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“Qualcuno ha detto che la federazione europea è un mito.

È vero, è un mito nel senso soreliano. E se volete che un mito ci sia, ditemi un po’ quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti fra Stato e Stato, l’avvenire della nostra Europa, l’avvenire del mondo, la sicurezza, la pace, se non questo sforzo verso l’unione? Volete il mito della dittatura, il mito della forza, il mito della propria bandiera, sia pure accompagnato dall’eroismo?

Ma noi, allora, creeremmo di nuovo quel conflitto che porta fatalmente alla guerra. Io vi dico che questo mito è mito di pace; questa è la pace, questa è la strada che dobbiamo seguire”.

(Dal discorso di Alcide De Gasperi al Senato della Repubblica, 15 novembre 1950).

“…La pace sia con voi. Una pace disarmata, disarmante, umile e perseverante…

Aiutateci a costruire ponti, con il dialogo, per essere sempre in pace”.

(Robert Francis Prevost, Papa Leone XIV, 8 maggio 2025).

La “solitudine” dell’Europa

Il 9 maggio, giornata dedicata all’Unione Europea, quest’anno impone una serie di riflessioni e di analisi che obbligano i 27 paesi membri dell’Unione ad interrogarsi sul futuro del “progetto” europeo, a rivedere il percorso realizzato dal 1950 ad oggi, in un contesto internazionale drammaticamente cambiato negli ultimi mesi. I 27 paesi si trovano, infatti, costretti a fare i conti con una “solitudine”[1] mai sperimentata fino ad oggi, soprattutto sui temi della “sicurezza”, per la repentina (anche se annunciata) svolta imposta dall’irruzione sulla scena politica internazionale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump che, promettendo a un’opinione pubblica nordamericana una forte concentrazione delle priorità della propria amministrazione sui temi “interni”, per rispondere al bisogno di sicurezza piuttosto che a una nostalgica “centralità” del sistema nordamericano nel mondo, ha imposto una vigorosa sterzata alla politica estera entrando con forza sul groviglio dei conflitti in corso nel mondo con un approccio per niente ispirato ai grandi principi della pace o della convivenza civile ma con l’atteggiamento pragmatico del “business man”, pronto a regolare ogni controversia internazionale alla luce di accordi commerciali ed economici,  mirati al “profitto” e agli effetti di ritorno per il proprio paese (e soprattutto per il proprio “elettorato”).   La posta in gioco è, evidentemente, l’abbandono di quell’interesse “superiore” al quale sembrava votato in eterno il “sistema” nordamericano, quello di essere la garanzia e la difesa della democrazia in tutto il mondo.   Di fatto la posizione di Trump è chiara: progressivo disimpegno dall’alleanza atlantica, invito all’Unione Europea a ripensare il proprio sistema di “difesa” militare. I primi mesi del 2025 hanno quindi visto accendersi un aspro dibattito anche a causa di una non felice definizione, da parte della Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, del progetto per una ripresa del controllo del sistema di difesa europea.[2]  Il dibattito si è arroventato perché, notoriamente, l’Unione Europea nasce come “progetto di pace” e tutto ciò che è legato a produzione di armi, industria militare, ricerca specializzata in campo nucleare e atomico, legata a possibile utilizzo bellico, era sembrato costantemente lontano dagli orizzonti di riflessione degli ambienti politici, accademici e anche militari nei paesi dell’Unione Europea, che aveva sostanzialmente  “delegato” questi aspetti alla NATO, pienamente operativa ed efficiente in tutta l’area continentale. Il dibattito si è concentrato su alcune opinioni condivise, sia da chi si è preoccupato subito di rilanciare le spese militari a livello nazionale e continentale, sia da chi si è ritrovato su posizioni più pacifiste (anche se preoccupate a fronte delle minacce nucleari “tattiche”, che impongono ipotesi di realistica “deterrenza”).   È estremamente complesso costruire un sistema di difesa continentale perché in Europa non esiste uno “stato federale”, non esiste una federazione di Stati europei, ma semplicemente una somma di 27 paesi, con 27 sistemi militari diversi, 27 eserciti diversi, per cui un aumento delle spese militari sul piano squisitamente nazionale sembra nei tempi brevi ineludibile.   Soprattutto manca quello che dovrebbe essere alla base di un sistema di difesa continentale e cioè una “politica estera comune”, critica semplice ed evidente, condivisa in tutti i dibattiti nei 27 paesi dell’Unione.  

