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Premessa: un contesto di difficile lettura

È importante in primo luogo sottolineare la difficoltà di descrivere uno scenario molto complesso che richiede competenze in vari “ambiti”, tra l’altro intrecciati tra loro e quindi non analizzabili in modo indipendente.

Innanzitutto l’ambito “economico” sempre in rapida evoluzione, che è sempre più influenzato dal contesto “geopolitico”.

La novità principale nello scenario economico internazionale di questa prima parte del 2025 è infatti il radicale cambiamento avvenuto nella politica economica USA riguardante la scelta di introdurre (o quanto meno minacciare) pesanti dazi negli scambi commerciali con gli altri Paesi. E, almeno inizialmente, senza alcuna distinzione di area geopolitica di appartenenza.

Del resto anche i conflitti internazionali già preesistenti all’insediamento alla Casa Bianca di Trump sembravano condurci ad una fase di “de-globalizzazione” (dopo la notevole spinta alla globalizzazione post-caduta muro di Berlino).  In realtà molti osservatori parlano di “ri-globalizzazione” ossia di una regionalizzazione per blocchi (sia politici che economici) degli scambi commerciali internazionali.

Comunque sia “la globalizzazione è finita”, per riprendere il titolo di uno dei testi più importanti “usciti” sul tema negli ultimi anni[1] .

O meglio è giunta al capolinea l’era della globalizzazione senza limiti che l’editorialista del Financial Times chiama “globalizzazione liberista”.  Il globalismo senza regole determinava uno squilibrio crescente nei rapporti commerciali tra Paesi che importavano troppo e Paesi che corrispondentemente esportavano troppo. Da ciò derivava un conseguente accumulo di sbilanciamenti finanziari, ossia l’immenso accumulo di crediti e debiti. Particolarmente preoccupante è la posizione debitoria degli Stati Uniti. È infatti dalla crisi finanziaria 2007-2008 a cui è seguita la Grande Recessione 2008-2009 che i Governi americani hanno capito che le eccessive importazioni mettevano il debito USA su un trend alla lunga insostenibile.

A livello internazionale, se nel 2010 si registravano a livello mondiale 56 provvedimenti discriminatori dei commerci, nel 2023 il loro numero era salito a 376 (un incremento di 6 volte).

In definitiva l’era protezionista era già in atto. Trump non sta facendo altro che portare la restrizione degli scambi alle sue estreme conseguenze: la guerra commerciale.

Ma, come sarà esplicitato nelle conclusioni, Trump è nello stesso tempo l’esito del fallimento della globalizzazione liberista e il suo modo di sopravvivere.

Sullo sfondo di questa evoluzione macroeconomica permangono i temi fondamentali e ineludibili (con tutte le loro contraddizioni) della “sostenibilità ambientale” e dell’“innovazione tecnologica” a caratterizzare la trasformazione degli attuali sistemi economici.

Il tema del cambiamento climatico da un lato entra purtroppo a pieno titolo in ambito economico con i suoi danni diretti provocati dalle catastrofi naturali (inondazioni, calo della produzione agricola, …) e dall’altro con gli inevitabili costi da sostenere (non solo economici ma anche sociali) per favorire la transizione “green” degli odierni sistemi economici.

Da quest’ultima considerazione diventa fondamentale il ruolo dello Stato sia in termini di investimenti che di sostegno economico, anche con provvedimenti fiscali mirati.

L’innovazione tecnologica ha da sempre caratterizzato l’evoluzione dei sistemi capitalistici, anzi ne è parte costitutiva. La specificità odierna riguarda la velocità, in continua accelerazione, e la penetrazione anche in ambito sociale (e dunque politico) fino alla vita privata dei recenti cambiamenti tecnologici. È ciò che fin dagli anni ’80 -’90 abbiamo definito post-fordismo.

La valutazione dell’impatto che ha l’innovazione tecnologica sulla produttività e quindi sulla crescita di un sistema economico è un dibattito che viene da molto lontano.  Nel 1987, mentre si stava affermando la cosiddetta rivoluzione informatica, il premio Nobel per l’economia Robert Solow enunciò un paradosso che divenne famoso: “Si possono vedere computer dappertutto, tranne che nelle statistiche sulla produttività.”[2]

Attualmente il dibattito riguarda gli incrementi di produttività dovuti all’intelligenza artificiale con previsioni, solo per citare alcuni esempi, molto positive di istituti come Goldman Sachs e Mc Kinsey o assai meno ottimistiche come quelle del premio Nobel Acemoglu.[3]

La tesi fondamentale del testo citato è che il progresso tecnologico può condurre ad un reale benessere sociale solo a condizione che vengano soddisfatte due condizioni.

In primo luogo le innovazioni devono incrementare la produttività del lavoro e creare mansioni complementari alle nuove tecnologie.

La seconda condizione è di tipo politico sociale ossia che esistano istituzioni, leggi e norme sociali che permettano ai lavoratori di appropriarsi di una parte non insignificante del valore aggiunto generato dalle nuove tecnologie. Acemoglu e Johnson ci invitano ad immaginare il progresso tecnologico come ad un fiume. Non ha alcun senso tentare di bloccarlo per mezzo di dighe: è necessario piuttosto indirizzarlo in rotte che favoriscano la collettività e soprattutto evitino di danneggiare i lavoratori.

