- La grande frammentazione
L’economia mondiale è entrata in un periodo di grande frammentazione. Durante la crisi dell’eurozona e del Covid, dominava il tema della frammentazione interna all’Unione europea (Ue). Dopo l’elezione di Trump, preoccupa la frammentazione esterna e le sue ramificazioni all’interno della Ue.
Per illustrare la frammentazione dell’economia globale, si può guardare alla doppia dimensione della libertà degli scambi commerciali e della mobilità dei flussi di capitale. Dal dopoguerra ad oggi abbiamo quattro grandi fasi.
Un primo lungo periodo, dal 1945 agli anni Novanta, è caratterizzato dalla cooperazione all’interno delle istituzioni di Bretton Woods con progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali insieme a restrizioni sui movimenti di capitale. Ovviamente all’interno di questo periodo ci sono sottoperiodi anche importanti. Ad esempio l’abbandono dei tassi di cambio fissi, l’abbandono del gold standard all’inizio degli anni Settanta, ma la cooperazione fra i grandi attori ha avuto luogo nell’ambito di un sistema multilaterale condiviso.
Il secondo periodo va dagli anni Novanta fino alla metà del decennio 2010. È stato quello della iper globalizzazione. Abbiamo sia free trade che perfetta mobilità dei capitali. È il periodo del cosiddetto “Washington consensus” in cui si considera che la piena libertà di circolazione di beni e capitali è il modo per aumentare il benessere globale. È stato il periodo di dominio dei mercati.
Poi si passa all’ultimo decennio, con le presidenze Trump-uno e Biden. Si mantiene una perfetta mobilità dei capitali, ma c’è una erosione graduale del commercio libero. Tornano ad essere attori dello scenario i Governi. Questo periodo dura fino ad oggi. O fino a ieri?
Questa combinazione di perfetta mobilità dei capitali senza free trade ha bisogno di maggiori riflessioni per comprendere se rappresenta un equilibrio stabile o no. Se la risposta è no, il rischio è di tornare al pre-Bretton Woods, dove non c’è né perfetta mobilità dei capitali, né piena libertà di scambi commerciali. Questo è il dominio dei grandi attori privati, quelli “oligarchi digital” che al di là dell’Atlantico hanno sostenuto la rielezione di Trump.
Chiaramente, un mondo senza free trade e senza perfetta mobilità dei capitali non può essere identico al periodo pre-Bretton Woods perché oggi abbiamo un’economia mondiale molto più integrata. La deglobalizzazione oggi rappresenterebbe uno scenario più vicino a una “Global Brexit” che il ritorno agli anni Trenta.
- Tre scenari
In questo quadro quali sono gli scenari della governance globale? Ne identifico tre – prendendo anche il rischio di attribuire alla realizzazione di ognuno una probabilità puramente soggettiva.
Il primo è il ritorno delle sfere di influenza, in questo caso non est-ovest come fu fra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma trans-pacifico fra Stati Uniti e Cina. Questo scenario implicherebbe l’Europa vaso di coccio fra questi due grandi attori, quindi una sua sostanziale marginalizzazione. Personalmente attribuisco un 50% di probabilità a questo scenario.
Il secondo scenario invece, è basato sulla consapevolezza che gli Stati Uniti in realtà sono solo il 15% del commercio globale. Dominano su tante filiere, però alla fine l’economia globale può fare a meno di loro. Questo scenario sarebbe il mondo meno gli Stati Uniti, da un lato, e gli Stati Uniti, dall’altro. Questo scenario implicherebbe nuove alleanze commerciali e una revisione dei rapporti fra Ue e Cina. La Cina per noi è un partner, un concorrente e un rivale sistemico. In questo secondo scenario qui ci sarebbe un rimescolamento dell’importanza relativa di questi tre ruoli. Si andrebbe a rivedere le regole del gioco, per esempio, sull’offerta di beni pubblici globali, inclusa la transizione climatica. In questo scenario, la Cina diventa più un partner che un rivale sistemico. Il materializzarsi di questo scenario richiederebbe un’iniziativa dell’Ue che è l’unico attore che può mobilizzare altre aree intono ad un progetto di nuova governance mondiale. L’Ue sta facendo alcuni passi in quella direzione. Gli accordi con Mercosur, col Messico, con la Svizzera, le discussioni che sono adesso molto avanzate con l’India prefigurano una ridefinizione del multilateralismo. Un “multilateralismo dal basso” in cui si ricostruisce la libertà di scambi commerciali accettando il fatto che gli Stati Uniti sono tirati fuori dal gioco. A questo scenario attribuisco un 40% di probabilità.
