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Infine, forse è meno noto, ma altrettanto significativo, il fenomeno segnalato da diverse inchieste e ricerche per cui le guerre e le violenze armate producono un aumento delle violenze e degli stupri anche nelle proprie truppe o persino nelle case delle famiglie dei soldati una volta che questi sono tornati dal fronte.

Ad essere violentate e seviziate dunque, non sono solamente le donne del cosiddetto “nemico”, ma anche le donne del proprio Paese, della propria comunità, della propria famiglia. Queste violenze sulle donne dunque attraversano i fronti, bucano le opposizioni tradizionali, mettono in discussione i fronti e le suddivisioni tra pace e guerra e lasciano il dubbio sul fatto che la violenza militare e bellica rappresenti una sorta di lasciapassare per sfruttare e infierire senza troppe remore sul corpo delle donne chiunque esse siano. Ed è significativo il fatto che un’infima percentuale di tutte queste forme di violenza contro le donne sia stata perseguita e condannata. L’impunità è un tratto comune di queste violenze sulle donne e contribuisce a rafforzare queste pratiche.

La guerra potrebbe essere letta dunque, come una forma estrema o “paradigmatica” di uno schema di rapporti gerarchico e di sottomissione tra uomini e donne. In questa cornice, il corpo femminile è visto come una preda, o un trofeo sul quale esercitare – attraverso un corpo maschile che si è fatto duro e insensibile come un’arma – il proprio potere e dominio ribadendo contemporaneamente un atto di sfida e di sottomissione tra popoli e tra generi.

Due grandi sottovalutazioni

Le élites politiche tentano di presentare il ricorso alla violenza come un semplice mezzo da impiegare e orientare ai fini della pace o della giustizia. Ma in questa rappresentazione comune sfuggono due elementi centrali che continuano ad essere sottovalutati con gravi conseguenze.

Il primo è che la guerra non è un semplice strumento che si impiega o non si impiega. L’impresa bellica rappresenta un potentissimo ordinatore sociale al proprio interno, oltre che sui campi di battaglia in termini politici, economici, sociali, educativi. In termini economici è sempre stata legata ad un rafforzamento dei poteri centrali e ad una giustificazione dell’indebolimento della libertà di espressione e di azione (e i vari Putin, Netanyahu  chiaramente usano la guerra come strumento di governo), in termini economici ha sempre rappresentato non solo un’enorme estrazione di risorse economiche e finanziarie, ma anche un orientamento complessivo del sistema produttivo ed economico a scapito di altre tecnologie e di investimenti pubblici e privati. Solo per fare un esempio, non è un caso che l’attuale progetto di riarmo europeo ha completamente messo in secondo piano tutta l’enfasi sul Green Deal Europeo. Del resto, le forze armate sono uno dei più importanti soggetti responsabili di emissioni di CO2 e l’aumento della potenza militare oltre che l’uso delle armi non possono che produrre un effetto regressivo sugli obiettivi climatici, un peggioramento della biodiversità e inquinamento degli ecosistemi. In termini sociali l’investimento militare produrrà inevitabilmente tagli o contenimenti verso servizi, sussidi, protezioni ecc. Più in generale il rilancio della leva obbligatoria nel dibattito europeo rappresenta a mio modo di vedere un’ombra minacciosa sulla possibilità di promuovere un modello di educazione verso una maschilità differente. In termini storici l’addestramento alla violenza e ad un certo tipo di maschilità aggressiva, così come la consuetudine all’uso delle armi, la ricerca dello scontro e del confronto fisico, come forma di affermazione di sé, sono aspetti diffusi nelle società ed in particolare tra i giovani maschi di cui si trovano tracce nel fascino verso gli sport di combattimento, nelle gang giovanili, nelle tifoserie violente, nei movimenti politici estremisti e xenofobi, nelle mafie e nella criminalità organizzata, e non da ultimo nella diffusione dei crimini violenti, compresi i femminicidi, nelle generazioni più giovani. Dobbiamo chiederci per quanto tempo i giovani maschi continueranno ad essere educati a comprimere la propria tenerezza ed empatia, a delegare e svalorizzare le proprie capacità di cura, per concentrarsi ed addestrarsi ad un modello di maschilità dura, aggressiva, abituata ad usare le armi e a potenziare le proprie abilità di combattimento.

Il secondo errore è continuare a pensare la violenza bellica come uno strumento controllabile che può essere pianificato ed utilizzato per esercitare il diritto alla difesa o per una guerra “giusta”, anziché considerare la violenza come un dispositivo sociale e internazionale che si sviluppa attraverso dinamiche in larga parte impreviste e incontrollabili dagli stessi attori.

La guerra si fonda su un meccanismo mimetico e di auto-accrescimento, tale per cui una volta scatenata la violenza, nessuno più dei soggetti che l’ha messa in atto risulta più capace di controllarla e amministrarla per davvero.

Come ha notato lo storico Gabriel Kolko facendo un bilancio delle guerre moderne «chi inizia la guerra immancabilmente perde il controllo dei suoi aspetti decisivi» (Kolko, 2005, p. 653).

In altre parole, le guerre sono eventi complessi e incontrollabili, in termini militari, sociali, politici, economici che molto spesso tradiscono le aspettative anche di chi le scatena o producono risultati largamente imprevisti rispetto agli obbiettivi militari di breve periodo. Negli ultimi decenni abbiamo visto una lunga serie di interventi militari in Iraq, Libia, Siria, Afghanistan, Ucraina, Palestina, ecc., condotti in nome della libertà, della democrazia, della giustizia, della lotta al terrorismo o del diritto alla difesa. Ma nessuna di queste avventure militari ha realmente realizzato quello stato di pace e stabilità che avevano promesso. Queste guerre hanno al contrario devastato ambienti e generazioni di persone, hanno aumentato e rilanciato organizzazioni criminali e il terrorismo internazionale e hanno posto le basi per nuove generazioni di combattenti e nuovi cicli di odio e di violenza.

Al di là della retorica e della propaganda, la guerra appare ancora oggi come un’impresa maschile finalizzata ad affermare la propria identità, la propria potenza, perfino il proprio potere personale, in competizione con altri uomini e Nazioni, e a scapito delle donne e dei bambini e dei civili più in generale.

Bibliografia

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Oksanen S. (2024), Contro le donne. Lo stupro come arma di guerra, Torino, Einaudi.

Schmitt C. (1972), Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino.


[1] Un confronto sistematico si trova nel #SHEcurity report https://shecurity.info/ che però presenta dati relativi al 2020-21. Le percentuali in alcuni Paesi sono lievemente cresciute, ma i dati qui presentati rimangono comunque piuttosto indicativi.

[2] De Michele S. (2024), Guerra in Ucraina, la vita al fronte delle donne cecchino, “Euronews”, 08 marzo 2024 https://it.euronews.com/2024/03/08/guerra-in-ucraina-la-vita-al-fronte-delle-donne-cecchino 

[3] Sul tema degli stupri di guerra si vedano Guenivet (2002), Lilly (2004), Flores (2016), Oksanen (2024).