La politica estera europea

Vorrei concentrare alcune riflessioni su questa tanto vituperata “politica estera europea”, con una considerazione di carattere generale a cui mi permetterò di aggiungere alcune riflessioni dettate dalla esperienza personale maturata, con vari incarichi di responsabilità, in ben tre mandati di presenza all’interno del Comitato Economico e Sociale europeo e soprattutto nella Sezione del CESE dedicata alla politica estera.

Intanto la politica estera di uno stato (o di una unione o compagine di Stati) non è solamente definizione di confini, misure di sicurezza, rapporti di forza militari, confronti, annessioni etc., ma è un insieme di “azioni”, di “relazioni” che devono essere caratterizzate su molti ambiti e non solo su quello militare: l’ambito commerciale, l’ambito economico, l’ambito della cooperazione culturale, la condivisione o l’interscambio di principi e valori, la cooperazione allo sviluppo.  Credo sia possibile quindi affrontare una riflessione sulla politica estera dell’Unione Europea liberandoci da orpelli e da condizionamenti che mortificherebbero, con una definizione “rigida”, la politica delle relazioni estere dell’Unione. Prima di tutto va inquadrato,  in  modo semplice, il sistema di relazioni dell’Unione Europea con tutte le altre realtà nazionali e continentali, che può essere rappresentato da uno schema di “cerchi concentrici”: il primo cerchio, più prossimo al centro dove sono gli Stati membri dell’Unione, è quello che riguarda i paesi che chiedono l’affiliazione all’Unione Europea, un secondo cerchio riguarda i paesi cosiddetti “vicini”, i paesi che sono ai confini dell’Unione Europea, un terzo cerchio concentrico, più ampio, è quello dei paesi geograficamente più lontani.  Con tutti e tre gli ambiti sono previsti programmi e progetti specifici di relazioni.  

Osservando intanto i paesi che hanno fatto richiesta di affiliazione, è abbastanza noto che le istituzioni europee hanno stabilito specifici programmi destinati ad accompagnare il percorso di questi paesi per aderire all’Unione: innanzitutto accettazione e un severo approfondimento dell’”acquis communitaire”,  di fatto il patrimonio vivo di norme, principi e obblighi che definisce l’identità giuridica e politica dell’Unione Europea, una sorta di “linguaggio comune” che ogni Stato candidato deve imparare, adottare e rispettare integralmente.   Gli Stati che aspirano all’adesione sono chiamati a garantire il rispetto della democrazia, dei diritti umani, dello stato di diritto e a implementare pienamente tutte le politiche e regole europee, costruendo così una base solida per una partecipazione pienamente integrata alla vita dell’Unione.  C’è poi il rapporto con i paesi ai confini, i cosiddetti “Neighbours Countries”, paesi con i quali si costruiscono indispensabili rapporti sul piano economico e commerciale, visto che nell’economia globale non ci si può sottrarre da relazioni costanti e continue (nelle relazioni “transfrontaliere” si rende ad esempio necessaria tutta la regolamentazione dei rapporti che si determinano tra aziende e lavoratori in continua mobilità tra i paesi confinanti).  

Infine, un terzo ambito che è quello dei paesi più lontani, con i quali si stabiliscono rapporti diplomatici, commerciali e programmi di cooperazione.   Tutti i rapporti, in ogni cerchio concentrico, sono ispirati comunque ai principi e valori dell’Unione Europea, rispetto ai quali tutti i paesi che entrano in relazione con l’Unione sono invitati ad una condivisione, una adesione di fondo. E quei principi e valori non sono altro che i principi e i valori che ritroviamo nella Dichiarazione universale dei diritti umani, un riferimento straordinario ed altissimo che dovrebbe rappresentare la massima garanzia per una serena convivenza civile e sociale a livello globale.

Gli “accordi di associazione” e gli “accordi di libero scambio”

Gli accordi commerciali sono uno strumento principe nella politica estera di ogni paese.  Per quanto riguarda l’Unione Europea, gli accordi con gli altri paesi sono sempre stati ispirati ad accordi “di associazione” piuttosto che ad accordi “commerciali” tout court. Gli Accordi di associazione sono, infatti, intese ampie e strutturate che non si limitano al commercio ma mirano a creare legami politici, economici e culturali duraturi con i Paesi partner, spesso prevedendo anche cooperazione su temi come diritti umani, sviluppo istituzionale e sicurezza.  