Le innovazioni tecnologiche creano naturalmente un potere monopolistico difficilmente arginabile dalla sola “mano invisibile” del mercato. Non bisogna dunque avere una fiducia cieca nel progresso tecnico ma è necessario un ruolo dominante delle organizzazioni politiche e sociali per indirizzarne lo sviluppo.

A livello macro, è necessario un riequilibrio della tassazione tra capitale e lavoro, attualmente decisamente favorevole al primo, e una maggiore regolamentazione, in particolare sulla proprietà dei dati.

A livello micro è indispensabile dare un qualche potere di intervento dei lavoratori all’interno delle imprese.

Ma il tema che stiamo trattando non riguarda solo l’economia. Stiamo purtroppo osservando l’impatto delle tecnologie digitali sulla solidità delle democrazie. L’uso dei social media per diffondere fake news ai fini elettorali ne è l’esempio allo stesso tempo più banale ed evidente.

È durata poco l’illusione che le tecnologie digitali potessero migliorare il coordinamento dei cittadini nel contestare i regimi illiberali (Primavera Araba). Si è dovuto ben presto prendere atto che tali tecnologie possono essere meglio utilizzate da quei regimi per identificare i contestatori e contrastare in modo più efficace ossia anticipando la repressione alle possibili rivolte popolari (Cina).

Come detto, l’iniziale impatto delle tecnologie digitali nei sistemi economici era stato denominato, vista l’incertezza della sua futura evoluzione, post-fordismo.

Si indicava con questo termine il declino dell’industria manifatturiera, della grande fabbrica fordista e dei relativi rapporti sociali, lo sviluppo della finanziarizzazione e di nuovi ambiti di valorizzazione economica fondati sul sapere e su interazioni sociali, fino allora rimaste estranee alla logica di mercato. In definitiva un rapido ed esteso sviluppo di un’economia “immateriale”.

I social media e il capitalismo delle piattaforme sono stati tra i principali risultati di questa evoluzione che oggi chiamiamo “capitalismo digitale”. L’enorme quantità di dati, conoscenze e fake news che circolano nel web e le capacità matematiche sempre più potenti di selezionarli, elaborarli e metterli a profitto costituiscono una ricchezza e uno strumento di controlli che non hanno eguali nella storia. In questo contesto i social media occupano un posto decisivo perché rappresentano il più diretto punto di congiunzione tra economia e politica. L’economia immateriale conferisce infatti a gran parte delle sue merci una dimensione politica e la politica stessa è divenuta la sua merce più importante.

Il duo Trump-Musk ne è l’esemplificazione più evidente.

Nel 2009 Peter Thiel proprietario, insieme a Musk, di una gigantesca piattaforma come Pay Pal, arriva alla conclusione che la “democrazia non è più compatibile con la libertà”.[4] 

Oggi Thiel e Musk, in rapporto simbiotico con Trump, sono in grado di utilizzare una forza politica per rendere operante questa distopia.

Del resto il neoliberismo, contrariamente a quanto normalmente si crede, non è assenza dello Stato ma è piuttosto il mercato che si fa Stato cioè che è in grado di esercitare un’egemonia culturale sulle scelte politiche che regolano i sistemi economici e sociali.

Il neoliberismo ha sempre contato sulla forza politica dello Stato come essenziale struttura protettiva in grado di mettere al riparo il mercato dalle distorsioni provenienti da un altro tipo di richieste di protezione: quelle dei sostenitori della giustizia sociale.

In conclusione, come ben evidenziato da Prodi, “ci troviamo di fronte a una crescente alleanza fra potere politico, potere economico e potere dei nuovi media, un’alleanza che tende persino a oltrepassare i confini nazionali. (…) La globalizzazione economica, messa sotto processo, viene progressivamente sostituita dalla globalizzazione politica, sostenuta da un autoritarismo tecnologico che nasconde l’aspetto autoritario sotto l’ala di un affascinante progresso rivolto a trasformare il futuro. Tutto questo non avviene per caso, ma è il naturale effetto del vuoto di partecipazione che sta progressivamente indebolendo tutti i sistemi democratici che possono essere rinvigoriti solo se si ritorna all’antico concetto che democrazia è partecipazione”.[5] 

A rischio è il modello democratico (che fino a ieri sembrava una caratteristica essenziale del mondo occidentale) e con esso l’economia sociale di mercato che è stata contemporaneamente sostegno e obiettivo di tale organizzazione politica.

Lo scenario macroeconomico internazionale

Lo scenario economico post-covid, a cui è seguito immediatamente il conflitto ucraino, ha evitato il pericolo “stag-flazione” (recessione + inflazione) ma non si è caratterizzato per il cosiddetto “soft landing” (atterraggio morbido) ossia il rientro dalle politiche economiche espansive a sostegno dei sistemi economici colpiti dalla pandemia senza rallentamento della crescita e inflazione.

L’economia mondiale 2024 ha fatto registrare una moderata crescita ed un difficoltoso rientro dall’inflazione.  Uno scenario detto di “slow-flation” che avrebbe dovuto ripetersi nella sostanza nel 2025. Ma queste previsioni sono state “sconvolte” dall’annuncio della “guerra dei dazi” scatenata da Trump.

