I paesi Brics e il nuovo bipolarismo
Gli ultimi due anni hanno visto la definizione di un nuovo assetto delle leadership del sindacato mondiale ed europeo, con il Congresso della Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC) di Melbourne del 2022 e quello della Confederazione Europea dei Sindacati (CES) di Berlino del 2023. Rispettivamente il belga Luc Triangle, che ha sostituito l’italiano Luca Visentini all’ITUC (messo fuori gioco per le note vicende del “Qatargate” che lo avevano sfiorato) e l’irlandese Esther Lynch della CES, si trovano a doversi misurare con un contesto in rapido mutamento, con situazioni inedite e non prevedibili che stanno prendendo corpo nello scenario complessivo economico e politico, sia sul piano internazionale che continentale.
Intanto bisogna fare i conti con il contesto macroeconomico e politico, che dal 1° gennaio del 2024 vede consolidarsi una nuova sorta di “bipolarismo” sullo scenario globale con il numero dei paesi “BRICS” salito a dieci (senza contare ancora circa un’altra ventina di paesi in sala d’attesa per entrare nell’alleanza ed altri venti che hanno manifestato “interesse”). “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina) era l’acronimo coniato da Jim O’Neal, di Goldman Sacks nel 2006, che sostanzialmente descriveva 4 paesi “attraenti per investimenti”. I BRIC diventeranno nel 2010 BRICS con l’aggiunta del Sud Africa. Va sottolineato che in quegli anni avevamo ancora il G8, nato quando si sperava di coinvolgere definitivamente nel sistema del “consenso di Washington” (liberalizzazione di scambi, iniziativa privata, sempre minore ruolo dello Stato nell’economia etc) anche l’ex Unione Sovietica, esaltando l’antica visione di Mihail Gorbacev che sognava di trasformare addirittura la NATO in “una comunità di pace e di cooperazione da Lisbona a Vladivostok”, speranza poi svanita del tutto con l’avvento di Vladimir Putin al controllo totale del governo della Federazione Russa. Nel 2014 il G8 infatti si dissolve: i paesi G7 si autoconvocano a Bruxelles ed escludono la Russia a causa dell’intervento armato in Crimea, inizio del conflitto poi esploso definitivamente nel 2022. Da quel momento il gruppo BRICS si proporrà lentamente ma sostanzialmente sullo scenario economico e commerciale internazionale come vera e propria alternativa del G7, che possiamo identificare tout court con l’”occidente”. La fase che si apre nel 2024, con l’aumento e il consolidamento dei paesi (oggi “BRICS +”) di fatto segna uno spartiacque importante: la fine del modello scaturito dagli Accordi di Bretton Woods del 1943 che avevano generato con la creazione del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (anche se quest’ultima avrà una gestazione di 50 anni prima di vedere la luce), il sistema di “governance” mondiale espresso dai paesi che si ritrovano nel G7: Usa, Canada, Giappone, Regno Unito, Francia, Germania ed Italia.
Qualche dato per evidenziare gli elementi di questo nuovo “bipolarismo” e l’importanza crescente dei paesi BRICS+. Intanto, prima ancora di inglobare i paesi in attesa di entrare nell’alleanza, dal 1 gennaio 2024 i nuovi ingressi di Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi uniti (l’Argentina con l’elezione di Milei ha fatto un passo indietro, mentre l’Arabia Saudita per il momento non ha ancora fatto l’adesione “formale”), portano i paesi BRICS+ a rappresentare il 36% del PIL mondiale, nonché il 45 % della popolazione del pianeta. Questi paesi producono di fatto il 43% del petrolio estratto nel mondo (fino al 2023 era il 20%) ed il 40% del grano. Per avere un termine di paragone basti dire che i paesi del G7 rappresentano circa il 30,3% del PIL globale e meno del 10% della popolazione del pianeta.
