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La Transizione ecologica è l’ultima e grande metamorfosi del sistema capitalista. E l’ambiente non è il suo vero obiettivo. Per capirlo, basta leggere il piano Green Deal nel quale il capitalismo si presenta con un nuovo linguaggio: quello della sostenibilità.

Anzitutto, il Green Deal è un piano economico con cui la Ue si è data degli obiettivi e i cui pacchetti attuativi stabiliscono tempi e modi. Il più celebre pacchetto è il Fit for 55, che decreta il bando del motore endotermico a partire dal 2035. Questa distinzione è utile per capire che se vi sono degli eccessi di dirigismo, questi si trovano soprattutto nei pacchetti attuativi.

Il Green Deal è il prodotto di un lavoro notevole da parte dell’Ue ed è l’esito di un confronto congiunto con il sindacato europeo e con il mondo dell’impresa. È cosa nota, per esempio, che sono stati i vertici della grande industria dell’auto – che oggi fanno marcia indietro – a volere la sola produzione di auto elettriche a partire dal 2035: si erano convinti che era l’unica strada per rinvigorire un mercato in contrazione da 15 anni.

Inoltre, il Green Deal è figlio dell’Agenda 2030 presentata dalle Nazioni unite nel 2015 a New York. L’Agenda 2030 è un documento importante sottoscritto da 193 Paesi e i cui 17 obiettivi, i cosiddetti “sdg” (sustainable development goals), sono oggi incardinati negli ordinamenti di gran parte dei Paesi del mondo. Tuttavia, la questione ambientale e lo sviluppo sostenibile sono qualcosa su cui le Nazioni Unite lavorano almeno dal 1968, quando si avviarono i preparativi per la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano (1972).

Ma … se i lavori per lo sviluppo sostenibile sono iniziati nel 1968, perché questa potente programmazione parte soltanto nel 2015?

La risposta più scontata potrebbe essere la crisi climatica. Sia chiaro, la crisi climatica c’è eccome, negarla è folle. I ghiacciai si stanno sciogliendo sul serio, la temperatura terrestre mostra una tendenza all’aumento nel lungo periodo. 

Ma gli scienziati ci dicono anche che, in questa storica mutazione del clima, potrebbero esserci delle cause endogene oltre all’elemento antropico (le emissioni di gas serra).

Intanto, per quanto l’energia pulita e la tecnologia digitale siano meglio dell’oil and gas, non è per nulla certo che il mondo che stiamo costruendo sia migliore del precedente; peraltro, i processi di estrazione delle nuove materie prime e/o materiali critici (come terre rare, litio e cobalto), sono altamente invasivi e impattanti.

In sintesi: oltre alla crisi ambientale, le ragioni dello sviluppo sostenibile come programmazione economica e politica – che significa Agenda 2030 e Green Deal – sono soprattutto di altro genere.

Le ragioni più profonde della transizione ecologica

Sin dai tempi di Joseph Schumpeter, sappiamo che il capitalismo funziona per cicli economici. Quando la sua potenza espansiva viene meno, il sistema si ripensa e si riorganizza. È quello che è successo dopo la crisi del 2008, nel momento in cui le spinte dell’off-shoring e dell’economia globale si sono affievolite.

È in quel frangente che i grandi magnati del capitale hanno avviato una profonda trasformazione economica, politica e culturale: il digitale, i social media, l’intelligenza artificiale e l’energia pulita sono i driver di questa metamorfosi, che incide anche sulle relazioni tra gli Stati sovrani.

È su questi presupposti che le élite economiche internazionali hanno rivisto la narrazione con cui si presentano a consumatori e mercati. Non più la fine della storia – che, nel corso degli anni, ha sospinto il mercato globale – bensì la sostenibilità: come direbbe Jacques Lacan, la transizione ecologica è il nuovo discorso della legittimazione capitalistica.