L’adesione a principi e valori rappresenta una sorta di condizione essenziale perché l’Unione Europea stabilisca delle relazioni forti con gli altri paesi. Gli accordi di libero scambio commerciale, invece, si concentrano principalmente sull’aspetto economico, eliminando o riducendo dazi, tariffe e barriere commerciali tra l’UE e il partner, senza impegnarsi in una cooperazione politica o istituzionale più profonda.[3] Purtroppo nel corso degli ultimi dieci anni si è passati progressivamente dall’applicazione di accordi di associazione sempre di più a semplici accordi commerciali: un cambio di paradigma che aiuta a comprendere il generale cambiamento di “clima culturale” che ha portato alla situazione odierna.  

L’esempio più evidente del passaggio da accordo di associazione ad accordo di libero scambio è il lungo percorso dell’Accordo tra UE e Mercosur, oppure l’accordo tra UE e l’area andina, che poi si è ridotto ad accordo multiparte con Colombia, Perù ed Ecuador, disponibili ad avviare accordi sul piano squisitamente commerciale ma rinunciando a stabilire un grande accordo di associazione in tutta l’area, a causa della situazione del Venezuela, sopraffatto da problemi politici che hanno nel tempo acuito le distanze valoriali dall’Unione Europea e lo hanno escluso fino ad oggi dall’Accordo.

Per spiegare ancora meglio come una politica “estera” possa essere praticata attraverso criteri di applicazione delle politiche commerciali, basti pensare al “sistema delle preferenze generalizzate” oppure alla cosiddetta “clausola della nazione più favorita”. Il Sistema di Preferenze Generalizzate è un regime commerciale attraverso cui l’Unione Europea concede, in modo unilaterale, tariffe doganali ridotte o azzerate sui prodotti provenienti da Paesi in via di sviluppo, per favorirne la crescita economica e l’integrazione nei mercati internazionali. L’idea alla base è aiutare questi Paesi a esportare più facilmente verso l’UE, sostenendo al contempo riforme sociali, ambientali e dei diritti umani.[4]   

Il criterio della nazione più favorita (Most Favoured Nation) è invece una pratica commerciale in base alla quale l’Unione Europea si impegna a garantire a un Paese terzo le stesse condizioni vantaggiose (come dazi ridotti o accesso al mercato) che offre al suo partner commerciale più favorito. In sostanza, se l’UE concede un beneficio commerciale a uno Stato, deve estenderlo anche agli altri Stati con cui ha un impegno di “nazione più favorita”, assicurando parità di trattamento e non discriminazione tra partner.   Già questo semplice richiamo alle “prassi” abituali che l’Unione Europea applica è sufficiente per provare a raccontare lo “spirito” delle relazioni internazionali dell’Unione, l’apertura e la qualità dei rapporti che anche, attraverso il commercio, possono essere generati nel quadro di una politica “estera”. È immediatamente percepibile l’abissale differenza rispetto al clima che si sta vivendo sul piano globale nella presente congiuntura, scatenato dalle chiusure e dalle guerre commerciali dichiarate dall’amministrazione Trump fin dall’”insediamento” del Presidente USA.

Mi sembra importante sottolineare ancora un altro criterio delle politiche commerciali dell’Unione Europea, soprattutto per chi ha a cuore le relazioni industriali, i diritti del lavoro e la giustizia sociale: l’UE propone, tra le condizioni indispensabili per stabilire e costruire un accordo di libero scambio, che vengano garantite, da parte del paese partner, la ratifica e il rispetto delle Convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro.[5] 

Costruire rapporti commerciali ed economici ha sempre rappresentato un atteggiamento positivo e pacifico da parte degli Stati nel corso della Storia: torna spesso in mente nell’attuale congiuntura internazionale il motto “…Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti”, attribuito all’economista francese del XIX secolo Frederic Bastiat, principio su cui si è sostanzialmente basata la politica strategica europea, e in parte americana, per oltre cinquanta anni.   Al di là del principio applicato al mercato interno dell’Unione Europea, che ha effettivamente garantito oltre 70 anni di pace consecutivi mai registrati nella storia tra i paesi del continente, è interessante rilevare quanto, anche nel sistema globale, il principio possa trovare conferme.  