Fin dalla prima aggregazione dei 5 paesi (che ruotano comunque intorno alla Cina che detiene il 70% del PIL dei BRICS), era stata costituita anche una Banca, la New Development Bank, molto evocativo e suggestivo anche il nome dell’Istituto, che se fino a pochi anni orsono presentava il limite di essere dipendente nel complesso meccanismo finanziario mondiale dalla World Bank, che ne controllava il 30%, oggi si propone con maggiore autonomia come fulcro del sistema di produzione e commercio dei BRICS+ e sostanzialmente con ambizioni di alternativa alla Banca Mondiale. E infine la moneta. Non è peregrina nel dibattito dei paesi BRICS+ l’idea di utilizzare una nuova moneta, alternativa al dollaro nordamericano e all’euro, nello scacchiere del commercio mondiale. La moneta avrebbe già un possibile nome: “R5”, dovuto al fatto che il nome delle monete dei 5 paesi Brics inizia sempre con la R (Real brasiliano, Rublo russo, Rupia indiana, Renminbi cinese e Rand sudafricano).
Nonostante i significativi successi economici e politici, i BRICS+ presentano alcune problematicità e si trovano davanti ad alcune sfide importanti. Intanto c’è una evidente diversità fra i paesi, che non sono un blocco monolitico. I loro membri hanno interessi nazionali divergenti e talvolta contraddittori, ne è una dimostrazione la rivalità tra India e Cina, tensione latente all’interno del gruppo. C’è poi il problema della dipendenza di alcuni paesi, come Brasile, Russia e Sudafrica, dalle esportazioni di materie prime: le fluttuazioni dei prezzi globali delle risorse naturali possono avere un impatto significativo sulle loro economie. In particolare Brasile e Russia hanno infine sofferto un rallentamento della crescita economica a causa di problemi interni, come la corruzione e la cattiva gestione economica manifestatesi soprattutto durante la presidenza Bolsonaro in Brasile e, per quanto riguarda la Russia, per le sanzioni internazionali stabilite nei confronti del paese dopo l’intervento armato in Ucraina.
Unione Europea e BRICS+
E l’Unione Europea, che ci interessa ovviamente in modo particolare, che ruolo può avere in questo contesto in vorticoso mutamento? I BRICS+ sono ormai dei competitor economici significativi per l’UE, soprattutto in settori chiave come l’industria manifatturiera, l’energia e le tecnologie emergenti. Le economie del nuovo gruppo di paesi offrono alternative economiche alle imprese europee e attraggono investimenti esteri grazie ai costi del lavoro più bassi. In particolare Cina e India, che hanno costi del lavoro significativamente inferiori rispetto alla maggior parte dei paesi europei, appaiono più convenienti per ospitare la produzione delle multinazionali, riducendo la competitività dei settori manifatturieri europei. C’è poi l’espansione dei mercati: i BRICS+ rappresentano una vasta porzione della popolazione globale e offrono enormi opportunità di mercato per beni e servizi: tuttavia, molte aziende europee trovano difficoltà ad accedere a questi mercati a causa delle politiche commerciali protezionistiche o delle pratiche di concorrenza sleale, come i sussidi statali alle imprese nazionali elargiti come è noto soprattutto dal governo della Cina. Con la New Development Bank i BRICS+ stanno finanziando grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sia al loro interno sia in altre economie emergenti. Questo riduce l’influenza economica dell’UE in molte regioni, specialmente in Africa e Asia, dove tradizionalmente l’Europa ha avuto un ruolo di primo piano. Occorre aggiungere che l’Unione Europea è fortemente dipendente dalle importazioni di energia e materie prime, molte delle quali provengono dai paesi BRICS+, in particolare da Russia e Brasile. La Russia è uno dei principali fornitori di gas naturale e petrolio per molti paesi europei. Le tensioni geopolitiche, in particolare a seguito della guerra in Ucraina e delle sanzioni economiche, hanno messo in evidenza la vulnerabilità dell’UE alla dipendenza dalle risorse energetiche russe. L’Europa ha cercato di diversificare le proprie fonti energetiche, ma la transizione verso le energie rinnovabili è ancora in corso e le alternative disponibili sono limitate. D’altra parte il Brasile è un grande esportatore di materie prime agricole e minerarie, come soia e minerale di ferro. La crescente domanda globale, soprattutto dalla Cina, ha portato a una competizione per queste risorse, aumentando i prezzi e rendendo più