Perché questa nuova narrazione? Perché il grande capitale iniziava, in modo significativo, ad abbandonare l’economia dell’oil and gas – che significa la vecchia industria – e a investire sull’economia dell’energia rinnovabile e del digitale – che significa industria 4.0 (o 5.0 che dir si voglia), green economy, nuove fonti energetiche, nuovi approvvigionamenti di materie prime, nuovi prodotti e nuovi mercati.

Oggi, mentre Usa e Cina si sfidano per i commerci e per la supremazia cognitiva, gli scenari energetici previsti dalle istituzioni più autorevoli – Agenzia internazionale dell’energia (Iea), BloombergNEF, Shell, BP e IRENA – delineano la contrazione della domanda di combustibili fossili e la progressiva crescita di fonti alternative. In Gran Bretagna è stata spenta l’ultima centrale a carbone.

Contrariamente a quanto afferma Donald Trump, il Green Deal – che spesso viene confuso con cultura e capitalismo woke – non è finito e non finirà: il grande capitale (europeo, cinese e, anche, americano) ha adottato questa proiezione e questo codice linguistico.

Tutto questo non solo cambia il mondo e i rapporti tra gli Stati, ma – per funzionare – ha bisogno che si ri-orienti la domanda, il consumo. La forte iniezione di protezionismo è solo l’ultimo colpo al mercato globale, la tendenza delle economie avanzate a ridefinire le loro rotte commerciali e a puntare sulla domanda interna – anche questo è Green Deal – ha radici lontane.

La crisi del mercato globale e il nuovo modello di sviluppo

Con la voragine che la crisi finanziaria apriva nel 2008, negli Usa il debito privato veniva nazionalizzato e il rapporto debito/Pil – anche per effetto delle misure di salvataggio attivate dal governo federale – saliva dal 65% al 90% nel 2010 e al 100% nel 2012. Oggi è oltre il 120%. Il riequilibrio delle finanze americane è la principale missione di Donald Trump.

Il 23 ottobre 2008, il già presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, intervenendo al Congresso, pronunciava parole destinate a diventare celebri: «Ho commesso un errore nel presumere che gli interessi di alcune organizzazioni, in particolare le banche, fossero tali da renderle capaci di proteggere al meglio i propri azionisti e il proprio capitale all’interno delle imprese. Questo moderno paradigma di gestione del rischio ha dominato per decenni. E l’intero edificio intellettuale è crollato nell’estate dello scorso anno. Ho sbagliato a credere che il mercato si potesse riequilibrare da solo».

In un istante, gli americani si sono resi conto che, nei dieci anni precedenti il default, la loro economia era cresciuta a debito. Del resto, come fa un sistema economico a crescere in modo regolare e produttivo se gli interessi della grande finanza e gli investimenti vengono proiettati al di fuori di esso (nel caso di specie in Cina)?

Con l’inizio della seconda globalizzazione (2008-2020), in un primo momento gli Usa hanno gestito l’emergenza sociale (2008-2012); in un secondo momento (dal 2012), hanno rilanciato l’economia puntando su manovre espansive e sul back-reshoring delle produzioni: Barack Obama è il presidente che avvia il processo di recupero delle produzioni precedentemente delocalizzate, processo che viene poi fortemente incentivato da Donald Trump nel suo primo mandato (2017-2020).

La globalizzazione cambiava quindi verso: non più off-shoring (delocalizzazione produttiva) ma back-reshoring (rilocalizzazione in patria di attività produttive precedentemente delocalizzate), con i mercati che hanno iniziato a riconfigurarsi attorno alle grandi piattaforme industriali (Usa, Cina, Europa), anche per effetto dei dazi di Trump (2017) e del suo programma America First. Più recentemente, con l’Agenda Investing in America di Joe Biden (2022), gli Stati uniti hanno deciso e programmato di tornare a essere l’epicentro industriale e tecnologico del mondo, obiettivo che caratterizzerà l’intero secondo mandato di Donald Trump.