Secondo le ultime previsioni del FMI (World Economic Outlook – aprile 2025) la crescita globale si fermerà al 2,8% nel 2025 e al 3% del 2026, con una significativa frenata dal 3,3% del 2024 e con una netta revisione al ribasso rispetto alle stime di gennaio, che puntavano ancora sul 3,3%.

Si tratta di una correzione di una crescita già mediocre che ora scende ancora di più sotto la media storica (2000-2019) del 3,7%. Nel passato recente, eccetto gli episodi di recessione, due volte la crescita mondiale si è fermata sotto il 3%: nel 2008 e nel 2019. Nell’aggiornamento delle sue previsioni, il FMI sottolinea la difficoltà nell’elaborare scenari coerenti, data la volatilità delle esternazioni sui dazi USA, minacciati, annunciati, sospesi e a volte rincarati. Un fattore di incertezza che amplifica lo shock negativo.

Detto ciò, le previsioni più in dettaglio, ci dicono che la Cina perderebbe 0,6 punti di PIL, con la crescita 2025 ferma al 4%, dal 5% del 2024, quando l’economia era stata trainata in gran parte dalla domanda estera.

Più contenuta la correzione per l’Eurozona: la crescita prevista per il 2025 perde lo 0,2% e si attesta allo 0,8%. Nel 2026 dovrebbe esserci un moderato recupero all’ 1,2% guidato dall’aumento dei salari reali e dalla spinta della spesa pubblica tedesca, dopo le modifiche al vincolo sul debito varate a marzo.

L’Italia vede ridimensionate le già basse aspettative di ripresa per il 2025 (0,4%, con correzione al ribasso dello 0,3%) e la crescita resta sotto l’1% anche nel 2026 (0,8%).

La Germania continuerà a viaggiare sul filo della recessione.

Fa storia a sé, come ormai consuetudine, la Spagna: la crescita 2025 rallenta rispetto al 3,2% nel 2024 ma si attesta su un robusto 2,5%, che è anche migliore delle previsioni di gennaio (+0,2%). Un caso raro in questo outlook.

Tra i Paesi che più sono colpiti da questo nuovo scenario sono proprio gli Stati Uniti. Rispetto al robusto 2,4% del 2024, l’aumento del PIL si fermerebbe all’ 1,8% quest’anno, quasi un punto in meno rispetto alle previsioni di gennaio. Le tariffe dovrebbero pesare anche sul 2026, con crescita ferma all’ 1,7%. Sulla base delle politiche attuali, il debito pubblico USA continua a salire e passa dal 121% del PIL nel 2024 al 130% nel 2030. Il FMI non vede una recessione anche se il rischio è salito al 40% dal 25% stimato a gennaio.

Non tutti però concordano sugli scenari delineati dal FMI, in particolare per quanto riguarda gli Stati Uniti. Secondo Roubini, economista americano noto per aver previsto la crisi finanziaria sub-prime, la crescita statunitense nei prossimi anni sarà sostenuta, con o senza dazi elevati, in quanto trainata dai beni di investimento del settore tecnologico, in particolare nel settore dell’intelligenza artificiale.

Da queste previsioni Roubini trae alcune considerazioni politiche per noi inaspettate. La crescita da lui prevista finirà per indebolire le forze populiste negli Stati Uniti. “Nel frattempo, l’Europa continuerà ad affrontare venti contrari dovuti all’invecchiamento demografico, alla dipendenza energetica, all’eccessiva esposizione ai mercati cinesi, alla debole innovazione interna e a una crescita stagnante intorno all’ 1%. (…) Con gli Stati Uniti che sembrano avviarsi verso l’illiberalismo, l’Europa potrebbe attualmente apparire come l’ultimo baluardo della democrazia liberale nel mondo; ma questa narrazione potrebbe capovolgersi nel medio termine. Tale inversione diventa ancora più probabile se gli europei continueranno ad ignorare le raccomandazioni degli ex primi ministri italiani Enrico Letta e Mario Draghi”. [6] 

In attesa di verificare entrambe le previsioni è opportuno analizzare in profondità la questione dazi, allargando gli orizzonti di analisi spesso concentrati al solo aspetto commerciale.

La guerra dei dazi

Le tesi sostenute da Roubini poggiano sull’idea che Trump dovrà, come in parte sta già avvenendo, rinunciare alle sue posizioni più aggressive rispetto alle sue “tariffe reciproche” contro la maggior parte dei partner commerciali degli Stati Uniti.

Dopo l’annuncio del “liberation day” del 2 aprile (Trump annuncia un dazio del 10% su tutte le importazioni e ne impone di più elevati su 57 Paesi con cui gli USA hanno deficit commerciali), già il 9 aprile abbiamo la sospensione delle tariffe maggiorate (Trump sospende per 90 giorni i dazi superiori al 10% per tutti i Paesi eccetto la Cina).

Nessuno può ovviamente prevedere quali saranno gli sviluppi di questa guerra commerciale. Dovremo sicuramente aspettarci nuove fasi di questo scontro-trattativa.