difficile per l’Unione Europea assicurarsi forniture stabili. Le sanzioni imposte dalla UE alla Russia dopo l’annessione della Crimea e la guerra in Ucraina, hanno complicato le relazioni con uno dei principali membri dei BRICS+. Le tensioni che ne sono scaturite non solo hanno avuto un impatto sulle relazioni commerciali e sull’approvvigionamento energetico, ma hanno anche alimentato un crescente distacco tra l’UE e la Cina, che sostiene posizioni meno critiche nei confronti di Mosca. Sul fronte del cambiamento climatico, l’Unione Europea è impegnata in politiche ambiziose per promuovere lo sviluppo sostenibile, come il Green Deal Europeo. I BRICS+ d’altro canto, pur partecipando agli accordi internazionali sul clima, hanno un approccio meno rigoroso su molte questioni ambientali, a causa delle loro priorità di crescita economica. Cina e India sono infatti tra i maggiori paesi che emettono gas serra al mondo. Mentre l’UE ha adottato obiettivi ambiziosi di “decarbonizzazione”, molti paesi BRICS+ continuano a fare affidamento su quella fonte energetica tradizionale. Questo rende difficile raggiungere accordi globali efficaci sul cambiamento climatico e crea una disomogeneità nelle misure ambientali a livello globale. Inoltre i BRICS+ sostengono che le economie sviluppate, inclusa l’UE, dovrebbero assumersi una maggiore responsabilità nella lotta al cambiamento climatico, dato il loro contributo storico all’inquinamento. Ciò ha creato tensioni nei negoziati internazionali, perché i BRICS+ richiedono finanziamenti e trasferimenti tecnologici per poter implementare politiche ambientali efficaci senza compromettere il loro sviluppo economico. Cina e India stanno aumentando la loro influenza in Africa e Asia attraverso investimenti e partenariati economici. La Cina ha lanciato la sua Iniziativa Belt and Road (BRI), che mira a creare una vasta rete commerciale e infrastrutturale collegando Asia, Europa e Africa. Tutto ciò espande l’influenza economica e politica dei BRICS+ in regioni che sono state tradizionalmente partner dell’UE.
In definitiva almeno in principio i BRICS+ promuovono un modello di governance globale multipolare, cercando di ridurre il dominio occidentale nelle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Questo sforzo è in contrasto con gli interessi dell’UE, che è stata uno dei principali attori nel mantenimento dell’ordine economico e politico globale basato su regole “occidentali”. E infine proprio il concetto di “occidente” andrà declinato in modi sempre più sfumati e diversi con l’elezione di Donald Trump negli USA: una maggiore attenzione agli interessi “interni” nordamericani (ma se fosse stata eletta Kamala Harris questo aspetto non sarebbe stato meno marcato, vista la necessità di rispondere ad assodate aspettative dell’opinione pubblica statunitense) lascia l’Europa più sola ad affrontare il proprio destino, la propria difesa e la definizione di un ruolo più specifico nello scacchiere del commercio internazionale.
Un ruolo decisivo, in questo nuovo scenario, può averlo senza dubbio il G20, vera piattaforma di possibile “governance” mondiale (è arcinota la debolezza cronica dell’ONU, bloccata dal diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza) dove ci sono tutti, sia i paesi del G7 sia i BRICS, una piattaforma dove c’é vera dialettica politica, che merita la massima attenzione come luogo di ricaduta di tutte le tensioni internazionali ma anche luogo di possibile ricerca di soluzione di ogni controversia (non sfugge a nessuno che negli ultimi tre anni, da quando è cominciata la guerra tra Russia ed Ucraina, si sono comunque incontrati a latere di tutte le riunioni istituzionali del G20 il Segretario di Stato Usa Blinken ed il Ministro degli esteri russo Lavrov, nell’unico spazio “internazionale” per incontri non solo bilaterali alla ricerca di ipotesi di negoziazione complessiva per risolvere i conflitti in corso).
Questa la fotografia generale della situazione mondiale, caratterizzata tra l’altro dalle transizioni “energetiche”, climatiche, digitali e demografiche, dal protagonismo economico della Cina in tutti i mercati mondiali (a cominciare da un controllo pressoché totale del continente africano) e da forte tensione a causa dei conflitti armati in corso, che non sono mai finiti dalla seconda guerra mondiale in avanti, ma stanno tornando a superare una soglia allarmante a causa del coinvolgimento “diretto” delle superpotenze.
