a misura di anziano.

Anche la salute va meglio. Peraltro, l’Italia è uno dei Paesi in cui la speranza di vita è più alta: 83,4 anni. L’Istat ci ricorda che nella vita della popolazione di 65 anni e oltre pesano molto lo stato di salute, il grado di autonomia e le reti affettive su cui contare.

Grazie all’allungamento della vita media, “la perdita dell’autosufficienza e la contrazione della vita sociale, che marcano l’entrata nell’età anziana più avanzata, sono spostati più avanti” (Istat, 2025). Il tempo della vecchiaia è sempre più lungo, pertanto sempre meno facilmente etichettabile e definibile univocamente per tutti.

“È ridicolo confinare la vecchiaia a numeri anagrafici. Inizia con una metamorfosi, non diversa nel suo significato da quella che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. La vecchiaia si lega a un nuovo stile di vita, a una nuova visione del mondo”[11].

Per l’autore di questa affermazione, lo psichiatra Andreoli, è sbagliato parlare di “arco” della vita e non di “linea”, come se dopo il raggiungimento di un apice fosse inevitabile percorrere una discesa.

In effetti, l’approccio concettuale e terminologico alla vecchiaia è in trasformazione: da ciclo vitale (che rimanda all’idea di un ritorno all’infanzia), ad arco della vita, che evoca l’immagine dell’ascesa e della discesa, al corso della vita, che supera l’idea di una successione in fasi con quella di processo, e in cui anche nella vita inoltrata (late life) c’è spazio per le novità e per esprimere capacità di adattamento e di trasformazione.

Per giunta, il corso della vita di ciascuno di noi non è più chiaramente scandito da tappe certe e note: il matrimonio, il lavoro, poi l’uscita dal mercato del lavoro, la pensione.

Adesso siamo sempre più frequentemente protagonisti di tanti cambiamenti, nelle relazioni familiari e sociali e nei modi di attivare ed alimentare queste relazioni; nel lavoro, precario, a tempo determinato, si prende, si lascia, si cambia, si inizia in tarda età; la pensione è anticipata, è posticipata, grazie al miglioramento delle condizioni di salute (fisiche e mentali) che consentono di rimanere più a lungo nel ciclo produttivo e di mantenere più a lungo i ruoli sociali. Il tutto è riassumibile in una minore prevedibilità dei possibili percorsi legati all’età.

“In ogni momento della vita, almeno fino ai settantacinque-ottant’anni, l’individuo sarà attivo in ruoli che, in parte sempre maggiore, non saranno rigidamente legati all’età. La nonna cinquantenne inizia un primo lavoro; la coppia di sessantenni senza figli decide di trasferirsi in Argentina”[12].

È allora il caso di cambiare lo sguardo sui vecchi e l’atteggiamento nei loro confronti; parliamo di una vastissima popolazione che ha davanti a sé uno spazio di vita ancora potenzialmente lungo e non definito una volta per tutte; con possibilità di continuare a sperimentare ruoli nuovi, diversi, magari ancora socialmente importanti.

Lo “scivolamento” nell’età (non solo anagrafica) anziana, salvo traumi/eventi/malattie che ne segnano il corso in modo più marcato e più precipitoso, è potenzialmente sempre più lento e in continuità con la storia di ciascuna persona.

Socialmente, in realtà, si fa presto a creare una frattura tra un prima e un dopo. E tale frattura, fittizia, è segnata magari da esclusione, messa ai margini, fino all’insofferenza.

Dobbiamo riconciliarci con i termini di vecchiaia, morte, invecchiamento del corpo, attualmente così dissonanti dalle immagini artefatte di bellezza, efficienza e vigoria, a volte così attraenti per i meno giovani, che cercano elisir di eterna giovinezza, tanto da essere distolti dalla ricerca di una chiave per “sostare” in questo “Terzo Tempo della vita”, come lo chiama la giornalista e scrittrice Lidia Ravera, con pienezza e consapevolezza e con una diversa visione della vita e delle cose.

Una nuova e più aggiornata attenzione al tema della vecchiaia ed una riorganizzazione del pensiero e dello sguardo sui vecchi, deve potersi compiere a livello sociale, nel mondo del lavoro, della cultura, a livello politico, ma soprattutto a livello culturale, educativo, di riconoscimento del vecchio, che “mette radici nell’anima” e la cui età corrisponde al tempo della ricerca e della riscoperta del senso della vita, delle relazioni, degli affetti, vero nutrimento e ricchezza per l’uomo e per la società.


[1] Sono le parole di Stefano Mistura, in Invecchiamento e vecchiaia, Premessa al testo di Alberto Spagnoli, “…e divento sempre più vecchio”. Jung, Freud, la psicologia del profondo e l’invecchiamento, Bollati Boringhieri, Torino 2019.

[2] Ci si riferisce alle principali teorie psicologiche da Freud (1856-1939) a Piaget (1896-1980). Freud, in particolare, correla la “regressione dei caratteri sessuali” al progressivo spegnersi della libido e quindi al lento tramonto della capacità creativa.

[3] In Sigmund Freud, Psicoterapia, scritto del 1904.

[4] Sino a forzare scelte ed indirizzi a volte estremi, come drammaticamente accaduto nel periodo del Covid e dei ricoveri sovradimensionati e di emergenza, in cui la gerarchia degli interventi è stata spesso determinata dal dato anagrafico.

[5] Così scriveva Jung nel 1946, all’età di settantun anni, in risposta ad una persona anziana che meditava il suicidio (questo ed altri frammenti di scritti sono contenuti in Alberto Spagnoli, …e divento sempre più vecchio, cit.).

[6] Sono le parole che Cicerone fa pronunciare a Marco Porcio Catone, al quale affida l’intero discorso sulla vecchiaia e la confutazione dei principali rimproveri alla vecchiezza, tra cui appunto la debolezza del corpo (oltre all’allontanamento dalle occupazioni; alla quasi assenza di ogni piacere; alla vicinanza alla morte).

[7] In Alberto Spagnoli, cit.

[8] Erri De Luca, Ines de La Fressange, L’età sperimentale, Narratori Feltrinelli, Torino 2025.

[9] Come ci dice Lidia Ravera, in Age Pride. Per liberarci dai pregiudizi sull’età, Einaudi, Torino 2023, piccolo testo ricco di spunti e di suggestioni. Vi si legge: “Bisogna lottare per restare individui fino all’ultimo respiro”.

[10] Dati Istat 2025.

Invecchiamo bene? – Istat

[11] Vedi Vittorino Andreoli, Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio), Solferino, Milano 2023. L’autore si rivolge a “tutti i vecchi e anche a quelli che non vorrebbero esserlo”, i cosiddetti “giovanilisti”, che non ammettono di essere vecchi, che perdono l’occasione di sperimentare una nuova identità negando e, anzi, cercando di camuffare i segni delle inevitabili metamorfosi

[12] In Alberto Spagnoli, cit.