È importante, alla luce di queste riflessioni, considerare il numero complessivo degli accordi dell’Unione Europea rispetto agli accordi oggi sottoscritti da parte degli Stati Uniti d’America o da parte della Cina, registrati dall’Organizzazione mondiale del commercio. L’Unione Europea ha 42 accordi di libero scambio attivi con 74 partner in tutti i continenti, gli USA hanno sottoscritto 14 accordi con 20 paesi, la Cina 23 accordi con 30 paesi.   L’Unione Europea ha un maggior numero di accordi che rappresentano la continuità di un’esperienza storica fondata sugli Accordi di Yaoundé e di Lomé che, dagli anni ’60 al 2000, hanno segnato un modello di relazioni non basato su profitto, ma su solidarietà e cooperazione, rappresentando un approccio unico e pionieristico dell’UE verso i paesi poveri, diverso dagli approcci degli Stati Uniti d’America o della Cina, più orientati a interessi geopolitici o economici.[6]   

Non si può parlare della politica estera europea né giudicarla senza tenere conto della straordinaria importanza che questi Accordi hanno avuto nella storia dell’umanità.   Gli analisti vedono il gran numero di accordi dell’Unione Europea come il riflesso della sua identità: l’Unione punta a essere un attore multilaterale che promuove non solo il commercio, ma anche valori come la democrazia, i diritti umani e lo sviluppo sostenibile.   L’Europa si costruisce quindi un’immagine di “potenza normativa”, capace di esportare i propri standard a livello globale. Questo rafforza il peso politico dell’Unione nelle relazioni internazionali, anche oltre il solo commercio.  Avere molti accordi permette, infine, all’UE di non dipendere eccessivamente da un solo mercato (ad esempio da Stati Uniti o Cina) e comporta più resilienza alle crisi geopolitiche o economiche, maggiore capacità di adattarsi agli “shock”, come le guerre commerciali o le interruzioni delle catene di fornitura.

Il ruolo della società civile organizzata nella politica estera europea

L’Unione Europea ha poi una particolarità che la rende “unica” nell’ambito delle organizzazioni internazionali: si tratta del coinvolgimento capillare e potente delle Organizzazioni della società civile nel quadro istituzionale della “multilevel governance” che la costituisce.   Di fatto, soprattutto attraverso gli organismi come il Comitato Economico e Sociale Europeo, si registra una evoluzione costante delle pratiche di “consultazione” verso una sempre più concreta partecipazione delle organizzazioni della società civile alla funzione “legislativa” delle Istituzioni comunitarie.    

Nel Comitato Economico e Sociale Europeo sono presenti, sin dall’Atto costitutivo dell’Unione del 1950, gli attori sociali, quindi associazioni degli imprenditori e organizzazioni sindacali dei lavoratori, nonché quell’insieme di organizzazioni della società civile che si occupano degli interessi più diversi, dalla tutela dell’ambiente all’attenzione ai diritti umani, dalla difesa dei consumatori alla rappresentanza delle persone con disabilità, dal mondo agricolo a quello delle cooperative etc.  Il passaggio dal livello di semplice consultazione ad un coinvolgimento maggiore della società civile alla fase di decisione e costruzione legislativa è espresso dall’articolo 13 del Trattato di Lisbona del 2009, dove al par.4 si dice che “Il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione sono assistiti da un Comitato Economico e Sociale e da un Comitato delle Regioni, che esercitano funzioni consultive”.

La forza di questo verbo, “assistere”, evidenzia l’importanza del coinvolgimento degli attori sociali: la percentuale di Pareri del CESE accolti ogni anno dalla Commissione europea, infatti, è di oltre l’80%, secondo gli uffici statistici della UE.   I Pareri che modificano di fatto il testo iniziale delle Direttive mostrano l’importanza dell’azione della società civile, il cui punto di vista, per la prossimità delle organizzazioni rispetto alle problematiche concrete delle realtà territoriali, coglie le esigenze che l’ambito istituzionale spesso non riesce a intercettare. Questa realtà è un “unicum”, non c’è una esperienza simile in nessuna Organizzazione internazionale o Unione di Stati[7], ed esprime un aspetto di quel “modello sociale europeo” osservato, analizzato, ancora invidiato dal resto del mondo.  Questo coinvolgimento dei cosiddetti “corpi intermedi” si realizza anche nella sezione di politica estera del CESE, sezione nella quale ho avuto il privilegio e l’onore di lavorare per tre mandati, con vari ruoli di responsabilità, nominato in rappresentanza delle Organizzazioni dei lavoratori.  

