Necessario guardare indietro, per meglio avanzare
Era il 1942 quando, all’interno dell’imponente impianto legislativo del Codice civile, veniva emanato, frutto di un raffinato, ma soprattutto profetico intervento normativo, l’art.2087,[1] che per la sua rilevante portata sarebbe stato riconosciuto negli anni a seguire – giungendo fino ai nostri giorni, mantenendo immutato il valore – il terreno fertile sul quale avrebbe poi fissato le fondamenta il manifesto del “nuovo modello di prevenzione”, considerata anche la struttura quale perfetta norma di chiusura.
Indicati in modo puntuale quelli che sarebbero poi divenuti gli elementi cardine dell’attuale sistema delle tutele in campo prevenzionale – ponendoci alle spalle il lungo periodo nel quale l’articolo è rimasto in ombra, causa il predominio del modello “comando-controllo”, necessario negli anni Cinquanta per fronteggiare gli innumerevoli rischi lavorativi nella ricostruzione post-bellica –, già dagli anni Quaranta emergeva con chiara evidenza come la sicurezza sul lavoro (poi divenuta salute e sicurezza sul lavoro) non può che essere il frutto di un perfetto necessario balance. Da un lato, il ruolo centrale e la piena autonomia dell’imprenditore (identificato poi dalla normativa specialistica con il datore di lavoro), dall’altro, il diritto alla tutela psico-fisica dei lavoratori.
Con una formulazione chiara ed efficace, perché asciutta e non differentemente
interpretabile, dal dettato dell’articolo in parola, emerge con evidenza come, garantita la piena libertà dell’imprenditore di perseguire la propria mission e, pertanto, di delineare il proprio modello d’impresa, rispettoso come ovvio delle specificità della realtà lavorativa, sia stata prevista, «nell’esercizio dell’impresa», l’autonomia nello scegliere anche le «misure che (…) sono necessarie», – così il bilanciamento perfetto – a «tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», quale vincolo posto a principio inderogabile.
È evidente, in estrema sintesi, come già dai primi anni Quaranta la prevenzione in ambito
lavorativo riconosceva, quale focus privilegiato d’intervento, l’armonizzare il modello organizzativo-gestionale, autonomamente definito e adeguato alla realtà lavorativa, delineato da parte del datore di lavoro, e l’obbligo, posto a suo carico, del dover garantire, attraverso l’adozione di misure di intervento mirate, le previste tutele ai lavoratori.
Un fondamentale, seppur delicato e complesso equilibrio, tra obiettivi e finalità primarie, assurto dopo solo sei anni, a principio costituzionale. Difatti, nell’art.41[2] della nostra Carta costituzionale troviamo concettualmente riproposto il medesimo necessario bilanciamento tra il pieno rispetto della libertà riconosciuta all’«iniziativa economica privata» e, al contempo, i vincoli ad un agire all’insegna del garantire la tutela di interessi superiori e insopprimibili, tra i quali, la «salute» (esplicitata dopo un recente intervento di novellazione dell’articolo)[3] e la «sicurezza».
Per cui – nell’estrema sintesi che il presente contributo scritto richiede – quando nel 1970 si andò a sancire quelli che sarebbero stati (e ancora, sostanzialmente, lo sono) i diritti fondamentali dei lavoratori, in termini individuali e collettivi, quel balance di rango costituzionale, ancorché precetto di natura codicistica, trovò puntuale riconoscimento, secondo un’ottica di coerente priorità rivolta all’affermazione e salvaguardia dei diritti degli occupati, nel dettato dell’art.9. Dove, ancora una volta, seppur con toni più assertivi richiesti da una puntuale regolazione di diritti “conquistati” ed esigibili sul campo, si andava coniugando il diritto in capo ai lavoratori (avvalendosi della rappresentanza)[4] di «controllare» (e, pertanto, l’obbligo a carico del datore di lavoro di garantire) il rispetto delle disposizioni di tutela della salute e sicurezza sul lavoro; con, al contempo, quello di «promuovere», da parte degli stessi occupati (sempre mediante propria rappresentanza) interventi diversi volti al collaborare, al fine di favorire la realizzazione di quelle «misure idonee» ritenute necessarie dall’imprenditore (in linea di continuità, come detto, con la primaria cornice de quo all’art.2087 cod.civ.) a salvaguardia dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
Pronta, dunque, l’Italia, almeno sul piano legislativo (dall’alto del suo esser indiscussa “culla del diritto”),[5] al quel passaggio epocale, potremmo dire cambio di paradigma (di indubbia, comunque, evidente ispirazione a partire da quanto dettato dall’art.2087 cod.civ.),[6] che dal livello comunitario – sentita l’esigenza di una regolazione vincolante europea – mediante il varo della direttiva quadro 89/391/CEE,[7] venne determinato nel sistema regolativo antinfortunistico, abbattendo radicalmente (almeno sul fronte dell’impianto concettuale e organizzativo-gestionale) un approccio di natura conflittuale, risultato negli anni sterile, a favore di uno a carattere partecipativo.