L’ultimo scenario, che sarebbe ideale, ma che considero improbabile, è che, dopo i disastri degli esperimenti dei dazi statunitensi, ci si renda conto che quella è una via che non funziona, e che quindi si torni indietro recuperando lo spirito del multilateralismo classico. Ma questo è purtroppo uno scenario residuale al quale attribuisco una probabilità del 10%.
- Tre scelte binarie per l’Europa
In questo quadro generale di frammentazione, di ridefinizione della governance globale, l’UE si troverà di fronte a tre scelte binarie. La prima sulla sovranità; la seconda sulla trasformazione industriale; la terza sulla resilienza macroeconomica.
Sulla sovranità i Governi europei dovranno decidere se puntare sul primato dello Stato nazionale o accettare di condividere la sovranità attraverso l’integrazione politica Ue.
Sulla trasformazione industriale a fronte dello shock tecnologico attuale, si tratta di mettere in campo una politica industriale centralizzata che preservi il Mercato Unico europeo attraverso la creazione di una capacità fiscale centrale o avere politiche industriali nazionali finanziate attraverso aiuti di Stato nazionali.
Infine, sulla resilienza macroeconomica, la scelta è fra mantenere un modello di crescita orientato all’export – con i rischi che questo comporta in questo mondo dove il commercio e la finanza sono “weaponizzati” – o potenziare la crescita domestica europea.
Da come l’Ue si posizionerà su queste tre scelte binarie, si deciderà il suo ruolo nella nuova geoeconomia. Quindi come si risolvono questi dilemmi? Ci sono due soluzioni d’angolo. Se prendiamo il rapporto Draghi del settembre 2024 come punto di riferimento, la combinazione preferita sarebbe l’integrazione politica europea, una capacità fiscale centrale e una crescita che conta di più sulla domanda interna dell’Ue.
La posizione classica della Germania è la soluzione di questi dilemmi dal lato opposto a quello di Draghi, cioè confermando il primato dello Stato nazionale, una politica industriale che, visto l’ampio spazio fiscale, si basa sugli aiuti di Stato, e una crescita che continua ad essere tirata dall’export extra-Ue. L’immagine è quella dell’ex cancelliere Scholz che va a Pechino con gli imprenditori tedeschi a cercare di avere delle commesse cinesi.
Queste due soluzioni d’angolo hanno effetti opposti, ma hanno una loro coerenza interna. Poi ci sono due soluzioni miste. La prima è rappresentata dalla posizione della Francia di Macron fino al 2022: integrazione politica, una maggiore crescita interna, ma non sostanziale disinteresse alla creazione di una capacità fiscale a livello europeo. Fino ad allora, la Francia – sotto l’ombrello protettivo della Germania – poteva emettere debito nazionale a tassi molto molto favorevoli e quindi era favorevole alla via degli aiuti di Stato più che a una capacità fiscale centrale. La situazione è cambiata negli ultimi due anni, viste le tensioni sul debito e deficit francesi. C’è poi l’Italia di Meloni che sosterrebbe la creazione di una capacità fiscale centrale e forse preferirebbe una crescita più domestica europea. Ma nel dilemma della sovranità, conta chiaramente sul primato dello Stato nazionale.
