1. Il contesto in cui, mentre maturavano la Dichiarazione universale e la Costituzione italiana, nacque la Cisl
Siamo in un tempo in cui l’invocazione della Costituzione a presidio delle più disparate tesi e opinioni (semmai rafforzate da qualche pregiudiziale ideologica) rischia di diventare un mero esercizio retorico privo di ogni sostanza etica, giuridica, politica. Non è possibile ridurre le norme costituzionali ad un elenco retorico di diritti auspicabili e buoni per tutte le stagioni, privi di una prospettica storica ed ideale. La Costituzione è anche e forse soprattutto – Capograssi lo dichiarò per tempo – delineazione di regole necessarie ad assicurare che lo Stato costituzionale sia Stato democratico e sociale, capace di riconoscere l’eguaglianza come proprio fondamento, e dunque anche la perfetta circolarità e consustanzialità di diritti e di doveri.[1] Le libertà positive, assai più che quelle meramente difensive ed individualistiche (formali) della prima stagione della democrazia, devono potersi fondare su una morale condivisa che salvi dalle maggioranze e dalle avventure transeunte. Certo il diritto inteso come limite è l’anima stessa delle Carte costituzionali, nate come usbergo e garanzia di libertà per i cittadini, la prima trincea originaria delle libertà di fronte allo strapotere di principi e monarchi (e nobili loro cortigiani), chiamate dunque a proclamare e fissare i limiti del potere stesso, ed in specie quello democratico.
Il diritto viene svelato come limite che il potere pone a sé stesso attraverso le regole fondamentali, riconoscendo diritti che reclamano doveri. Nasce qui l’idea, coltivata dalla tradizione del cattolicesimo sociale, dell’anteriorità della persona e delle formazioni che essa crea e nelle quale si riconosce rispetto allo Stato, in contrapposizione all’idea giacobina (ereditata da tutte le concezioni totalitarie di destra e di sinistra) affermatasi nel Novecento, che lo Stato crei diritti. La nostra Costituzione impone invece che lo Stato li riconosca, non li crei. Il pluralismo sociale nasce da questo fondamentale assunto.[2] La Costituzione italiana proclama infatti che la Repubblica riconosce le formazioni sociali ed i loro diritti che precedono l’organizzazione statalistica.
Il 22 dicembre 1947 il Presidente della “Commissione dei 75”, Meuccio Ruini, intervenne in Assemblea per definire la novità che lo Spirito della Costituente incarnava: «Questa Carta che stiamo per darci è, essa stessa, un inno di speranza e di fede. Infondato è ogni timore che sarà facilmente divelta, sommersa e che sparirà presto. No; abbiamo la certezza che durerà a lungo, e forse non finirà mai, ma si verrà completando e adattando alle esigenze dell’esperienza storica. Pur dando alla nostra Costituzione un carattere rigido, come chiede la tutela delle libertà democratiche, abbiamo consentito un processo di revisione, che richiede meditata riflessione, ma che non la cristallizza in una statica immobilità. Vi è modo di modificare e correggere con sufficiente libertà di movimento».[3]
La Carta, nelle parole di Ruini che interpretava il sentimento generale dei padri Costituenti, aveva caratteri di stabilità che ne avrebbero consentito una modificazione graduale solo attraverso una revisione che avesse gli istessi elementi di generale condivisione (attraverso un meditata riflessione) che caratterizzarono la nascita di quell’inno di speranza e di fede, e che ne avrebbero consentito la capacità di accogliere le novità che le condizioni storiche avessero richiesto, ma non l’interesse temporaneo di una qualsiasi maggioranza. La stabilità fondata sulle basi della democrazia, che un atto di rottura verso la tirannia aveva inaugurato, appariva ai costituenti l’unica garanzia che i caratteri originari di esaltazione del diritto come presidio della libertà sarebbero stati custoditi senza ritorni al passato.