Non di certo, quindi, uniformando e, ancor più, con-fondendo i ruoli, ma chiamando tutti, sulla base delle diverse funzioni e responsabilità, a partire dall’ambito aziendale, a favore di un radicamento delle tutele e di un miglioramento continuo delle condizioni di lavoro, nel pieno e corale impegno volto, in parallelo, ad una produzione all’insegna di un aumento della redditività e, al contempo, significativo tramite di uno sviluppo economico, in primis dal contesto nel quale si realizza; ancor più, quand’anche sostenibile.
Giungeva, così, dal livello europeo la conferma della priorità di perseguire l’«obiettivo dell’armonizzazione»[8] della salvaguardia delle tutele di salute e sicurezza, con il «progresso»,[9] identificativa del nuovo modello di prevenzione che, alle soglie degli anni Novanta, irrompeva – tracciando la linea – negli ordinamenti dei Paesi dell’Unione, ponendo a centralità un sistema di relazioni basate su di un impianto a carattere partecipativo, ritenendo «indispensabile» che i lavoratori, con i propri rappresentanti, siano messi in condizione di «contribuire, con una partecipazione equilibrata»,[10] al fine di perseguire i migliori livelli di protezione.
Una partecipazione[11] prevista nei riguardi dei lavoratori e dei propri rappresentanti «in tutte le questioni che riguardano la sicurezza e la protezione della salute durante il lavoro», ben distinta, ma aggiuntiva, alla «consultazione» (attraverso un’esplicativa «e» congiunzione, presente nell’articolato della direttiva),[12] quale pratica ulteriore posta in capo ai datori di lavoro, volta comunque sempre al realizzare lo scopo di perseguire il raggiungimento degli obiettivi di tutela, con il contributo di tutte le parti in campo, ciascuna per il suo ambito di intervento. Non dimenticando, e per mano del legislatore comunitario rinnovando, il rispetto di quel balance (per noi da subito posto a rango costituzionale) tra interessi iure proprio del datore di lavoro e necessarie garanzie di tutela, realizzate adottando misure ritenute adeguate al soddisfacimento di tale fine; non sacrificando, quindi, una parte per l’altra, ma anzi contribuendo, alla realizzazione di condivisi obiettivi aziendali, quali punto di convergenza e sintesi di priorità differenti, resi terreno privilegiato di azioni partecipate.
Lasciandosi alle spalle quello che, mediante il dovuto recepimento dei precetti comunitari con il dlgs. 626/1994, ha costituito una mera prima miope adozione di quanto innovativamente introdotto e regolato dal fronte europeo in campo prevenzionale, è guardando al vigente dlgs. 81/2008 s.m., che, oltre a ritrovare una più puntuale trasmigrazione delle disposizioni previste dalla direttiva quadro 89/391/CEE, ne si coglie a pieno, da parte degli estensori, l’aver fatto propria la ratio perseguita dal legislatore oltralpe.
È il modello partecipativo,[13] difatti, ha costituire l’intelaiatura del complessivo impianto organizzativo-gestionale delineato dall’ampio articolato che proprio per tale impostazione – pur alla luce di non pochi e minimi interventi di modifica e integrazione al testo succedutisi nel tempo –, trascorsi ad oggi diciassette anni di vigenza (molti per una materia dalla repentina evoluzione e insorgenza di nuovi ed emergenti rischi), risulta a tuttora essere un riferimento normativo di indiscutibile rilevanza, di attualissima portata e dalle potenzialità ancora non pienamente espresse, oltre al rilievo valoriale che esprime.