Ho potuto sperimentare di persona, ad esempio, come attraverso i “Comitati Consultivi misti” del CESE le organizzazioni della società civile possano arricchire la politica estera dell’Unione europea, sviluppando quella dimensione che mi piace definire di “diplomazia parallela”, che riempie di “umanità”, di empatia, le relazioni di “realpolitik” fra gli Stati, spesso condizionate da interessi di profitto e di egemonie, di cui si fa interprete troppo spesso la fredda diplomazia “ufficiale”.  

 I Comitati Consultivi misti del CESE

I Comitati Consultivi misti sono organi istituiti dal Comitato Economico e Sociale Europeo per promuovere il dialogo tra le organizzazioni della società civile dell’Unione Europea e quelle di paesi terzi con cui l’UE ha concluso accordi di associazione, di libero scambio o di cooperazione, ma anche per mantenere relazioni tra le reti della società civile nei paesi vicini, ai confini geografici dell’Unione, o con Paesi di grande importanza nel contesto geo-economico globale.  Con incontri programmati (ad esempio appuntamenti ogni sei mesi delle delegazioni alternativamente a Bruxelles e nei paesi partner) mirati a conoscere ed approfondire gli “strumenti” e i programmi comunitari, i Comitati hanno svolto e svolgono un ruolo significativo in molti ambiti: dalla promozione del dialogo sociale, favorendo il confronto tra le parti sociali e le organizzazioni della società civile dell’UE e dei paesi partner, contribuendo alla comprensione reciproca e alla cooperazione.

Nel caso dei sindacati dei lavoratori, ad esempio, si realizzano interscambi sui sistemi di relazioni industriali, la contrattazione collettiva, i rispettivi sistemi di tutela e previdenza, etc.  Nell’ambito della preparazione all’adesione all’UE, nei paesi candidati i Comitati consultivi misti aiutano le organizzazioni locali a prepararsi per l’adesione, facilitando l’allineamento con le normative e le pratiche dell’Unione.  Un ruolo decisivo dei Comitati è anche quello del monitoraggio degli accordi di associazione o degli Accordi commerciali, fornendo raccomandazioni e osservazioni sull’attuazione degli accordi, contribuendo a garantire che gli impegni siano rispettati.[8]   Si può dire in conclusione che i Comitati rappresentano un contributo notevole al rafforzamento della democrazia partecipativa, sostenendo lo sviluppo di una società civile attiva nei paesi partner, elemento fondamentale per la stabilità e la democrazia.  

Durante i mandati nei quali sono stato Membro del Comitato Economico e Sociale Europeo ho seguito, anche da Vice Presidente della Sezione REX (Politiche estere), molti Comitati Consultivi misti, quelli che hanno accompagnato gli accordi Multiparte con Colombia, Peru, Ecuador o quelli con il Cile, l’accordo strategico con il Brasile e quello con il Mercosur, il Comitato con i paesi dell’America centrale, il Partenariato “transatlantico”, il delicato Comitato che dialogava con i rappresentanti della società civile cinese.  Vorrei soffermarmi e ricordare, in particolare, il Comitato consultivo misto con i “Vicini dell’Est”, quello con la Moldavia, la Georgia, quello con l’Ucraina…

Del lavoro e degli interscambi con le reti della società civile ucraina, e quindi anche con le organizzazioni degli imprenditori e le Confederazioni sindacali, vorrei richiamare i tanti incontri che hanno negli anni accompagnato la crescita della consapevolezza dell’adesione della società ucraina ai principi e ai valori europei, il periodo della “Rivoluzione arancione”,[9] quello dell’ “Euro-Maidan”[10], le lunghe discussioni sulle esigenze delle comunità russofone delle aree del Donbas, la crisi del 2014 con l’intervento russo in Crimea…

Tutto avveniva in un clima di dialogo, informazioni reciproche, dibattiti aperti, condivisione di preoccupazioni ed entusiasmi, ricerca di soluzioni per ogni problema… E,  anche se può sembrare incredibile scriverne in questi giorni, questo straordinario clima di collaborazione e questo livello di dialogo e di confronto aperto e sincero furono il leit-motiv dei nostri incontri con i rappresentanti della Civic Chamber russa, network nel quale oltre a delegati del mondo delle organizzazioni e delle associazioni russe delle accademie e della società civile partecipavano anche imprenditori e i nostri “amici” della Confederazione FNPR, organizzazione affiliata alla Confederazione Internazionale dei Sindacati fino alla loro sospensione per non aver espresso dissenso rispetto all’intervento armato in Ucraina nel febbraio 2022…