Piero Calamandrei, intervenendo il 4 marzo 1947 all’Assemblea Costituente, insediata con le prime libere elezioni dell’Italia repubblicana, metteva in luce le difficoltà che l’Assemblea doveva ancora affrontare, e che non lasciavano presagire una rapida e larga convergenza di intenti: «È una specie di esame di maturità che la democrazia deve dare attraverso questa Costituzione», disse, e ricordava quanto faticoso fosse stato l’iter della formulazione del testo e della sua approvazione: «questo progetto, come voi sapete, non è nato di getto, tutto insieme; non è stato concepito in maniera armonica, unitaria. Il lavoro di questo progetto si è dovuto svolgere necessariamente nell’interno di diverse Sottocommissioni e delle sezioni di esse, e di più ristretti Comitati; in tante piccole officine, in tanti piccoli laboratori, ciascuno dei quali ha preparato uno o più pezzi di questo progetto. Questi vari pezzi sono stati portati poi al Comitato di coordinamento e lì la macchina è stata rimontata nel suo insieme, soprattutto per le intelligenti cure del Presidente Ruini».
Nonostante dunque il lavoro di raccordo operato dalla Commissione dei Settantacinque, Calamandrei ancora a marzo 1947 levava il suo grido d’allarme, riprendendo valutazioni echeggiate nell’Aula anche nel raffronto con lo Statuto albertino: «qui è tra poco un anno che lavoriamo e ancora non siamo riusciti, come appare da questa apparenza ancora confusa e grezza del progetto, a preparare qualche cosa che si avvicini per concisione a quello Statuto». Calamandrei chiariva però la novità di questa fase: «il paragone non calza; perché invece qui, in questa Assemblea, non c’è una sola volontà, ma centinaia di libere volontà, raggruppate in diecine di tendenze, le quali non sono d’accordo su quello che debba essere in molti punti il contenuto di questa nostra Carta costituzionale: sicché essere riusciti, nonostante questo, a mettere insieme, dopo otto mesi di lavoro assiduo e diligente, questo progetto, è già una grande prova, molto superiore a quella che fu data dai collaboratori di Carlo Alberto».
Ai nostri giorni viene – di frequente con leggerezza – invocato un nuovo “Spirito costituente” che dovrebbe, in omaggio ai tempi mutati, rinnovare lo storico sforzo che fu compiuto 75 anni fa dall’Assemblea Costituente del 1946. La Costituzione del 1948 fu però figlia e della rinascita della nazione, della guerra di liberazione dallo straniero e dal regime fascista suo alleato, ma anche della “disfida” sul modello di nuovo Stato, democratico, antifascista, costituzionale, che nell’art. 1 della Carta trova il fondamento ideale, culturale, identitario, sociale. Essa non può essere strumentalizzata a fini di schieramento. La Repubblica all’art. 1 è definita in democratica in quanto fondata sul lavoro.[4] Calamandrei coglieva lo spirito nuovo della Carta: «La parte positiva della nuova Costituzione, voi lo sapete, si chiama Repubblica, si chiama sovranità popolare, si chiama sistema bicamerale, si chiama autonomia regionale, si chiama Corte costituzionale», e lodando la scelta di porre a fondamento il lavoro come fondamento della Repubblica e qualificazione della democrazia, si chiede: «questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo? Mi accorgo allora che c’è un altro articolo, il 31, il quale dice che la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ma c’è anche un dovere del lavoro, e infatti il capoverso dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività: dunque diritto di lavorare ma anche dovere di lavorare»,[5] e questo dovere si costituiva con il diritto all’istruzione congiunto al dovere di acquisire competenze e conoscenze necessarie a svolgere un lavoro.
Il 1948 fu un anno fatidico per i diritti: si aprì con la promulgazione della Carta costituzionale repubblicana in Italia e si chiuse, il 10 dicembre, con l’approvazione da parte dell’Assemblea dell’Onu della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il 1948, anno sorgivo per i diritti giuridicamente tutelati, è l’anno nel quale Orwell interpretava lo stato d’animo di quella generazione scrivendo 1984. L’inversione delle due ultime cifre intendeva proiettare in un futuro non lontano l’angoscia dei totalitarismi che incombeva nonostante tutto sui destini del mondo: sconfitti nel nazismo, presenti nel nuovo panorama delineatosi nel quadro degli alleati di Yalta. A settantacinque anni di distanza si deve considerare che nel biennio tra il 1948 ed il 1950 si giocava la partita storica che avrebbe deciso se il mondo – reso edotto dai drammatici eventi culminati nella seconda guerra mondiale – avrebbe imboccato la strada della libertà e dei diritti o quella della ricaduta nell’abisso temuti e descritti in 1984.[6] Da quel momento in poi la cultura giuridica mondiale fu posta di fronte a una svolta che ne avrebbe modificato la gerarchia dei riferimenti di ogni civiltà giuridica e la stessa dottrina delle fonti.