Posto l’ampio rimando alla contrattazione collettiva per la regolazione di quanto relativo alla Rappresentanza, in particolare quella specifica, sui temi della salute e sicurezza sul lavoro (sia aziendale che territoriale – Rls/Rlst/Rlssp),[14] scelta da parte del legislatore non certo scontata, ma coerente con l’attenzione riservata al modello partecipativo, in particolare, al corretto favore del promuovere il confronto e gli accordi tra le Parti, a partire dai posti di lavoro, è nel merito dell’organizzazione e gestione,[15] oltre che della scelta delle misure di intervento, che quanto delineato nel dlgs. 81/2008 s.m., in campo prevenzionale, costituisce una significativa punta avanzata nel sistema delle relazioni.
Una pratica, purtroppo, che negli anni ha stentato e ancora oggi fatica a divenire prassi consolidata e diffusa nel tessuto delle realtà lavorative del nostro Paese. Una resistenza spesso supportata da sterili ragioni (o, meglio, alibi) che fanno delle ridotte dimensioni delle aziende o della granitica difesa da parte del datore di lavoro della propria esclusiva autonomia nel decidere sul piano degli interventi di tutela, i maggiori ostacoli al dare concretezza e, soprattutto, efficacia positiva al sistema organizzativo della prevenzione delineato dal livello comunitario (su princìpi cardine del modello italiano) e declinato dal legislatore nazionale.
La libertà di poter impostare una gestione della prevenzione aziendale secondo un impianto di carattere “sartoriale”, quindi, delineato in modo specifico per la singola realtà lavorativa, all’interno di un utile (perché orientativo) insieme di regole generali che perimetrano il campo dell’agire, costituisce indiscutibilmente la perfetta sintesi al fine di governare una tematica, quale la salute e sicurezza che non può essere ricondotta a un insieme di adempimenti da assolvere, per poi, liberi da vincoli, perseguire gli obiettivi di produzione, occupandosi dell’attività lavorativa e dello sviluppo dell’azienda. Una parcellizzazione di ambiti di intervento non coerente e inefficace.
È il concetto di “semprità” che il legislatore dell’art.2087 del cod.civ. (già nel 1942), ha inteso introdurre scegliendo di richiamare l’imprenditore (si legga datore di lavoro) ad essere «tenuto» ad adottare le misure di tutela necessarie, e non solo ad essere “obbligato” a fare ciò, potendo pertanto, assolti i meri doveri previsti dalla normativa, porsi alle spalle la tematica antinfortunistica. Una scelta terminologica di grande significato, colta, e per questo riprodotta fedelmente ad incipit della direttiva quadro europea, conservando così quel corretto intendere l’attenzione e la tensione verso le tutele, in modo costante e continuo che, considerato il coinvolgimento ritenuto, dal fronte comunitario, «necessario» da parte delle rappresentanze dei lavoratori, ne viene previsto anche lo svolgimento con un pieno carattere corale e di dialettica permanente, sempre comunque nel rispetto dei ruoli e delle funzioni di ogni attore aziendale della prevenzione (a partire dai lavoratori).
La circolarità del sistema dei ruoli e delle funzioni in campo prevenzionale, delineata dal legislatore, a positiva contrapposizione ad un impianto classico dove le parti in campo si fronteggiano (figlio di una contrattazione rivendicativa e non partecipativa), ne indica in modo chiaro le finalità collaborative e non conflittuali perseguite. Già la sola possibilità prevista per il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, quando anche addetto all’evacuazione, incendi e primo soccorso, di operare, a tale fine, all’interno del Servizio di prevenzione e protezione, collaborando con il Responsabile (Rspp), quale figura di diretta designazione (e fiducia) del datore di lavoro, fa comprendere come nel “nuovo” modello prevenzionale, di fonte comunitaria, non vengano contemplati funzioni e ruoli, per definizione, appartenenti a compagini diverse e, pertanto, in contrasto gli uni con altri. Ancor più guardando proprio al ruolo dell’Rls che, con le parole recenti degli ermellini dell’Alta Corte «è un ruolo di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della salute e sicurezza sul lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale».[16]
Così, gli ampi spazi (seppur, ad oggi, in molti contesti lavorativi ancora solo “potenziali”) di stabilita collaborazione fattiva e permanente, disposta espressamente sul piano normativo nell’ambito dell’agire del Rls/Rlst (in particolare quali «attribuzioni»),[17] nelle forme del «promuovere»,[18] far «proposte»,[19] formulare «osservazioni»,[20] in merito agli interventi e misure da porre in essere, a carico del datore di lavoro, sempre nell’ambito della salute e sicurezza su lavoro. Al contempo, non sminuendo, ma anzi valorizzando maggiormente le regole procedurali previste per le vincolanti «consultazioni»[21] che, causa una più ridimensionata portata partecipativa, le ha spesso ridotte a mero rituale dovuto, seppur previste sui tre assi di attività più strategici, quali la valutazione dei rischi (perno fondamentale del complessivo impegno di rilevazione delle problematiche e delle relative adeguate tutele), l’organizzazione della formazione e la scelta delle figure professionali obbligatorie chiamate a collaborare per tali fini. Uno strumento, difatti, quello della «consultazione», considerato, a non giusto titolo, misura di intervento e interlocuzione di più ridotta portata – forse perché caratterizzato dal non previsto obbligo a carico del datore di lavoro del tenere conto di quanto espresso da parte dei Rappresentanti, nell’esercizio di tale procedura –, per questo ancora oggi non pienamente agite le ampie potenzialità che invece dovrebbero essere utilizzate; indicativo in tal senso il richiamo esplicito a tale pratica, affiancato e non ricompreso, alla «partecipazione», nelle «Misure generali di tutela» (di cui all’art.15 del dlgs. 81/2008 s.m.).