Ma secondo Roubini (e questa è l’opinione di molti altri osservatori) in questa partita è stato e sarà importante il ruolo giocato dai mercati finanziari, in particolare obbligazionari e valutari. Dopo i crolli di Borsa seguiti all’annuncio del 2 aprile nell’Amministrazione Trump è prevalsa l’idea di coloro che proponevano una strategia tariffaria più moderata del tipo “escalare per poi disinnescare” come il Segretario del Tesoro Scott Bessent. In breve, sono intervenuti quello che lo stratega politico James Carville ha definito i “bond vigilantes”.

Queste prime osservazioni dimostrano come la partita dei dazi vada ben oltre gli aspetti strettamente commerciali. Si tratta di capire la strategia e/o la teoria economica sulla base della quale ha agito l’Amministrazione Trump e valutarne le possibili conseguenze. Come detto “andare oltre i dazi”.

Il teorico della strategia trumpiana è Stephen Miran, attualmente presidente del Consiglio dei Consulenti Economici della Casa Bianca, autore di un paper[7] in cui propone una decisa ristrutturazione del sistema commerciale e finanziario globale. Miran suggerisce che si potrebbe negoziare un accordo globale, definito “Mar-a-Lago Accord”, dal nome della residenza di Trump in Florida che si ispira a precedenti accordi monetari internazionali come il Plaza Accord del 1985.

Quell’Accordo, che prende il nome dal Plaza Hotel di New York dove si ritrovarono i ministri economici e banchieri centrali del G5 (USA, Germania Ovest, Giappone, Regno Unito e Francia) nasceva dall’esigenza di svalutare il dollaro la cui sopravvalutazione danneggiava l’economia statunitense. In quella sede si decise una politica di svalutazione controllata della valuta americana. Nel giro di due anni si registrò una notevole diminuzione del cambio del dollaro che rese nuovamente competitive le merci americane. Si noti come la composizione del G5 segnali quanto il mondo sia cambiato negli ultimi 40 anni.

Assai diverso è il modo di procedere dell’attuale Amministrazione USA.

Il punto centrale dell’ipotetico “Mar-a-Lago Accord” è infatti il seguente: il ruolo di moneta di riserva svolto dal dollaro USA ne ha provocato una persistente sopravvalutazione. Ne sono conseguiti continui deficit commerciali e una cospicua riduzione di occupazione nel manifatturiero per gli USA.

È quindi necessario eliminare le distorsioni nel sistema commerciale e finanziario internazionale per evitare che il benessere e la stessa sicurezza dei cittadini americani siano posti in discussione.

Miran vede proprio nelle tariffe uno strumento di pressione negoziale in grado di spingere gli altri Paesi a sottoscrivere un nuovo patto con gli USA.

Tale patto prevede dunque un indebolimento del dollaro.

Occorre poi ristrutturare il debito, costringendo i Paesi che detengono titoli del Tesoro USA a scambiarli con obbligazioni a lunghissimo termine (Bond a 100 anni con bassi interessi) riducendo così i costi di finanziamento degli Stati Uniti.

Politicamente l’accettazione di tale accordo sarebbe il prezzo per essere considerati “amici” altrimenti si rischierebbe l’ostilità di Washington. Secondo Miran, bisognerebbe usare strumenti come tariffe doganali più alte o la minaccia di ritirare garanzie di sicurezza (come la protezione militare) per spingere gli alleati a collaborare.

La “proposta” di Miran non è però esente da diversi punti di debolezza.

Innanzitutto è difficile sostenere che l’emissione della valuta di riserva internazionale comporti costi elevati per il suo emittente considerando che ciò implica il vantaggio non indifferente di indebitarsi, nonostante i deficit elevati, a bassi tassi di interesse.

In secondo luogo è discutibile il legame che unisce la sopravvalutazione del dollaro al deficit commerciale e alla perdita di occupazione nel manifatturiero USA dato che l’andamento registrato negli ultimi 50 anni dell’indicatore di cambio reale effettivo del dollaro non mostra una chiara tendenza alla sua sopravvalutazione.

Ma “l’anello davvero debole della proposta è costituito dalla “nuova condizione” che si vorrebbe attribuire al dollaro e dal modo in cui questa verrebbe realizzata. Da un lato si vorrebbe un dollaro debole, per favorire la reindustrializzazione e l’eliminazione degli squilibri commerciali. (Pur sapendo che questo deprezzamento potrebbe comportare maggiori tassi di interesse sui dollari con problemi di finanziamento per il Tesoro USA).   Dall’altro lo si vorrebbe mantenere al centro del sistema finanziario internazionale, garantendogli de facto lo status di valuta di riserva (spingendo gli altri Paesi a sottoscrivere Treasuries di durata secolare a condizioni favorevoli per il Tesoro USA). Due condizioni difficilmente realizzabili, soprattutto perché incompatibili con gli incentivi-interessi di tutti gli altri Paesi (nonostante la minaccia di sanzioni quali le tariffe proibitive e l’esclusione dall’ombrello di sicurezza americano)”.[8]