Sfide per il sindacato internazionale
I BRICS+ pongono una sfida complessa al movimento sindacale internazionale a causa della natura diversificata delle loro economie e delle differenze nei sistemi politici e lavorativi. In questi paesi la crescita economica è stata spesso accompagnata da politiche di deregolamentazione del lavoro, limitando i diritti dei lavoratori. In particolare, in Cina e India, la legislazione sul lavoro è relativamente debole o mal applicata e vi è una forte enfasi sulla flessibilità del mercato del lavoro per attrarre investimenti esteri. Questo si traduce in lavoro precario e non regolamentato in situazioni caratterizzate da controllo statale e repressione. Tuttavia, i sindacati affiliati all’ITUC hanno un ruolo cruciale nel costruire solidarietà transnazionale, tentare di promuovere standard minimi globali e sviluppare nuove strategie per organizzare i lavoratori, in particolare quelli del settore informale. Attraverso un coordinamento globale e un approccio proattivo il movimento sindacale può rispondere efficacemente alle sfide poste dai paesi BRICS+, battendosi dappertutto per garantire migliori condizioni di lavoro e giustizia economica.
I sindacati dei Paesi BRICS+ si stanno organizzando nel Forum Sindacale BRICS, che obbliga alcuni sindacati importanti affiliati all’ITUC, come la CUT Brasile, a collaborare con il Sindacato cinese, che non brilla certo per autonomia e indipendenza rispetto al proprio Governo e, in questa fase complessa sul piano internazionale, con la Confederazione sindacale russa FNPR, la cui affiliazione all’ITUC è stata sospesa a causa del sostegno che l’organizzazione ha manifestato al governo e al Presidente Putin nel conflitto scatenato contro l’Ucraina.
Va evidenziato come l’ITUC abbia tra i propri affiliati contemporaneamente sindacati dei paesi G7 e G20 e può assumere un ruolo straordinario di mediazione diplomatica internazionale nel confronto politico globale. Può farlo soprattutto perché il Sindacato appartiene alla storia del movimento della non-violenza, con il gesto antico dell’incrociare le braccia come massima istanza conflittuale, grazie al suo “dna” che è tutto incentrato sulla “negoziazione”, sulla “trattativa”, per cui negli attuali scenari di guerra può giocare la sua identità e la sua capacità di interlocuzione come un credibile “attore di pace”. Nella regione europea l’Ituc affilia quasi tutte le Confederazioni sindacali dei paesi in qualche modo “toccati” dalla crisi scaturita dall’intervento armato russo in Ucraina. Entrambe le Confederazioni sindacali dell’Ucraina fanno parte della famiglia della Confederazione internazionale dei Sindacati: in questo momento sono preoccupate per la difesa della vita e della sovranità nazionale, ma anche impegnate a tutelare i diritti dei lavoratori limitati dal Governo Ucraino a causa del conflitto del paese. Quasi tutta la dirigenza della Confederazione sindacale della Bielorussia BKDP è agli arresti per decisione del governo autoritario di Lukashenko, In Russia l’affiliazione della FNPR è sospesa per le posizioni assunte dalla Confederazione a sostegno di Putin, ma c’è una seconda più piccola Confederazione (KTR) che mantiene pur con grandi difficoltà un atteggiamento autonomo nei confronti del Governo e distanza dalle ragioni del conflitto armato. Nella regione mediorientale, pur di fronte ad un atteggiamento di radicalizzazione dei sindacati della regione araba a sostegno della Palestina, l’ITUC mantiene la barra dritta, coinvolgendo sempre, in tutte le decisioni del proprio Consiglio generale, la Confederazione sindacale palestinese PGFTU e la Confederazione sindacale israeliana Histadrut, entrambe affiliate storicamente alla centrale sindacale mondiale, nel solco della strategia che vede nelle ragioni del lavoro e nella prospettive dei “due popoli due Stati” la costruzione di un possibile orizzonte di pace.