È per questo che l’impianto delineato dagli estensori del dlgs. 81/2008 s.m. viene considerato un perfetto sistema di gestione, dove l’adozione di procedure, non calate dall’alto, ma elaborate e condivise sulla base di criteri e modalità adottate secondo pratiche partecipative, costituisce la formula più efficace di prevenzione e protezione.
Un modello, quindi, di grande portata – e ampie potenzialità poco praticate– di cui se ne è avuta conferma (anche se non avremmo voluto veicolata in tale modo) mediante l’esperienza fatta durante il drammatico periodo della pandemia.
Era il 30 gennaio 2020, lo ricordiamo tutti, quando l’Oms dichiarò lo stato di emergenza sanitaria a livello mondiale. Era l’11 marzo del 2020 quando il Governo italiano introdusse misure urgenti (lockdown) per il contenimento dell’emergenza da COVID-19, ed era il 14 marzo 2020 (cioè, solo tre giorni dopo) quando le Parti sociali a livello nazionale – sotto l’egida del Governo, titolare della convocazione – con un atto di grande responsabilità, in piena sintonia tra lato datoriale e lato sindacale, giunsero a siglare quello che prese il nome di «Protocollo condiviso».[22] Un documento ufficiale mediante il quale venivano stabilite regole e modalità generali per fronteggiare la diffusione del virus nei posti di lavoro, garantendo la tutela degli occupati, durante lo svolgimento di quelle produzioni e servizi ritenuti indispensabili. Un accordo nazionale, pertanto, condiviso (e poi ulteriormente aggiornato, riconfermando così la rilevanza quale strumento di volontà congiunta a favore delle tutele), che sostanzialmente indicava la via comune da seguire, in un momento difficile come quello dello stato emergenziale (modello poi riconosciuto anche dall’Ilo, sul livello internazionale, quale esempio di intervento strategico di rilievo fondamentale). Un testo snello, con alla base due scelte strategiche a carattere gestionale-organizzativo, perfettamente coerenti nel quadro regolativo tracciato dall’impianto normativo previsto dal decreto 81/2008 s.m.. Un primo intervento, consistente nell’elaborazione, in ogni realtà lavorativa, di uno specifico protocollo aziendale, quale declinazione mirata dei precetti generali da seguire, riconosciuti coralmente opportuni e necessari, rispondenti alle esigenze espresse nei diversi contesti lavorativi e dalle differenti popolazioni. Un secondo intervento, consistente nella costituzione di un Comitato,[23] in ogni ambito lavorativo, composto dalle diverse figure della prevenzione aziendale, compresa la rappresentanza, nelle sue due forme, quella di natura contrattuale (Rsa/Rsu) e quella specifico-tecnica (Rls/Rlst). Due misure, perciò, a carattere gestionale, espressione di un agire partecipato, regolato attraverso uno strumento negoziale, quale il protocollo, espressione perfetta ed efficace di scelte divenute, e per questo riconosciute da tutti, terreno di pieno rispetto e impegno congiunto.