Sulla base di questi riferimenti teorici, l’Amministrazione Trump ha iniziato “la guerra dei dazi” per perseguire la sua strategia di politica economica. In questo caso “l’errore” è considerare che il disavanzo commerciale di un Paese sia dovuto a pratiche scorrette utilizzate dai Paesi in surplus. In realtà l’economia USA è da anni caratterizzata dai “twin deficits” (=i disavanzi gemelli). Le passività riguardano sia il bilancio pubblico (spesa pubblica – tasse) che quello commerciale (import-export). Entrambi indicano un eccesso strutturale di investimenti e consumi rispetto ai risparmi. Ed è qui che si dovrebbe intervenire. È proprio la relazione contabile tra risparmio nazionale e investimento che rende la politica tariffaria trumpiana una “ricetta impossibile”. Nel breve termine, le identità macroeconomiche non si possono eludere: o gli Stati Uniti aumentano strutturalmente il risparmio nazionale, riducendo i consumi o aumentando le tasse, oppure riducono gli investimenti interni, compromettendo però la crescita economica con conseguenze negative su occupazione e redditi. Senza questi cambiamenti non c’è modo di correggere stabilmente, in tempi brevi, il deficit commerciale.[9]

Tuttavia queste soluzioni appaiono impraticabili nel quadro politico delineato dal “Make America Great Again”, che punta su consumi elevati, investimenti domestici e crescita economica sostenuta e prevede un ulteriore riduzione delle tasse soprattutto per ricchi e aziende anche a danno delle già limitate prestazioni del welfare statunitense.

Vi è infine un altro aspetto, di tipo finanziario-valutario molto importante da considerare. L’Amministrazione Trump, scatenando “la guerra dei dazi” ha di fatto messo in discussione il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale. “La tesi (si veda in proposito il paper citato di Milan-ndr)  portata dagli economisti trumpiani a sostegno dell’equità dell’imposizione di dazi sulle importazioni dal resto del mondo, è l’idea che, essendo la domanda globale di dollari e di titoli denominati in dollari incomprimibile, non è possibile il deprezzamento del dollaro nella misura necessaria al riequilibrio della bilancia commerciale americana e al contenimento sia del debito esterno, sia del debito pubblico degli Stati Uniti, i cui titoli sono appetiti come titoli sicuri internazionali. Una domanda di dollari incomprimibile ma necessaria, proprio perché permette di finanziare ed alimentare debiti e deficit USA. Da ciò consegue che, mentre l’incertezza diffusa nell’economia globale nell’attesa di possibili negoziati commerciali inizia a produrre effetti recessivi, è proprio sulla permanenza della volontà americana di difendere dollaro e sostenibilità del proprio debito, cioè il valore dei suoi titoli, che oggi si appunta la preoccupazione dei mercati”.[10] 

Ne è la prova la recente fuga dal dollaro e dalle obbligazioni americane innescata dalla confusione della politica tariffaria statunitense. La fiducia internazionale verso gli Stati Uniti sta rapidamente diminuendo alimentando il fenomeno della de-dollarizzazione. Questo processo, potrebbe segnare la fine del dollaro come valuta egemone e veicolo di assicurazione finanziaria mondiale.

Una transizione epocale, dalle conseguenze imprevedibili.

Anche perché la liberalizzazione dei mercati finanziari, proseguita nonostante le correzioni apportate dopo la crisi finanziaria sub-prime, si inserisce in questo quadro aumentandone la potenziale instabilità. Squilibri commerciali, cambi, innovazione finanziaria sono una miscela che genera oggi incertezza e instabilità sui mercati.

C’è chi si spinge a cercare similitudini con la grande crisi del ’29.[11] Speriamo si sbaglino!

Un nuovo ordine mondiale

Nel precedente paragrafo la “questione dazi” è stata affrontata senza precisare che lo scontro commerciale riguardava principalmente Stati Uniti e Cina. Questo perché a quel punto, l’analisi entra in una dimensione geopolitica che affronteremo ora.

All’indomani della caduta del muro di Berlino (il primo grande sconvolgimento dopo la fine della II Guerra Mondiale) c’è chi prevedeva un mondo piatto, senza barriere dove il macro-conflitto politico (la divisione del pianeta tra Est e Ovest) sarebbe stato sostituito dal macro-conflitto economico (la globalizzazione).

Nel suo celeberrimo testo[12] Fukuyama profetizzò l’imminente “fine della storia” riferendosi al fatto che, dopo il crollo del comunismo sovietico e la conseguente fine della Guerra Fredda, la democrazia liberale ed il capitalismo sarebbero stati destinati a pervadere gradualmente tutte le nazioni del pianeta.

Per altri[13] la caduta di un ordine mondiale prevede una fase di caos o almeno di transizione verso nuovi equilibri geopolitici ancora tutti da costruire. Questi ultimi si identificano oggi nel conflitto Cina-Usa (con le relative aree di influenza) in primo luogo per la supremazia economica e tecnologica. La “guerra dei dazi” è solo l’ultimo segnale di una crisi degli equilibri internazionali sempre più vicini al punto di rottura.

Come detto nell’introduzione, stiamo assistendo alla fine della globalizzazione liberista. Quest’ultima ipotizzava che mercato e libero scambio potessero di per sé produrre benessere e pace mentre in realtà quella ideologia presuppone tacitamente l’esistenza di una potenza egemone alla guida del processo di globalizzazione.

Da un punto di vista storico stiamo assistendo alla crisi, non sappiamo se irreversibile, dell’Occidente. In fondo Trump è l’espressione, giusta o sbagliata che sia, della crisi del mondo occidentale che vede messa in discussione la sua centralità.