Resta un punto interrogativo: come si posizionerà la Germania di Merz sulle tre scelte che ho identificato? È pronta o no a seguire Draghi? Chiaramente, il nuovo Governo tedesco ha attraversato delle importanti linee rosse a livello domestico, sulle spese per la difesa, con la creazione di un fondo per le infrastrutture e con l’abbandono del freno al debito. Quindi è rimasto sufficiente capitale politico per scelte europee altrettanto difficili? Sarà cruciale mostrare che risolvere le tre scelte binarie “alla Draghi” è un modo per favorire la necessaria riforma del modello di business dell’economia tedesca.
- Un business model insostenibile
Se si vuole abbracciare l’opzione Draghi, come penso si dovrebbe fare, bisogna ripensare il modello di crescita dell’Europa. Vi presento tre indicatori a sostegno di questa tesi che sintetizzo in “3 volte 2”: primo, un’eccessiva dipendenza dalla domanda estera: 2% del Pil surplus persistente delle partite correnti; secondo, l’allontanamento dalla frontiera tecnologica: Ue forte in solo 2 delle 10 tecnologie dell’avvenire; e, terzo, l’aumento di più di 2 anni dell’età mediana negli ultimi 10 anni. Questo è un modello di crescita non sostenibile nel medio termine.
Primo, abbiamo una eccessiva dipendenza dalla domanda estera con oltre un 2% di surplus delle partite correnti dell’Ue e ancora di più della zona euro. Questo non è un indizio di grande competitività, ma significa che abbiamo investimenti inferiori al risparmio che produciamo. Questo squilibrio, dal punto di vista strettamente contabile, ha come controparte un attivo della bilancia delle partite correnti. Ma sappiamo che in un mondo in cui di guerre commerciali e valutarie, continuare a contare su una crescita tirata dall’esterno è particolarmente pericoloso.
Secondo, c’è un progressivo allontanamento della UE dalla frontiera tecnologica. Per il mio secondo “due” faccio riferimento a un rapporto di McKinsey dello scorso anno sulle tre dimensioni – innovazione, produzione e diffusione – delle dieci tecnologie dell’avvenire. Sono le tecnologie che plasmeranno la nostra società, non solo la nostra economia. L’Ue è forte solo in due di queste dieci tecnologie: i nuovi materiali e il clean-tech, la produzione pulita. Sulle altre, a partire dall’intelligenza artificiale, siamo in ritardo rispetto agli Stati Uniti e alla Cina.
Terzo, l’aumento della quota della popolazione anziana. Guardando agli ultimi dieci anni, l’età mediana è aumentata anche un po’ di più di due anni. Quindi l’inverno demografico è già con noi.
Questo implica che se non si riforma il modello di business e di crescita dell’Europa noi avremo una crescita stagnante che andrà di pari passo con l’erosione della coesione sociale e la marginalizzazione geopolitica.
- Che fare?
I rapporti di Enrico Letta sul Mercato unico e di Mario Draghi sulla competitività tracciano la via per riformare il modello di crescita dell’Europa. Si tratta di creare le condizioni per una crescita più sostenibile, recuperare il gap rispetto alla frontiera tecnologica e affermare il ruolo geopolitico dell’Ue.
Le politiche sono già sul tavolo: l’operazionalizzazione dell’unione dei mercati capitali (adesso definita l’unione degli investimenti e risparmi), il lancio di un asset sicuro europeo, una maggiore offerta di “beni pubblici europei” per l’innovazione e la sicurezza, un mercato unico più semplice. Se si fanno queste cose, si migliora la competitività e si riforma il modello di crescita dell’Unione.
Se si vuole andare nella direzione indicata dal rapporto Draghi, bisogna pensare in termini di un bilancio europeo integrato, quindi un rafforzamento del bilancio europeo centrale che rimane tuttora di 1% del Pil comunitario. Le proposte della Commissione arriveranno a luglio prossimo.
Ma è necessario anche il coordinamento verticale fra la politica fiscale centrale e le politiche fiscali nazionali. Quindi bisogna pensare in termini di un sistema bilancio integrato della Ue. Questo coordinamento ha una doppia dimensione: la realizzazione delle politiche e il loro finanziamento. Per entrambe, dobbiamo definire il livello adeguato: nazionale o comunitario. Ci sono quindi quattro combinazioni potenziali.