Un terreno fertile che oggi ha le regole per un puntuale e fattivo sviluppo
Terminato l’effetto pandemia, la positiva esperienza di una partecipazione permanente alimentata con l’attività dei Comitati interni aziendali, sui temi della prevenzione, è andata purtroppo svanendo nelle realtà lavorative che ne avevano efficacemente giovato negli anni dell’emergenza. Un effetto regressivo, sul piano delle positive relazioni e sviluppo di un permanente confronto aziendale, andatosi nel tempo consolidatosi, che ha sicuramente fatto risultare ancor più con positiva evidenza quanto dichiarato di recente da parte datoriale (in particolare per voce di Confindustria) all’incontro avuto con il Governo (a seguito di quello con le organizzazioni sindacali), incentrato sul sempre più urgente bisogno di porre un assoluto contrasto al fenomeno infortunistico e alle diverse forme di danno da lavoro (tra cui le malattie professionali). «Noi abbiamo in mente – ha dichiarato il rappresentante di Confindustria all’incontro – un modello semplice ed efficace: è il modello che abbiamo utilizzato assieme ai sindacati, assieme al Governo, per il protocollo Covid. Ognuno si è preso le sue responsabilità e siamo riusciti ad aprire fabbriche in sicurezza: questo è il nostro modello di riferimento».
Segnali di un terreno fertile, potremmo quindi ipotizzare, che si ridelinea all’orizzonte, pur con tutte le riserve che l’esperienza negli anni ci porta ad avere nei riguardi degli annunci, non potendo però, al contempo, trascurare la fase che stiamo vivendo e quanto di rilevante avvenuto, sul fronte legislativo. Lo scorso 14 maggio 2025, il Parlamento italiano, difatti, ha varato la legge n.76. recante «Disposizioni per la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese»,[24] coronando un lungo percorso, partito con la raccolta di oltre quattrocentomila firme da parte della CISL, impegnata nel promuovere una tale regolazione utilizzando lo strumento della proposta legislativa di iniziativa popolare.[25]
Un significativo traguardo raggiunto, di certo per l’impegno profuso e, soprattutto, per quanto previsto nell’articolato del nuovo disposto normativo; ma ancor più – guardando con una visione ampia, di prospettiva e, di certo, contemporanea –, innegabile pietra miliare posta nel cammino di sviluppo delle relazioni industriali e dei diritti dei lavoratori del nostro Paese, considerata l’attuazione, dopo circa ottant’anni, di quanto i padri costituenti previdero con la stesura dell’art.46 della nostra Carta costituzionale.
Rimandando ad autorevoli letture di merito[26] per un puntale approfondimento sul testo della nuova normativa – a giusto titolo sinteticamente identificata, ormai per tutti, “legge sulla partecipazione” –, nel quadro delle argomentazioni sviluppate, seppur nell’economia del presente contributo, alcune considerazioni e spunti di riflessione appaiono opportune.
Il dare attuazione, oggi, all’art.46 della Costituzione, dal fronte di chi si occupa dei temi della prevenzione e delle tutele della salute e sicurezza sul lavoro, non può prescindere, almeno sul piano di una prima riflessione di scenario, dal considerare la collocazione data dagli estensori dell’articolo, all’interno del complessivo insieme di precetti, posti al vertice della gerarchia delle fonti, nell’ambito dell’ordinamento giuridico della nostra Repubblica.
Da questo, in linea di continuità con quanto argomentato nell’avvio del presente contributo, la ravvicinata sequenza tra l’art.41 e l’art.46, rende quanto mai evidente – senza richiamare i tanti e autorevoli commentatori giuridici che si sono espressi su tale annotazione – l’intento di riaffermare, anche in quest’ultimo articolo, dalle finalità proprie, quel concetto di balance tra «diritti dei lavoratori a collaborare» ed «esigenze della produzione», convergenti di una gestione aziendale che, rispettosa delle disposizioni normative, contribuisca «all’elevazione economica e sociale del lavoro».