Il back-reshoring corrisponde, sul piano politico, a un’America che ha iniziato a riformare la sua leadership mondiale, fattore che ha lasciato spazio all’espansione in particolare di Cina e Russia. Tutto ciò ha significato inevitabilmente crisi del processo di globalizzazione, deflagrata definitivamente con i due grandi shock ravvicinati della pandemia (2020) e della guerra in Ucraina (2022). Il grande politico e diplomatico americano Henry Kissinger diceva che «la globalizzazione altro non è che un nome diverso da dare al potere degli Stati uniti nel mondo». Proprio perché Kissinger aveva ragione, quando gli Usa cambiavano atteggiamento nei confronti del mondo, questo ha spinto tutte le economie avanzate alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo. Dentro la più grande crisi economica della loro storia, gli Usa (già con Obama) non solo rivedevano la politica dell’import che li ha resi egemoni, ma con Trump nel 2017 hanno avviato una fase neoprotezionista dell’economia, fase che conosce una radicalizzazione con il suo secondo mandato.

È in questa stagione che l’Europa ha progettato quella che ancora oggi è la sua risposta alla riorganizzazione dell’economia globale: il Green Deal. Si tratta di una programmazione elaborata da Jean-Claude Juncker insieme al grande capitale europeo – prevalentemente tedesco ma anche francese – e presentato nel 2019 da Ursula von der Leyen al Parlamento, programma che è il cuore della cosiddetta transizione ecologica e che l’Europa, proprio all’inizio del secondo mandato di von der Leyen (2024), ha ribadito come orizzonte della sua azione politica. Allo stesso tempo, anche a Pechino lavorano per la “prosperità comune”, programma con cui la Cina intende rendere partecipe l’intera popolazione della crescita economica che a oggi ne riguarda soltanto una parte, quella delle regioni di Pechino e Shanghai (circa 400 milioni di persone su 1,4 miliardi): il Governo cinese, da qualche anno, sta adottando misure per rafforzare il consumo interno, promuovere lo sviluppo rurale, migliorare i servizi pubblici, aumentare salari e reddito delle classi medie e basse. Questo approccio è visto come un modo per sostenere la crescita economica nel lungo periodo, affrontando le disuguaglianze sociali e riducendo la dipendenza dalle esportazioni.

A ogni modo, questa nuova attenzione alla domanda interna e alla dimensione regionalista ha trovato le sue origini nell’affievolirsi dell’off-shoring e nella crisi del mercato globale. Il rallentamento del commercio mondiale è in gran parte dovuto al venir meno delle condizioni strutturali che hanno favorito l’esplosione degli scambi internazionali negli anni della globalizzazione. Questa flessione è stata causata dalla contrazione della domanda da parte dei Paesi emergenti e ha imposto a tutti i sistemi economici di tornare a fare affidamento più che in passato sul mercato domestico. 

La crisi dei rapporti, in particolare tra Usa e Cina, quella del commercio mondiale e l’accorciamento delle catene del valore rendono oggi sempre meno multilaterali le relazioni internazionali a favore di una regionalizzazione degli scambi. Tuttavia, il regionalismo non è una scoperta recente, pensiamo al mercato nordamericano o al mercato comune europeo per esempio.

L’altro fattore di rottura del palinsesto multilaterale è naturalmente la crisi ucraina. Con la guerra in Ucraina – e con la crescente contrapposizione tra Est e Ovest – anche il grande capitalismo d’Occidente si è convinto del crollo del mercato globale e della necessità di impiegare diversamente la sua capacità finanziaria, non più all over the world ma su scala macroregionale. In realtà questa è una discussione che, sebbene origini più o meno col primo mandato di Trump, è esplosa successivamente con l’arrivo del Covid-19 in Europa e negli Usa. 