2. Lo spirito della Costituzione e il primato morale del lavoro [7]
La Cisl compie dunque nel 2025 settantacinque anni, vissuti nel clima di una Costituzione coeva che attendeva di essere concretizzata nella società dalle forze vive che quella Carta Costituzionale erano chiamate a realizzare. Achille Grandi, Vice Presidente dell’Assemblea Costituente, mentre erano appena iniziati i lavori dell’Assemblea che configurava la nuova Costituzione ed in essa i caratteri fondativi del nuovo Stato, intervenne il 12 maggio 1946 sul giornale sindacale da lui fondato, “Politica sociale”, ponendo il lavoro e la dignità dei lavoratori al centro del dibattito costituente e della vita della democrazia che rinasceva: «Sul problema della Costituente i lavoratori, grazie alla loro solidarietà, hanno il dovere e il diritto di dire una loro particolare parola e cioè che nella carta statutaria o costituzionale i diritti del lavoro devono essere esplicitamente affermati e in particolare il diritto dei lavoratori di difendersi mediante le loro libere associazioni. Ritengo ancora che si possa raggiungere l’unanimità dei consensi sulla preminenza morale del lavoro su ogni altro fattore della produzione e sull’intervento generale del Paese». In anni come i nostri – nei quali la centralità del lavoro ed il diritto che ne garantisce la tutela vengono messi in discussione e subdolamente insidiati – resta la inestinguibile eredità del principio, pronunciato da Grandi, della preminenza morale del lavoro, che nell’art. 1 della Costituzione trovò la sua consacrazione, contenuto reale della fondazione della democrazia stessa. Solo in questo quadro ordinamentale il contratto collettivo di lavoro ha potuto esplicarsi fino ad elaborare modi di produzione del diritto e strumenti adatti a sottrarre i soggetti più deboli alla morsa, rivendicata nel processo economico, della mera convenienza dei soggetti più forti.[8]
La CISL, nata nel 1950, ebbe un ruolo decisivo nell’elaborazione delle linee costituzionali in materia di lavoro grazie alla componente cattolico-sociale e cattolico-democratica presente nell’Assemblea Costituente. Tanto le posizioni nel dibattito costituente sull’art. 39, quanto la successiva opposizione del sindacalismo cislino (affrancatosi dalla matrice confessionale e capace di vivere laicamente la ispirazione cristiana, che pur motivava molti dei suoi dirigenti e militanti) alla proposta di legge Rubinacci, nel 1951, nacquero dalla acquisita consapevolezza della necessità di rifiutare il controllo pubblico sull’organizzazione e sull’iniziativa sindacale,[9] che pur nel vecchio sindacalismo cattolico aveva trovato seguaci. Del resto la fallita applicazione della cosiddetta legge “erga omnes”, che alla fine degli anni Cinquanta avrebbe dovuto fornire una sanzione istituzionale (di natura parlamentare) agli accordi collettivi, finì per confermare che la stessa contrattazione collettiva assumeva finalmente valore di fonte giuridica dell’ordinamento al pari delle fonti legislative, istituendo uno spazio in cui l’organizzazione sindacale disciplinava i rapporti di lavoro de iure proprio.