Questa l’essenza del modello partecipativo che, nel rispetto, riconoscimento e valorizzazione dei ruoli, chiama ad un impegno corale e ad una acquisizione di responsabilità, da parte di tutti gli attori in campo, nel favorire una gestione e organizzazione aziendale che, nel perseguire gli obiettivi e raggiugere i risultati attesi, costituisca terreno d’eccellenza per contribuire al bene comune. Non solo, quindi, di chi, nelle forme diverse, ne è artefice e potenziale fruitore, ma in un’ottica sociale, contribuendo al benessere della collettività. Una condizione che produce effetti in molte direzioni, ponendo positivamente le basi per un futuro sostenibile per le prossime generazioni, ma che già da oggi diviene indispensabile – così le finalità enunciate dalla nuova legge sulla partecipazione – non solo rafforzando la «collaborazione tra i datori di lavoro e i lavoratori», ma soprattutto per «preservare e incrementare i livelli occupazionali» e «valorizzare il lavoro sul piano economico e sociale». Traguardi che richiedono comunque, inderogabilmente e con urgenza, il non poter più tollerare pratiche illegali, illecite, discriminati e di mancato riconoscimento dei diritti di tutela, terreno di cultura per un’inaccettabile esposizione a rischio, che piaga il nostro Paese, con reiterati eventi di infortuni, spesso mortali, malattie professionali e, ancor più diffuse, inadeguate condizioni di lavoro, causa di malessere e danni correlati al lavoro.
A fronte delle quattro forme diverse di partecipazione delineate,[27] demandando alla contrattazione le discipline per l’esercizio – quale strumento privilegiato di confronto tra le parti e condivisione delle modalità e pratiche da porre in campo –, è il terreno indicato sul quale svolgere le pratiche partecipative che, grazie a quanto previsto nel nuovo disposto normativo, costituisce le concrete premesse per un cambio di passo rilevante nel sistema delle relazioni, a partire dal livello aziendale,
Mediante interventi definiti e definibili, modulati e modulabili, quali la «collaborazione», la «consultazione», il «coinvolgimento», l’aprire al fronte dei lavoratori spazi di concreta interazione nelle «scelte strategiche dell’impresa», come anche nelle «decisioni relative alle varie fasi produttive e organizzative della vita dell’impresa», oltre ad esprimere pareri e proposte in merito alle «decisioni che l’impresa intende assumere», nel definire per la prima volta percorsi fattivi di partecipazione, potendo agire nel cuore dell’azienda, non solo si andranno rafforzando, sul piano prevenzionale, tali pratiche già rese vincolanti dalla normativa vigente in materia, ma indubbiamente si creeranno ulteriori possibilità di miglioramento e sviluppo di prassi, da rendere costanti e strutturali, a valenza positiva per l’”impresa”. Quella realtà dinamica, economica e organizzativa – non racchiusa per questo in una definizione normativa–,[28] che produce effetti, in primis, al suo interno.
Se con l’approvazione della “legge sulla partecipazione” il passo compiuto è rilevante, altrettanto dovrà essere l’impegno e l’assunzione di responsabilità che i lavoratori e (per/con essi) i propri rappresentati, dovranno farsi carico, risultando pronti, non solo per competenza (giusta in tal senso la formazione prevista),[29] ma per capacità propositive e solutive, considerate le grandi sfide a cui siamo e saremo chiamati, già solo nel fronteggiare le questioni emergenti, quali, l’invecchiamento della popolazione lavorativa, l’aumento della delocalizzazione e remotizzazione della produzione e del lavoro, i cambiamenti climatici, l’irruzione delle innovazioni tecnologiche e digitali, tra cui l’IA.
Perché la pratica partecipativa non deve considerarsi una forma di verifica agita dall’interno, da parte del fronte dei lavoratori nei riguardi di quello datoriale, al fine di ricevere certezze sulla compliance aziendale. La partecipazione, sempre nel rispetto dei ruoli e delle funzioni agite, se non esercitata con correttezza, trasparenza, ma soprattutto senso di appartenenza alla realtà lavorativa nella quale si intende praticarla, con una propensione propositiva e fattiva al bene collettivo, nessuna normativa potrà garantirne l’efficacia attesa.
[1] Così l’art. 2087 del Codice Civile che recita: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l‘esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
[2] Dopo l’avvenuta riforma, mediante la legge costituzionale del 1 febbraio 2022, n.1, il novellato art.41 della Costituzione recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana».
[3] Cfr., supra, nt.2.
[4] L’art.9 della legge 20 maggio 1970, n.300 recita: «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento».
[5] Con tale espressione il riferimento è all’innegabile eredità giuridica che il diritto romano ha prodotto nel tempo, influenzando significativamente non solo la produzione normativa del nostro Paese, ma anche di molti altri.
[6] Lart.2087 del Codice civile recita: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
[7] Si veda Direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro.
[8] Si veda il secondo Considerando della direttiva 89/391/CEE del 12 giungo 1989. Cfr., supra, nt.7.