Ma “la realtà è che le politiche di Trump e quelle delle destre europee che lo sostengono segnano non una rinascita dell’Occidente, ma, al più, una linea di mero contenimento delle cause del declino della sua potenza. (…) Nessun impero mai si è retto senza concepire la propria realtà come qualcosa che trascende gli interessi nazionali specifici, capace di informare di sé, dei propri valori, tutti i rapporti internazionali”.[14]

Lo scontro USA-Cina non potrebbe che essere in primo luogo uno scontro economico. Il deficit della bilancia commerciale americana nei confronti della Cina ha raggiunto attualmente l’incredibile somma di 283 miliardi di dollari. Le tariffe doganali USA nei confronti della Cina hanno l’obiettivo di rendere gli Stati Uniti potenza dominante anche sotto l’aspetto commerciale al fine di contenere l’espansione politico-economica e militare della Cina. Quest’ultima, che fondava la sua forza economica su un’impressionante capacità produttiva imperniata in primo luogo sulla concorrenza dei prezzi, sta ora puntando sulla sfida al primato americano nell’innovazione. Secondo uno studio del 2024[15] mentre venti anni fa gli USA avevano il primato su 60 delle 64 tecnologie più avanzate e potenzialmente determinanti per il nostro futuro, il rapporto si sarebbe oggi invertito, con la prevalenza cinese in 57 delle 64 nuove tecnologie.

Non tutti concordano su questi dati. Nell’articolo citato in precedenza di Roubini è possibile ricavarne altri che ribadiscono la superiorità tecnologica degli Stati Uniti. Rimane il fatto incontestabile che fra i due giganti è cominciata una sfida globale su chi sarà capace di essere più forte e più rapido nel primato tecnologico.

È in questo scenario che l’Europa dovrà cercare di giocare un proprio ruolo. Al contrario sembra agire/vivere con la testa rivolta al passato, aggrappata ad un ordine mondiale che non esiste più.

Il ruolo dell’Europa

Nei primi anni ’90, l’economista del MIT Thurow[16] sosteneva che l’Europa si preparava a diventare il sistema internazionale dominante del XXI secolo, dopo il Regno Unito nel XIX e gli Stati Uniti nel XX.

Nei decenni successivi sono però cambiate diverse “carte in tavola” determinando scenari mondiali ben differenti da quelli prospettati da Thurow. In particolare è importante ricordare l’ingresso della Cina nel WTO (2001) e alla successiva rapidissima avanzata dell’economia Cinese come “fabbrica del mondo”. Un altro elemento fondamentale è l’evoluzione in senso finanziario del capitalismo mondiale a tutto vantaggio degli Stati Uniti che sono stati i principali promotori di tale modello.

Un dato sintetico: negli anni ’90 l’Europa aveva un terzo delle maggiori imprese mondiali. Oggi ne ha meno di un quinto.

Il ritardo accumulato dall’Europa è sicuramente dovuto anche alla restrizione fiscale (detta austerità espansiva) che ha caratterizzato una politica economica non certo indirizzata prevalentemente alla crescita. La politica economica europea a carattere espansivo utilizzata nell’affrontare l’emergenza Covid non sembra oggi trovare continuità.

Questa scelta è contraddittoria rispetto agli obiettivi strategici di lungo termine dichiarati più volte dall’Europa riguardanti la transizione verde e digitale, la riduzione della povertà, la gestione dell’inverno demografico e il progetto di una Difesa comune.

È a tali obiettivi che puntava il Rapporto Draghi, presentato nel settembre 2024, che indicava un fabbisogno annuale di investimenti aggiuntivi di 800 miliardi per i prossimi 10 anni, ossia il 5% del PIL della UE. Tale Rapporto il cui scopo fondamentale è proprio il contrasto al declino europeo di fronte al conflitto USA-Cina ha trovato nei vincoli politici, più che in quelli economici, la difficoltà della sua attuazione. (Si tratta in sostanza di accettare l’idea di emettere “debito” garantito a livello europeo).

La politica economica europea è lo specchio del ruolo politico quasi inesistente dell’Europa nello scenario internazionale, che, come è noto, è dovuto alla sua incapacità di presentarsi unita a causa dei sovranismi politici e degli interessi economici nazionali.

Emblematico da questo punto di vista lo sfogo di Draghi nel suo intervento al Parlamento europeo del 18 febbraio di quest’anno. “Dite no al debito pubblico, dite no al mercato unico, dite no alla creazione dell’unione dei mercati dei capitali. Non potete dire no a tutto. Altrimenti dovete essere coerenti nell’ammettere che non siete in grado di portare avanti i valori fondamentali per i quali l’Unione Europea è stata creata. Quando mi chiedete cosa è meglio fare ora, vi dico che non ne ho idea. Ma fate qualcosa !!”

Significativo è anche il piano ReArm Europe proposto dalla Commissione che non solo non è un passo avanti verso una maggiore coesione europea, ma anche non è in grado di garantire quell’autonomia strategica di cui, soprattutto in questa fase storica, necessita l’Europa.[17]   I singoli Stati avranno ancora più ampi margini di autonomia su come armarsi e questo in deroga al Patto di Stabilità. Una deroga peraltro non concessa su questioni economiche e sociali di grande rilevanza.