Una prima combinazione è la realizzazione e il finanziamento delle priorità comuni a livello nazionale: è il caso dell’applicazione delle regole del patto di stabilità in modo da convogliare le risorse nazionali sulle priorità della Ue, come la doppia transizione verde e digitale.
Una seconda combinazione è la realizzazione di progetti a livello nazionale attraverso il finanziamento a livello comunitario: è sostanzialmente il modello di Next Generation Ee e dei piani di ripresa e di resilienza, con un accento tuttavia maggiore sui progetti transnazionali: ci saranno questi aspetti nella proposta della Commissione del prossimo luglio. Una terza combinazione è l’assegnazione al bilancio europeo di risorse nazionali per la realizzazione di progetti specifici. Questa aggregazione della domanda con appalti comuni permette di beneficiare di guadagni di economie di scala e di scopo. Fu il caso dell’acquisto in comune dei vaccini nel 2020 e, oggi, di appalti comuni nel campo della difesa. Infine, l’ultima combinazione è l’offerta a livello comunitario di beni pubblici europei finanziati attraverso nuove risorse proprie o con debito comune.
- Da dove partire
Durante gli ultimi anni della sua vita Jean Monnet, uno dei padri dell’Europa, quando, già molto anziano, riceveva a casa sua funzionari europei che andavano a presentargli grandi progetti, la sua domanda era sempre: «Sì, ma dove si parte? Qual è il primo passo?».
Se vogliamo andare nella direzione che vi ho indicato, il primo passo è probabilmente quello della difesa. Per adesso, la Ue ha cercato di incentivare maggiori spese nella difesa attraverso l’applicazione della clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità e crescita e attraverso la concessione di prestiti comunitari per progetti comuni nel campo della difesa – il programma Safe di 150 miliardi di euro. Entrambi gli strumenti tuttavia creano debito nazionale, quindi numerosi Paesi – inclusi Italia, Francia e Spagna – sono reticenti a utilizzarli. Per rendere credibile la realizzazione della difesa comune dovranno essere messi in campo strumenti più avanzati, finanziati attraverso debito europeo.
Se la difesa comune si impone come una priorità, sarebbe però un errore “mettere tutte le uova” in quel paniere. Gli investimenti per la competitività intesa in senso lato di “tripla transizione” – verde, digitale e sociale – sono importanti per raggiungere un equilibrio politico.
- La volontà politica per attraversare le “linee rosse”
La nuova amministrazione statunitense cerca di spingerci ad accettare una logica di giochi a somma zero. La Ue deve rigettare tale opzione. Per farlo deve raddoppiare gli sforzi per ricostruire il multilateralismo dal basso e impegnarsi seriamente nella riforma del modello economico e di sicurezza europeo.
La Ue ha iniziato ad attuare l’agenda Draghi-Letta, ma ha evitato di affrontare le questioni più difficili, incluse quelle che riguardano il finanziamento comune dei beni pubblici europei. Tuttavia, le esitazioni su questioni quali la creazione di una difesa comune, il rafforzamento del bilancio della Ue, l’operatività dell’Unione dei risparmi e degli investimenti, il lancio di un asset sicuro, il completamento dell’Unione bancaria, non solo indeboliscono la Ue a livello interno, ma finiscono per influenzare anche la sua posizione nel mondo. Data la diversità di preferenze nazionali, bisogna accettare che cercare di procedere con tutti i 27 Paesi membri non solo rallenterebbe il processo, ma creerebbe anche il rischio di “entrismo” di Governi che intendono boicottare il progetto dall’interno.In conclusione, una risposta efficace e urgente alla sfida di Trump richiede di riconciliare l’agenda esterna e interna della Ue. Le cose da fare richiedono di varcare le “linee rosse” accettando di condividere aspetti importanti di sovranità e di rivedere il modus operandi della Ue. Non farlo metterebbe a repentaglio la sua stessa sopravvivenza.