[9] Cfr., supra, nt.8.
[10] Si veda l’undicesimo Considerando della direttiva 89/391/CEE del 12 giungo 1989. Cfr., supra, nt.7.
[11] Frascheri C., La corretta e diffusa pariteticità e partecipazione quali rinnovate chiavi per una prevenzione efficace e di tutela, “Ambiente&Sicurezza sul lavoro”, Gen.- Feb. 2022, pagg.36-49.
[12] In particolare, si veda il titolo dell’art.11 direttiva 89/391/CEE del 12 giungo 1989. Cfr., supra, nt.7.
[13] Frascheri C., Il “modello partecipativo” applicato alla salute e sicurezza aziendale: fattore cardine dei SGSL, “Ambiente&Sicurezza sul lavoro”, Nov.- Dic. 2023, pagg.40-52.
[14] Le sigle riportate si riferiscono in modo consequenziale alle figure di Rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza aziendale (Rls), territoriale (Rlst), di sito produttivo (Rlssp).
[15] Lazzeri C., L’organizzazione del sistema aziendale di prevenzione: soggetti ed obblighi tecnici, “I Working Papers di Olympus”, 30/2014.
[16] Cfr. sentenza della Corte di Cassazione, Sezione penale, n.38914 del 26 settembre 2023 che, seppur molto criticata per l’anomala conferma della condanna per omicidio colposo, oltre che del datore di lavoro, anche dell’Rls, a seguito di un infortunio mortale avvenuto in ambito lavorativo, è indubbiamente di rilevo quanto affermato sul ruolo di rappresentanza di tale figura della prevenzione aziendale.
[17] Si veda l’art.50 del dlgs 81/2008 s.m., specificatamente intitolato: «Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza», all’interno della Sezione VII dal titolo «Consultazione e partecipazione dei Rappresentati dei lavoratori».
[18] Si veda la lett.h), comma 1, dell’art.50 del dlgs 81/2008 s.m.. Cfr., supra, nt.17.
[19] Si veda la lett.m), comma 1, dell’art.50 del dlgs 81/2008 s.m.. Cfr., supra, nt.17.
[20] Si veda la lett.i), comma 1, dell’art.50 del dlgs 81/2008 s.m.. Cfr., supra, nt.17.
[21] Si vedano le lettere b).c), d), comma 1, dell’art.50 del dlgs 81/2008 s.m.. Cfr., supra, nt.17.
[22] Cfr. «Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV 2/COVID-19 negli ambienti di lavoro», siglato, nella prima estensione, il 14 marzo 2020, poi aggiornato il 26 aprile del 2020 ed infine il 6 aprile 2021.
[23] Si veda l’articolo 13 del Protocollo condivido (cfr., supra, nt.22), che recita: “È costituito in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole contenute nel presente Protocollo di regolamentazione, con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del Rls”.
[24] Cfr. Legge 15 maggio 2025, n. 76 (Gazzetta Ufficiale n. 120 del 26 maggio 2025) che in fase di votazione al Senato (dopo l’approvazione avuta alla Camera) ha ottenuto 85 voti a favore, a fronte di 21 voti contrari e 28 astenuti.
[25] Massagli E., Peculiarità e contenuti della proposta Cisl, in Fondazione Ezio Tarantelli, Partecipazione: il compimento della democrazia, “Working Paper”, Giu.- Lug. 2023, n. 27, pp. 26-27.
[26] Tiraboschi M. (a cura di), Partecipazione dei lavoratori, Modena, ADAPT University Press.
[27] Si veda, in particolare, l’art.2 della legge 15 maggio 2025, n.76 (cfr., supra, nt.24) nel quale vengono definite le seguenti forme di partecipazione regolate, poi, nel testo della nuova disposizione normativa. In ordine, secondo quanto previsto nell’articolo dapprima richiamato, troviamo la partecipazione gestionale, la partecipazione economica e finanziaria, la partecipazione organizzativa e la partecipazione consultiva.
[28] Si ricorda, a tale riguardo, che nel Codice civile vi sono le definizioni di «azienda» (art.2555 cod. civ) e di «imprenditore» (art.2082 cod. civ.), ma non di “impresa”, considerando questa l’attività che quest’ultimo svolge al fine di produrre o scambiare beni e servizi.
[29] Si veda l’art.12 della legge 15 maggio 2025, n.76 (cfr., supra, nt.24).