Lo scenario macroeconomico ma anche geopolitico determinato dalla “guerra dei dazi” voluta da Trump non può che rilanciare la necessità del “progetto europeo”. La “guerra dei dazi” rappresenta infatti, al di là della sua futura evoluzione, un’ulteriore sfida su cui deve misurarsi l’Europa. Oltre a trattative e ritorsioni, l’Europa dovrà indirizzarsi verso politiche di bilancio nazionali, libere di intervenire a sostegno delle imprese colpite dai dazi in attesa del loro adattamento al nuovo contesto.

Ma serviranno risposte anche di lungo periodo, cioè strutturali. L’autonomia strategica non può riguardare solamente la Difesa. È necessario ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti (oltre che da altre aree commerciali) anche nell’ambito della transizione ecologica, delle politiche industriali, nel digitale e nella finanza. La guerra commerciale non fa che rendere più urgente un processo già di per sé necessario.

Infine il contesto protezionistico che si è venuto a creare improvvisamente negli scenari macroeconomici, ma anche il precedente processo di de-globalizzazione dell’economia mondiale di cui avevamo accennato all’inizio, mettono ancora più in discussione il modello di crescita europeo. La crisi del sistema economico europeo, o meglio la sua prolungata stagnazione, è in primo luogo la crisi del modello “mercantilistico” tedesco (che però ha contagiato l’intero continente) trainato dalle esportazioni e basato sulla contrazione della domanda interna che non ha retto la crisi ucraina (vd. prezzo materie prime) e la nuova concorrenza industriale della Cina (vd. automotive).

Un modello mercantilista che, oltre ad aumentare la dipendenza strategica dal resto del mondo, costituisce un freno agli investimenti e in definitiva agli aumenti di produttività.

È significativo che in recenti interventi lo stesso Mario Draghi ha dovuto riconoscere le peculiarità negative di questo modello.

La politica economica europea non può però diventare un alibi per le scelte che i governi nazionali attuano (o meglio non attuano) rispetto agli obiettivi di crescita e sviluppo.

Da questo punto di vista la Spagna rappresenta un esempio positivo che si distacca decisamente da quanto effettuato da altri Paesi europei, a cominciare dall’Italia.

Il Governo spagnolo ha puntato decisamente sugli investimenti per la transizione energetica, a partire dal solare su cui la Spagna, ha ovviamente un vantaggio comparato rispetto al Nord Europa. Non secondaria è l’attenzione per i consumi interni e le politiche di tutela del lavoro. Tutto ciò mantenendo i conti pubblici in equilibrio, non con tagli alla spesa pubblica ma grazie a provvedimenti di equità fiscale (tasse più elevate sui grandi capitali e sui redditi più elevati).

Ma, soprattutto, alla base c’è l’idea di un ruolo attivo dello Stato nell’economia.

Due esempi eclatanti sono un grande piano di edilizia pubblica e il Centro Nazionale di Supercalcolo situato a Barcellona. In quest’ultimo il Governo spagnolo investirà 61,76 milioni di euro. L’investimento in intelligenza artificiale darà impulso a una serie di servizi per promuovere l’ecosistema innovativo intorno a questa tecnologia.

In questa logica l’intervento a sostegno dei settori industriali in crisi può diventare soprattutto un’opportunità di politica economica a sostegno della crescita di un Paese.

Conclusioni

La fine della globalizzazione liberista e la risposta scomposta rappresentata dal protezionismo USA segnalano inequivocabilmente la crisi di un modello economico e la fine dell’egemonia del soggetto che ne era il principale artefice.

Ma il problema della crisi di un modello, è che bisogna costruirne l’alternativa. Allo stesso modo una crisi egemonica presuppone la fondazione di una nuova egemonia (in questo caso possibilmente attraverso un accordo multilaterale globale).

“Andare oltre la cronaca” significa in primo luogo riconoscere che liberismo e protezionismo sono due facce della stessa medaglia. Trump è nello stesso tempo l’esito del fallimento della globalizzazione liberista e il suo modo di sopravvivere. È proprio una globalizzazione senza regole che ha creato quegli squilibri commerciali che hanno determinato la svolta protezionista degli USA.

Il liberismo non può essere la risposta al protezionismo, poiché è parte del problema che lo ha generato.

Dunque anche la reazione cinese all’attuale disordine economico, ossia un ritorno al globalismo deregolato, non può essere la soluzione.

Allo stesso modo il modello mercantilistico europeo, di matrice tedesca ma non solo, di contrazione della domanda interna è una parte non irrilevante degli squilibri commerciali internazionali.

Il fatto che liberismo e protezionismo non siano di per sé alternativi è evidente dalle scelte della politica economica americana. A fronte della “guerra dei dazi” (protezionismo) Trump propone e in parte già attua un taglio netto della spesa pubblica e una riduzione delle tasse soprattutto a favore delle classi più agiate e delle aziende. A fine febbraio di quest’anno il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una serie di risoluzioni che prevedono 4.500 miliardi di dollari di tagli alle tasse e 200 miliardi di dollari di riduzione delle spese federali in 10 anni.

Serve dunque un orientamento controcorrente in grado di guidarci fuori dalla tempesta economica globale in atto.

