(…) 4. La felicità come partecipazione
La partecipazione è il luogo di incontro fra pubblico e privato. La contrapposizione fra i termini di un problema che appaiano più alternativi è spesso un artifizio, una semplificazione. La loro inconciliabilità è sostenuta da coloro che vogliono lucrare, fra i partigiani dell’uno o dell’altro aspetto e non da chi vuole invece vedere la complessità di una questione. Così è per la pubblica o privata felicità.
Non si è felici quando si è chiusi in sé, ma quando si tende ad andare oltre, ad uscire dai limiti pur mutevoli del proprio sé, dai limiti del luogo e del tempo. La felicità p questa spinta energetica, eretica per possedere qualcosa che non sarà mai proprio, mai conquistato, mai definitivo: è il privato che si esterna, che si fa pubblico, ed il pubblico che si interiorizza e che diventa privato.
Privato ed interiore, come pubblico ed esteriore sono termini apparentemente opposti di una realtà complessa che esiste solo se li comprende. Anzi, la felicità nasce sulle frontiere tra sé e non sé, sta nel rapporto tra sé e l’altro, non sta in uno o nell’altro.
Il problema non sta nel falso dilemma tra pubblico privato, ma nella qualità del rapporto fra Sé e Altro. La questione attiene perciò alla libertà, alla reciprocità, alla parità, al rispetto con cui costruiamo i nostri legami sociali. Se in essi prevale l’amore essi si nutrono della libertà propria ed altrui, della valorizzazione intersoggettiva.
Non è sempre così. La ricerca della propria felicità è talvolta pensata ed agita come una meschina e tragica solitudine in cui l’altro non esiste, se non come estraneo da sottomettere o come “oggetto” delle proprie fantasie distruttive, come vittima della violenza. La felicità dell’amore è fatta di pace e tensione, di tenerezza e forza, di parola e ascolto, di lentezza e velocità, di reciprocità e libertà.
Perché allora c’è talvolta più paura della felicità che della sofferenza, del piacere che del dolore, dell’amore che dell’odio? Perché siamo preoccupati più di contenere che di espandere la felicità?
Queste domande sembrerebbero assurde, ma non è così. L’amore trasforma, discrimina, impegna, destabilizza, costringe a delle scelte. La felicità ed il piacere vissuti, provati, esperiti generano in noi desiderio e nostalgia, energia e impegno. Amore e felicità generano a loro volta amore e felicità, ma la loro possibile abbondanza toglie senso a molti nostri alibi, a molte difese, a molti miti e utopie illusorie, a molte rinunce, a molti contrasti che stanno alla base dell’ordine sociale in cui viviamo.
La felicità e l’amore sono destabilizzanti, rivoluzionari. Con la sofferenza e la scarsità “oggettiva”, con la fatica e la paura, più o meno reali o più o meno evocate, la società industriale ci ha saputo fare; ha saputo dare un certo ordine per lo sviluppo materiali. Ma oggi c’è un nuovo problema, come regolare l’abbondanza, come esprimere e come utilizzare la soggettività e la creatività verso il nuovo, come garantire un sufficiente “disordine” per uno sviluppo più integrale.
Su questo terreno nessuno crederebbe certo ai vecchi modelli di una felicità collettiva uguale per tutti, ma neppure ad una felicità individuale che prescinda da tutti.
Seppure siamo nella “società globale” ciascuno assai più di prima rivendica una sua attribuzione di senso, un suo pensare in grande, una sua partecipazione.
Non ci sono felicità per poveri o per ricchi, ma per ciascuna persona.
Sono sempre meno coloro che pensano al piacere ed alla felicità come questione pubblica “oggettiva”, come questione di ricchezza e possibilità materiali. Si può essere ricchi ed infelici, ma anche poveri e felici e viceversa. L’equità dell’avere è una condizione importante, ma la felicità è un sentimento, non una situazione oggettiva.
Certo, le condizioni strutturali costituiscono condizioni ed opportunità che possono favorire l’impegno di ciascuno nel dare senso alla propria vita e nel cercare in essa una realistica condizione di felicità, momenti di gioia ed entusiasmo. Essere esclusi, essere emarginati è già di per sé una condizione infelice perché è segno di un non riconoscimento, di abbandono, di non amore.
La domanda politica è domanda di felicità, anche se la risposta non può essere dell’istituzione. È qui che si innesta esplicitamente il problema della partecipazione.
La felicità non è avere di più, ma essere di più.
La felicità non è pensare a sé, ma pensare in grande.
La felicità non è ciò che si conquista, ma la lotta per conquistare.
La felicità non è isolamento, ma incontro.
La felicità non è né privata né pubblica, è felicità.
La felicità non è contro qualcuno, ma è con qualcuno.
La felicità si sente, coinvolge i nostri sensi.
La felicità è soggettiva, non è uguale per tutti, né è uguale nel tempo.
La felicità è libertà, si può essere felici solo a modo proprio.
La felicità più sentita è quella che viene dall’amore e dall’essere amati.
L’amore è espansione in un territorio non proprio, ma senza violazione, senza conquista.
L’amore è possibile fra soggetti liberi, dominare non è amore, è violenza…
La partecipazione non è sentirsi parte, non è contenimento, è sentirsi tutto, è coinvolgimento, è tensione massima, ma anche incontro con altri, liberi, coinvolti, partecipi a loro volta.
La passione partecipativa è passione dell’Eros, è sentimento di alterità, voglia di abitare e costruire un “luogo comune”.
La partecipazioneè andare oltre l’esistente, è qualcosa in più rispettp ai propri diritti ed ai propri doveri.
La partecipazione implica i propri deideri, i propri piaceri per disegnare un mondo nuovo.
La partecipazione è creatività, è cambiamento.
Il sentimento della partecipazione è l’amore.
Oggi capita che molta gente non osi ancora, temendo che il meglio di se stessa possa essere sprecato, offeso e deluso; chiudono la propria fantasia, i propri sentimenti ed i propri desideri nella sfera intima, microscopica e studiano il mondo più per difendersi che per affrontarlo e trasformarlo.
Eppure in un mondo così complesso, così ricco di opportunità oltre che di problemi, la dimensione sociale affettiva, partecipativa è quella che manca di più e tuttavia è sempre più necessaria per dare senso ad un progresso che diversamente ci è estraneo.
C’è bisogno di partecipazione, dunque di amore.
Riferimenti bibliografici[2]
Carandini G., Il disordine italiano. I postumi delle fedi ideologiche, Laterza, Bari, 1995.
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Magri T. (a cura di), Filosofia ed emozioni, Feltrinelli, Milano, 1999.
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Palumbieri S., Amo dunque sono. Presupposti antropologici della civiltà dell’amore, Paoline, Cinisello Balsamo, 1999.
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Spaltro E., Pluralità, Patron, Bologna, 1985.
Spaltro E., Complessità, Patron, Bologna, 1990.
Spaltro E., Sangiorgi G., Evangelisti A., Il soggetto della politica, Patron, Bologna, 1994.
Volpe V. “La pubblica affettività, L’impresa al plurale – Quaderni della partecipazione, n.3-4, 1999.
[1] Il presente testo è un estratto dell’omonimo saggio di Vito Volpe pubblicato in: G.P. Cella, G. Provasi, Lavoro, sindacato, partecipazione. Scritti in onore di Guido Baglioni, Franco Angeli, Milano, 2001.
[2] Si inseriscono qui i riferimenti bibliografici dell’intero saggio, dato il loro interesse generale.