Gli incontri con i russi si spingevano fino a ragionare di diritti umani e democrazia: un documento ufficiale, di cui ebbi l’onore di essere Relatore per il CESE, fu siglato congiuntamente dai rappresentanti del CESE e della Civic Chamber russa nel 2013 (sono soltanto pochi anni fa, anche se sembra che sia trascorso un secolo…[11]) e ci si dichiarava d’accordo e si sottolineava l’importanza della trasparenza, della libertà di manifestazione del pensiero e di espressione delle opinioni nei giorni immediatamente successivi all’uccisione della giornalista Anna Stepanovna Politkovskaja.[12]

Nel corso del tempo sono stati costituiti ed attivati numerosi Comitati consultivi misti; purtroppo si deve prendere atto che, negli ultimi anni, le attività di molti Comitati sono state sospese; ciò è avvenuto proprio in una fase in cui si cominciava a delineare una congiuntura complessa, con una pericolosa deriva delle relazioni internazionali, con conflitti armati e vere proprie guerre “commerciali” che si manifestano oggi a causa del debutto della scomposta politica dell’amministrazione Trump.

Non ci si nasconde, e va opportunamente sottolineato, che tutte queste “pratiche” che ho voluto ricordare e descrivere, comportano un grande sforzo, l’impegno di operatori e “mediatori” instancabili, pazienza e resilienza, in poche parole un grandissimo lavoro politico e diplomatico.   L’esperienza maturata e quanto realizzato nel corso degli anni rappresenta una forte garanzia del possibile ruolo dell’Europa anche nell’attuale scenario, compromesso dalle crisi in atto.  

Con tutto questo “patrimonio” accumulato, l’Unione Europea può e deve continuare a proporsi nell’ambito internazionale come realtà “unica”, davvero portatrice di un “progetto di pace” e soprattutto di “buone prassi” di pace.

Readiness 30 (ReArm Europe)

Alla luce di quanto descritto finora, e lungi dal ritenere di essere stati esaustivi rispetto allo straordinario potenziale delle “politiche estere” dell’UE a fronte di critiche facili e spesso ingiuste, non è superfluo riprendere qualche considerazione finale sull’attuale dibattito intorno all’aumento delle spese militari per la difesa europea. Il progetto di pace, a monte della costruzione del percorso verso l’Unione Europea, non aveva peccato di “irenismo”. Una complessa discussione aveva accompagnato, infatti, la possibile nascita della CED (Comunità di difesa europea), poi abbandonata.[13]  Oggi, di fronte alla possibile disarticolazione e indebolimento della NATO, si avverte l’urgenza di approntare un sistema di “difesa” continentale che possa evitare spiacevoli sorprese dalla ripresa delle mire espansionistiche per nostalgie di vecchi imperi.  

Avendo conosciuto e visitato la Russia e frequentato politici, intellettuali, sindacalisti, membri dell’Accademia delle Scienze per molti anni, da prima della caduta del Muro di Berlino fino ai nostri giorni, ho motivo di pensare che sarebbe davvero improbabile una tale degenerazione dei sistemi e degli assetti, ma occorre realisticamente ammettere che l’attuale classe politica mondiale non brilla per lungimiranza politica e nervi saldi e presenta pericolose derive rispetto alla razionalità e alla saggezza che dovrebbero essere conseguenti rispetto al livello di sviluppo che hanno raggiunto le armi atomiche, delle quali ogni tanto sentiamo ri-parlare a sproposito ed evocarne l’apocalisse.    

Per la “deterrenza nucleare” basterebbe oggi, di fatto, una sola bomba atomica a testa, tra qualunque contendente, perché, rispetto agli ordigni odierni, le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki sono paragonabili a dei semplici petardi da feste di fine anno…[14]   

Non sfugge a nessuno che le guerre nel 2025 si stanno combattendo non con le armi atomiche ma con armi “convenzionali”, novecentesche… E si paventa ogni tanto la minaccia di uso di armi nucleari “tattiche”, che sarebbero bombe atomiche, per così dire, più “piccole”, ma capaci di distruggere intere città e territori.    Per cui si è data opportunità al dibattito e ragione al rilancio delle spese militari, con grande gaudio di alcune “holding”[15].  

