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Il clima che cambia e il dissesto del territorio saranno ulteriori fattori di trasferimento delle popolazioni nelle città: siccità, alluvioni, carestie etc. non faranno che ingrossare le fila di disperati che cercheranno di sopravvivere nell’unico posto che, per densità ed opportunità, potrà permettere loro qualche prospettiva di futuro migliore, per sè e la propria famiglia.

Stante questa premessa il destino dell’urbanizzazione e della crescita e diffusione delle città appare inesorabile, peraltro confermato da autorevoli studi che prevedono che entro 50/70 anni l’ottanta per cento della popolazione terrestre vivrà in contesti urbani.

Il nostro modello di sviluppo sembra portare inevitabilmente verso questa soluzione: essa è già percepibile da come le città si stanno riorganizzando provando ad essere più vivibili e accoglienti, più tecnologiche, autosufficienti e in prospettiva più ecologicamente compatibili; mentre il territorio si spopola e si fa più ostile, e meno accogliente, le città si riorganizzano per il futuro.

Questa tendenza è sicuramente poco meditata, perché il grande travaso, la grande trasformazione urbanistica, non può essere vissuta con leggerezza né come un destino inesorabile, ma andrebbe meglio attenzionata, anche per comprenderne la reale fattibilità.

Un aspetto utile alla riflessione può essere quello dell’impronta ecologica, cioè il calcolo che dobbiamo a Mathis Wachernagel e William Rees[1], dell’impatto delle città, della loro crescita e diffusione sull’intero pianeta, cioè la rete che serve alle città per sopravvivere che è sempre molto vasta e va ben oltre il perimetro urbano.

Per meglio intenderci potremmo prendere a riferimento Roma e guardarla per quello che realmente è, cioè un organismo vitale, dotato di un suo metabolismo, su cui incidono ad esempio le categorie dei consumi: il cibo per il 27%, i trasporti per il 25%, beni di consumo (macchine, abiti, elettronica etc.) per il 15%, alloggio per l’8%, servizi per il 5%, le risorse necessarie alle aziende per il 14%, il settore pubblico per il 6…  La capitale per far fronte a questi consumi ha bisogno che le risorse necessarie da qualche parte nel pianeta vengano prodotte.

La città per crescere e svilupparsi consuma tantissimo, per far funzionare Roma occorrono 20 milioni di ettari, una misura enorme, ma necessaria perché una città possa sopravvivere, per capirci meglio stiamo parlando dell’intero Sud Italia più le isole, del Centro Italia e dell’Emilia Romagna, numeri incredibili, assurdi.

Nonostante tutto, esiste un limite alle dimensioni che le città possono raggiungere sulla superficie della terra che è un 2/3% della superficie abitabile del pianeta, che può sembrare poco, ma che probabilmente è al di sopra delle possibilità del pianeta di ospitarle.

Se provassimo a proiettare i numeri della sola Roma nel sistema mondo, ci direbbero che non c’è spazio sul pianeta per produrre le risorse necessarie a nutrire una maggiore superficie urbana; l’impronta ecologica contraddice la crescita e l’estensione delle città, l’approvvigionamento enorme di energia e di materiali sottratti al pianeta e trasportati in città.

Maggiore concentrazione urbana comporta più sfruttamento di risorse non riproducibili, di territorio, e popolazioni, con conseguenti crisi e conflitti territoriali, l’aumento dei fenomeni migratori; espansione e concentrazione urbana implicano l’inasprimento di una politica predatoria nei confronti delle limitate risorse del pianeta.

Solo se prendessimo ad esempio l’approvvigionamento alimentare vedremmo che il 50% delle aree sono a disposizione dell’agricoltura (cinque volte gli USA) e si pensa che questa scelta non sia reversibile: questa è la terra che è si deciso che serve, non c’è molto che si possa fare.

Il 77% di questa terra è per l’allevamento di bestiame, e solo il 23% è produzione vegetale, un’evidente gestione impropria, soprattutto se si pensa che il 77% degli allevamenti servono a produrre il 18% delle calorie destinate al genere umano un sistema di sviluppo a dir poco assurdo.

Il tumultuoso sviluppo legato al moderno modello di produzione industriale e la crescita (3 mld) del ceto medio che ha aumentato il consumo di carne e altre materie prime, dal 1700 a oggi ha distrutto 1.800 miliardi di ettari di foreste (due volte gli USA) riducendo lo spazio planetario delle stesse ad un misero 37% della superficie abitabile: una distruzione a vantaggio delle superfici agricole di cui non abbiamo bisogno.

Di fronte a queste riflessioni, pianeta e città diffusa, di cui tanto si dibatte come soluzione possibile alla questione dell’abitare, sembrano essere fantasie irrealizzabili, per alcuni semplici motivi: la limitatezza delle risorse planetarie e il metabolismo delle città.

Una considerazione questa, già presente in alcune analisi di Marx su urbanizzazione, produzione e sperpero, approfondite nel 1965 da Abel Wolman (“the metabolism of cities”[2]), negli aspetti riguardanti proprio il “metabolismo sociale”, un concetto utile per misurare individuo e società.

Si tratta di uno strumento efficace per comprendere da una prospettiva ambientale, quindi più corretta, quanto spazio rimanga ancora sul pianeta per un’ulteriore crescita, delle città e dei loro consumi.

Ad Herbert Girardet[3] dobbiamo l’interessante distinzione tra metabolismo circolare e lineare. Quello circolare è un mondo naturale, i rifiuti di un organismo sono il sostentamento di un altro, mentre quello lineare che equivale al mondo urbano, le risorse entrano e si sprecano.

Le città crescono e si diffondono seguendo e amplificando il metabolismo lineare che segue la logica dell’aumento di consumi e di spreco.

Se si considera che il metabolismo biologico dell’uomo è molto limitato, ed è dunque quello sociale che permette alla città di affermarsi, riprodursi, e ampliarsi, il che è evidentemente sproporzionato.

Troppo semplicistico è il dibattito sull’abitare e soprattutto sulla trasformazione urbanistica con il travaso di popolazione dal territorio verso le città, che saranno certamente smart, ma non sembrano tenere abbastanza in considerazione l’impatto (l’impronta ecologica) sul ciclo della vita umana e di tutti i viventi sul pianeta; una sottovalutazione che ci parla di sopravvivenza e di estinzione.

Proprio per questo i ritardi e i ripensamenti sulla realizzazione del green deal e del progetto Onu per la riduzione dei gas serra, i tentativi di bloccarne il processo in alcuni ambiti produttivi molto impattanti, possono determinare un passo indietro pericoloso, un’ennesima scelta, sbagliata.


[1] M. Wachernagel, W. Rees, L’impronta ecologica.  Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Ed. Ambiente, Milano, 1996.

[2] A. Wolman, The Metabolism of Cities, Scientific American, Volume 213, Pages 179–190

[3] H. Girardet, The Gaia Atlas of Cities: New Directions for Sustainable Urban Living, Paperback, Londra, 1993