Solo più recentemente, tuttavia, il mondo della finanza si è arreso alla realtà del decoupling, ovvero al disaccoppiamento delle catene del valore che, inevitabilmente, porta al contrasto tra la filiera produttiva occidentale e quella asiatica; che è, anche, il contrasto tra democrazie liberali e autocrazie. 

Non è solo una questione economica, è sempre più una questione che riguarda tecnologia e sicurezza. Molti sono oggi gli investitori che si sono ricreduti: fino a ieri sostenevano che, dopo il Covid, non stesse cambiando nulla; a detta loro, le economie proseguivano nella loro interdipendenza che non è soltanto tecnologica e industriale, ma anche finanziaria.

Se, dunque, persino Larry Fink – fondatore di Black Rock, la più grande società di investimenti al mondo – scrive ai suoi azionisti che «la guerra in Ucraina segna un punto di svolta dell’ordine mondiale, delle tendenze macroeconomiche e dei mercati dei capitali» (aprile 2022), significa che la globalizzazione è davvero arrivata a un turnaround decisivo.

Lo sforzo dell’Europa per la transizione ecologica ed energetica e per la carbon neutrality ha questa origine: il mercato più importante del mondo, ovvero, vuole crescere la sua domanda interna e sta riducendo la sua dipendenza dai combustibili fossili che è, anche, una dipendenza da altre regioni. A ogni modo, tutte le economie avanzate viaggiano verso l’energia pulita, i più grandi investimenti nel mondo oggi non riguardano più l’oil and gas.

Che ne sarà di quei Paesi i cui sistemi economici dipendono dall’esportazione dei fossili? La Russia è tra i principali esportatori di commodities. E proprio l’Europa, insieme agli Usa, è stata a lungo il suo mercato più importante. Attorno ai fossili e alle materie prime più in generale – i minerali, le terre rare, il litio, il cobalto, etc. – si stanno ridisegnando gli equilibri del mondo, anche in modo violento, come dimostrano le guerre in Ucraina e in Medio Oriente. 

In sintesi: è finito il ciclo economico della globalizzazione basato sull’offerta, sull’espansione della produzione e sull’export. Tutte le economie avanzate lavorano per consolidare la domanda interna – per la cui crescita occorrono più investimenti pubblici e privati – e per raggiungere l’autonomia industriale ed energetica, anche attraverso nuove materie prime strategiche e nuove fonti di energia rinnovabile. Le nuove politiche neoprotezionistiche e di rilocalizzazione produttiva alimentano la morfologia del nuovo mercato, sempre meno globale e sempre più regionalizzato, aspetto accelerato dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. 

Questo nuovo modello di sviluppo contribuisce a ridisegnare anche le relazioni internazionali.

La domanda interna e il potere d’acquisto

Già durante il suo primo mandato Trump aveva introdotto dei dazi pesanti poi rilanciati anche da Biden. La stessa Cina, con il programma della “prosperità comune” intende migliorare il livello di vita della popolazione dell’entroterra, così da poter consolidare il suo mercato domestico.

Ecco a cosa serve, in ultima istanza, quello che Jacques Lacan chiama “discorso”. Perché la giovane Greta Thunberg nel 2019 arriva addirittura a partecipare e a intervenire (con un’arringa!) in sede di Nazioni Unite (New York, 23 settembre)? Chi la conduce alle Nazioni Unite? È ingenuo pensare che ci sia arrivata da sola.

Il fenomeno Greta è, in sintesi, un alleato (inconsapevole) del grande capitale. Greta, attraverso la TV e i mass media di ogni genere, è entrata nelle case di tutti noi e ci ha raggiunto sui nostri telefonini. La sua ascesa naturalmente da qualcuno è stata agevolata. Questo qualcuno è Angela Merkel, che aveva capito tutto della trasformazione dell’economia e del sistema capitalistico.