Qualche dubbio viene però alimentato dalle riflessioni di Gianni Alioti, ex Responsabile internazionale della FIM-Cisl (sindacato da sempre protagonista, in prima linea, della riconversione delle industrie militari in Italia), che fa notare come basterebbe, invece che aumentare le spese militari, indirizzare verso l’”interno” quel 70% di produzione di armi che oggi l’italiana Leonardo destina all’esportazione.[16]   

Qualche interrogativo desta anche un rapido, semplice sguardo alla situazione attuale della spesa globale per le armi, che già vede, di gran lunga, i paesi europei della Nato spendere molto di più di Russia e Bielorussia[17].  

Il Sindacato ha cominciato a lanciare un grido d’allarme: la difesa è necessaria, ma “nessuno tocchi i fondi di coesione…”[18]   

Forse è tempo di riprendere il virtuoso cammino che, dagli anni ’50, tutti i paesi del mondo avevano intrapreso, quello evocato dalle ultime parole pronunciate da Papa Francesco il giorno di Pasqua, poche ore prima di morire: “…Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura gli uni degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona umana”.


[1] G. Iuliano, Il Sindacato internazionale di fronte alle sfide del nuovo contesto globale. In Progetto Anno 1 Numero 1, p.31

[2] “ReArm Europe”, ribattezzato rapidamente “Readiness 30”

[3]Esempio di Accordo di associazione: l’accordo UE-Ucraina del 2014. Oltre a liberalizzare il commercio, prevede un forte impegno dell’Ucraina a riformare il proprio sistema politico, giudiziario ed economico, avvicinandosi ai valori e alle regole europee. Esempio invece di Accordo di libero scambio commerciale: l’accordo UE-Corea del Sud del 2011. Qui l’obiettivo principale è stato eliminare quasi tutti i dazi doganali e facilitare gli scambi di beni e servizi, senza prevedere una cooperazione politica o istituzionale più ampia.

[4] Sistema di preferenze generalizzate (SPG) standard: tariffe ridotte su molti prodotti per i Paesi in via di sviluppo “normali”, che rispettano criteri minimi (tipo regole basilari del lavoro e diritti umani).         SPG+: accesso ancora più facilitato (tariffe quasi azzerate) per i Paesi che si impegnano in modo particolare a rispettare 27 convenzioni internazionali su diritti umani, diritti dei lavoratori, ambiente e buon governo.         Everything But Arms (EBA): iniziativa speciale per i Paesi meno sviluppati, che garantisce accesso completamente esente da dazi a tutti i prodotti (tranne armi e munizioni).

[5] Le dieci Convenzioni Fondamentali dell’OIL: DIRITTI SINDACALI – C087 (1948) – Libertà sindacale e protezione del diritto sindacale. Garantisce la libertà di costituire sindacati e aderirvi C098 (1949) – Diritto di organizzazione e contrattazione collettiva. Tutela i lavoratori da atti di discriminazione sindacale LAVORO FORZATO – C029 (1930) – Lavoro forzato o obbligatorio. Proibisce tutte le forme di lavoro forzato C105 (1957) – Abolizione del lavoro forzato. Proibisce il lavoro forzato per fini politici, economici o punitivi LAVORO MINORILE – C138 (1973) – Età minima per l’ammissione al lavoro.

Fissa un’età minima per il lavoro regolare C182 (1999) – Eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile. Proibisce schiavitù, prostituzione e sfruttamento di bambini NON DISCRIMINAZIONE – C100 (1951) – Parità di retribuzione. Parità salariale tra uomo e donna per lavoro di pari valore C111 (1958) – Discriminazione in impiego e professione. Proibisce discriminazioni per razza, sesso, religione, opinione politica, ecc. SALUTE E SICUREZZA (dal 2022) – C155 (1981) – Sicurezza e salute dei lavoratori. Politiche per prevenire infortuni e malattie professionali C187 (2006) – Quadro promozionale salute e sicurezza sul lavoro. Promuove prevenzione e sistemi nazionali di salute e sicurezza

[6] Gli Accordi di Yaoundé (1963 e 1969) furono firmati tra la Comunità Economica Europea e 18 ex colonie francesi dell’Africa, con l’obiettivo di mantenere relazioni privilegiate post-coloniali con aiuti economici e accesso preferenziale al mercato europeo. Gli Accordi di Lomé (dal 1975 al 2000) sostituiscono Yaoundé, furono estesi a oltre 70 paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) con l’obiettivo di offrire accesso preferenziale al mercato europeo per i prodotti ACP (senza reciprocità), aiuti allo sviluppo e cooperazione tecnica, stabilizzazione dei prezzi delle materie prime

[7] Non è paragonabile il grado di coinvolgimento delle organizzazioni della società civile nel CESE con la semplice “consultazione” prevista nell’ECOSOC delle Nazioni Unite.