Un modello alternativo è rappresentato dal cosiddetto “social standard”, in sostanza una serie di proposte promosse dall’ILO, ma non solo, riguardanti norme in grado di regolamentare l’economia internazionale sia per quanto riguarda i movimenti di merci e capitali ma anche e soprattutto condizioni di lavoro e salari, regimi di tutela ambientale e sanitaria.

In attesa di poter attuare una riforma di tale portata, riconosciuta l’insostenibilità di una crescita trainata dall’esportazioni a livello internazionale (è infatti aritmeticamente impossibile che tutti i Paesi abbiano contemporaneamente un saldo commerciale positivo) sarebbe utile promuovere un accordo multilaterale per stimolare la domanda interna.

Si tratta di favorire “una progressiva sostituzione, da un lato, delle esportazioni con consumi e investimenti nazionali e, dall’altro dalle importazioni con produzioni interne.

Una simile soluzione rilancerebbe lo sviluppo mondiale su basi molto più solide ed avrebbe limitati effetti inflazionistici se fosse accompagnata da politiche tese ad adeguare la struttura produttiva nazionale alla domanda interna piuttosto che a quella internazionale. In questo quadro gli scambi tornerebbero a svolgere il ruolo fisiologico di sfruttare i vantaggi competitivi e le diverse dotazioni di risorse naturali ed umane dei vari Paesi”.[18]

Ma investire sulla domanda interna, senza peraltro dimenticare i vantaggi degli scambi internazionali, a cominciare da quelli sulla “conoscenza”, significa impostare un modello di sviluppo completamente diverso da quello attuale, un modello che punta ad alti salari, al rafforzamento del welfare ed a investire su infrastrutture, trasporto pubblico, tecnologie verdi e sulla propria manifattura.

I dazi, o meglio la guerra commerciale in atto, sono quindi una conseguenza quasi inevitabile della globalizzazione nella sua forma attuale, governata più che dai singoli Stati, dai grandi monopoli finanziari, tecnologici e produttivi.[19]

Da questo punto di vista i nazionalismi non sono e non possono essere una risposta alla crisi della globalizzazione liberista. I nazionalismi infatti, nelle loro derive populiste, combinano ideologie vetero-reazionarie con la subordinazione di fatto alla potenza economica dominante. Che fare?

A livello internazionale, serve ridare forza agli organismi internazionali, ovviamente riformandoli radicalmente.

A livello nazionale risulterà sempre più importante il ruolo delle rappresentanze sociali se saranno in grado di contribuire ad un modello di sviluppo inclusivo. Come dimostrato dalla ricerca comparata di Carlo Trigilia [20] i Paesi che hanno sperimentato da tempo modelli efficaci di concertazione, dove associazione imprenditoriali e sindacati sono realmente coinvolti nelle decisioni di Governo, la difesa dello stato sociale e la lotta alle disuguaglianze hanno maggiori probabilità di successo.


[1] R. Foroohar, La globalizzazione è finita, Fazi Editore, 2022.

[2] Citato in A. Airoldi, “Il ritorno del paradosso di Solow?” 4 maggio 2023 – web

[3] Acemoglu-Johnson, Potere e progresso, Il Saggiatore, 2023

[4] P. Thiel, “The Education of a Libertarian”, 2009 – web

[5] R. Prodi, “Autocrazie tecnologiche e democrazie a rischio”, Il Messaggero 4 gennaio 2025

[6] N. Roubini, “La forza dei mercati che piega The Donald”, La Stampa 3 maggio 2025

[7] S. Miran, “A User’s Guide to Restrcturing the Global Trading System”, novembre 2024  – web

[8] M. Lossani, “Mar-a Lago- Accord. Il manifesto della pax trumpiana?” in Menabò nr. 236/2025

[9] Su questi temi rimando all’intervista all’economista J.Sachs, È come una guerra che tutti perderanno” in Affari e Finanza, 7 aprile 2025

[10] G. Tria, “Il canadese Carney profeta di un nuovo sistema monetario”, Il Sole 24 Ore 3 maggio 2025

[11] R. Romano, “Siamo alle soglie di una grande crisi?” in Menabò nr. 233/2025

[12] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Utet, 1989

[13] Fra gli altri il fondamentale: E. Hobswam, Il secolo breve, Rizzoli, 1994

[14] M. Cacciari, “Ma le chiavi dei valori sono in mano all’Europa”, La Stampa 10 febbraio 2025

[15] A.S.P.I., “The reward of lon-term research investment” Agosto 2024 – web

[16] L. Thurow, Testa a testa, Mondadori, 1992

[17] L. Reichlin, “L’economia di guerra alla prova” in Corriere della Sera 9 marzo 2025. In questo articolo è ben spiegato il legame tra sovranità nella Difesa e leadership tecnologica.

[18] E. D’Elia, “Dazi, galli e galline” in Menabò nr. 236/2025 – web

[19] In quest’ottica la guerra commerciale non è un conflitto tra Paesi, ma in realtà una guerra di classe. In proposito si veda l’interessante analisi di due economisti americani contenuta nel testo: Klein-Pettis, Le guerre commerciali sono guerre di classe, 2020 Einaudi. La tesi fondamentale di questo libro è che l’aumento della disuguaglianza nei singoli Paesi inasprisce i conflitti commerciali internazionali.

[20] C. Trigilia, Capitalismi e democrazie. Si possono conciliare crescita e disuguaglianza? Il Mulino, 2020.