Il capitalismo, come dice Luc Boltanski, si trasforma, abbandonando il discorso precedente e costruendone uno nuovo, inglobando le sue critiche e indebolendo così i suoi oppositori. In questo modo, conserva e rigenera il suo potere. Oggi il grande capitalismo è ambientalista. E l’ecologismo radicale non esiste più.

Greta all’Onu è stato un grande spot della Transizione verde: in questo modo il grande capitale – che, ancora una volta, ha trovato il potere politico disponibile a favorirne gli interessi – avvicina il consumo al suo nuovo prodotto.

Tuttavia, se la domanda interna è l’obiettivo principale della Ue come di ogni economia avanzata, il prodotto locale costa di più di quello che importiamo, in particolare dall’Asia. La transizione ecologica, in buona sostanza, non è “gratis”. Del resto, in quest’ottica, la Ue ha mobilitato parecchie risorse per l’innovazione tecnologica – digitale ed energetica – delle sue filiere produttive: l’operazione ha un senso se, alla fine, il mercato premierà il prodotto locale. Anche per questo, il primo obiettivo del Green Deal è il consolidamento del mercato locale.

Questi traguardi possono essere raggiunti se l’economia torna a girare, se crescono in particolare il potere d’acquisto e i livelli occupazionali: solo questo può sostenere lo sviluppo e la riconversione delle filiere produttive e la crescita della domanda interna.

In particolare, la questione salariale italiana – per quanto nota da tempo negli ambienti del lavoro e degli studi – è emersa con forza a livello di opinione pubblica quando, a giugno 2022, l’Ocse ha diffuso una rilevazione comparata dalla quale risulta che, negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi hanno avuto un andamento negativo: sono infatti diminuiti del 2,9%. Più recentemente, Ilo ha confermato questa spirale negativa dei salari italiani, rilevando come rispetto al 2008 siano inferiori dell’8,7% (risultato peggiore del G20). Nel 1990 la retribuzione reale italiana era superiore di quasi 5 punti alla media Ocse e sopra quelle di Spagna, Francia e Regno Unito; nel 2020 l’Italia non solo viene superata da Spagna, Francia e Regno Unito, ma anche da Slovenia, Israele e Irlanda, perdendo 12 posizioni. Il potere d’acquisto dei lavoratori è aumentato in media del 18,4% nell’area Ocse e del 22,6% nell’Eurozona. Il confronto con le altre economie avanzate, come la nostra, è impietoso: in particolare, in Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%; se poi guardiamo anche ad altri Paesi europei, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. Per quanto riguarda gli Stati scandinavi, questi registrano il +63% della Svezia, il +39% della Danimarca e il +32% della Finlandia.

Qualche mese dopo la diffusione della rilevazione Ocse, il consueto rapporto annuale del The European House Ambrosetti (riferito all’anno 2019) rilevava che la quota dei costi di produzione delle imprese italiane destinata ai salari e al lavoro dipendente è del 18,6%, valore inferiore del 6,3% rispetto alle imprese spagnole, del 7,1% alle imprese tedesche e dell’8,2% rispetto a quelle francesi. Tutto questo, in una situazione di profitti in crescita: in Italia superiori dello 0,5% alla media europea, del 1,1% rispetto alla Spagna, del 3,2% rispetto alla Germania e del 7,8% rispetto alla Francia.

Oltre agli aspetti importanti in materia di giustizia sociale, ci interessa qui evidenziare che, in una fase in cui il consumo torna centrale per il rilancio della domanda, o si fa leva sul potere d’acquisto o non si rilancia nulla. In sintesi, la crescita dei salari è indispensabile per il buon esito della Transizione.

Riferimenti bibliografici

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  • Parsi Vittorio Emanuele (2022), Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, Bologna, il Mulino.
  • Pelanda Carlo (2021), La riparazione del capitalismo democratico, Soveria Mannelli, Rubbettino.
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Tooze Adam (2018), Lo schianto. 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Milano, Mondadori.