[8] I DAGs (Domestic Advisory Groups) sono comitati di monitoraggio istituiti nell’ambito degli accordi commerciali dell’Unione Europea, in particolare quelli che contengono capitoli su sviluppo sostenibile, lavoro e ambiente. Sono composti da rappresentanti della società civile (sindacati, imprese, ONG, università) dei Paesi firmatari degli Accordi di libero scambio.

[9] La Rivoluzione arancione si riferisce alle proteste pacifiche in Ucraina tra il novembre 2004 e il gennaio 2005, in risposta a brogli elettorali nelle presidenziali vinte inizialmente dal filorusso Yanukovich. Grazie alla mobilitazione popolare e a pressioni internazionali, si ottenne un nuovo voto, che portò alla vittoria del candidato pro-europeo Viktor Yushchenko. Il colore arancione era il simbolo della sua campagna.

[10] L’Euromaidan si riferisce a una serie di manifestazioni filoeuropee iniziate in Ucraina nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, all’indomani della decisione del governo di sospendere le trattative per la conclusione di un accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea destinato a diventare un accordo di libero scambio globale.

[11] Non va dimenticato che nel 2012 all’Unione Europea, per l’insieme delle sue politiche, venne attribuito il Premio Nobel per la pace.

[12] G. Iuliano, EU and Russia: Human rights. EESC – Workshop EESC – Civic Chamber of the Russian Federation, Bruxelles maggio 2013.

[13] La CED (Comunità Europea di Difesa) fu un progetto promosso nel 1950 da Francia e Italia per creare un esercito europeo integrato, sotto un comando comune, per difendere l’Europa occidentale durante la Guerra Fredda, evitando al tempo stesso una ri-militarizzazione isolata della Germania. Nel 1954, il Parlamento francese bocciò la ratifica del trattato, temendo perdita di sovranità militare, rinascita del militarismo tedesco ed eccessiva influenza sovranazionale. Senza il voto francese, il progetto fu abbandonato, bloccando per decenni ogni vera integrazione militare europea.

[14]ll gruppo di ricerca di J. Robert Oppenheimer e Enrico Fermi, attivo durante il Progetto Manhattan (1942–1945), faceva parte della struttura del laboratorio di Los Alamos. Fermi era a capo della sezione teorica e sperimentale sui reattori nucleari e sulle prime fasi di sviluppo dell’arma, mentre Oppenheimer fu direttore scientifico dell’intero progetto. Oppenheimer, dopo Hiroshima, citò la Bhagavad Gita: “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”. Più tardi si oppose allo sviluppo della bomba all’idrogeno. Anche Fermi partecipò a comitati che discutevano limitazioni etiche e di controllo internazionale dell’uso nucleare.  

[15] I colossi della finanza mondiale come Capital Group, Black Rock, Vanguard, Goldman Sachs, Fidelity Investments, Wellington Management, Invesco, sono i principali azionisti, sia delle maggiori aziende americane per fatturato militare, sia della tedesca Rheinmetall, della britannica BAE Systems, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus e dell’ucraina JSC Ukrainian Defense Industry.

[16] Intervista di Giordano Cavallari a Gianni Alioti del 06.04.2025 su www.settimananews.it 

[17] L’International Institute for Strategic Studies pubblica ogni anno il report The Military Balance: l’ultimo pubblicato nei primi mesi del 2025 dimostra la superiorità dei Paesi europei della NATO, senza gli Stati Uniti, nei confronti di Russia e Bielorussia, rispetto a tutti i maggiori sistemi d’arma considerati: carri armati, mezzi corazzati, artiglieria pesante, aerei da combattimento, elicotteri da combattimento.

[18] Dichiarazione della neo-Segretaria Generale della Cisl Daniela Fumarola a margine del Consiglio Generale della Cisl di Torino Canavese il 4.03.2025: “Non c’è dubbio che l’Europa debba organizzare e finanziare una difesa comune adeguata alle enormi trasformazioni cui stiamo assistendo sul piano geostrategico. Questo programma, assolutamente necessario, non può però andare a sottrarre risorse alla coesione. Deve essere realizzato invece con dotazioni aggiuntive, senza drenaggio sui fondi destinati all’integrazione sociale e territoriale”.