La Costituzione pertanto – sancendo il principio che lo Stato riconosce le formazioni sociali naturali – riguarda da vicino la riaffermazione della necessità dell’esistenza delle formazioni intermedie tra individuo e società generale, giacché dal primo scaturiscono i fondamentali diritti personali che precedono la seconda, come precedono e costituiscono lo stesso Stato che il diritto pubblico scaturente dalle società naturali costituisce, riconoscendole e non creandole.[10] Il sindacato è una di queste, anzi è una società naturale la cui caratteristica è quella di costituirsi come una formazione etica in virtù dei legami volontari che si costituiscono tra i suoi membri, rendendola qualitativamente diversa dalla semplice somma dei suoi componenti, in virtù del progetto di solidarietà da ciascuno personalmente condiviso. Il progetto che dà vita al sindacato lo fa sopravvivere alla stessa volontà temporanea – nonché agli interessi parziali da cui nasce la volontà di associarsi – dei singoli componenti, indirizzandone l’azione verso l’interesse comune.[11]
Gli evidenti presupposti giuspositivistici entro i quali viene invece legittimata la richiesta – frequente in questi anni in cui si sentono voci invocanti la disintermediazione e la vanificazione dell’azione sindacale – di modifiche radicali della Costituzione portate avanti in formazioni di destra e di sinistra dello schieramento parlamentare, le quali rivelano in realtà una concezione monistica e monopolista da parte dello Stato nella produzione di norme, che non tiene conto della irriducibilità del diritto alla pura legislazione di emanazione statale, ma negando così la vitalità delle forze che costituiscono il tessuto della società democratica disegnata dalla Costituzione e la pluralità degli ordinamenti che ne scaturisce. La tendenza rivolta all’ancoraggio anche dei rapporti privatistici al quadro delineato dalla Carta costituzionale – in una cornice di democrazia pluralista – costituì invece fin dagli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione una profonda novità annunciata dalla scienza giuridica italiana più avvertita.[12]
Nell’età dell’individualismo trionfante – e dell’economicismo senza confini favorito dai processi di globalizzazione – ha senso ancora proclamare oggi che «la Repubblica democratica è fondata sul lavoro», mentre alzano i toni coloro che proclamano la necessità di «rendere meno parziale il fondamento della Carta», sostituendo alla parola “lavoro” la più neutrale espressione “libertà”? Ma la libertà – se non riceve una connotazione sociale e comunitaria – diventa prerogativa dei più forti che si prendono “ogni libertà” nei confronti dei più deboli. Il dibattito (e la proposta di legge) sulla democrazia economica, e sul valore dell’equilibrio da rintracciare tra sviluppo economico e delle aziende e contesto sociale generale, riprende con forza le istanze partecipative e di giustizia ispirate dalla Carta: la democrazia economica si propone dunque come un capitolo significativo anche per la prospettiva partecipativa della ricerca di un equilibrio tra responsabilità individuale e d’impresa da un lato ed interessi sociali dall’altro.
Della straordinaria capacità anticipatrice mostrata dal dibattito in Assemblea Costituente su temi così rilevanti è prova il confronto che proprio Calamandrei ingaggiò a proposito del valore programmatico dei diritti sociali enunciati dalla Carta costituzionale. Calamandrei coglieva la capacità progettuale che la Costituzione assegna alla democrazia in materia di diritti sociali, e precisava che essi «non sono ancora, purtroppo, norme obbligatorie, ma sono propositi che la Repubblica pone a sé stessa, per trovare in essi la guida della legislazione futura», introducendo l’avanzato confronto sviluppatosi in quella sede con un altro grande giurista come Costantino Mortati sul centrale tema del valore prescrittivo delle norme costituzionali: «Quando io feci questa proposta, mi furono fatte due obiezioni: una di carattere strettamente giuridico, dal collega ed amico Mortati, il quale mi disse che anche questa norme di carattere programmatico possono avere il loro significato giuridico, perché rappresentano impegno che il legislatore prende per l’avvenire, direttive e limiti alla legislazione futura; e quindi non si può dire che si tratti di disposizioni giuridicamente irrilevanti, perché anche esse hanno la loro efficacia giuridica».
La conclusione di Calamandrei è che occorre accettare il valore di indirizzo e di tendenza che quella norme contengono, perché dobbiamo pensare ai posteri, ai nipoti, e consacrare quei princìpi che saranno oggi soltanto velleità e desideri, ma che tra venti, trenta, cinquanta anni diventeranno leggi».[13] Se – al di là di ogni retorica svalutazione che segue una dilatazione senza limiti né discernimento, fino ai diritti degli animali, che pur non possono essere soggetti di diritti, ma solo destinatari di protezione, della retorica generica dei diritti umani – si insistesse per l’allargamento dei diritti sociali nell’ordinamento giuridico repubblicano, quel dibattito continuerebbe a mostrare il suo grande valore.
Nel quadro ideale tracciato dalla Costituzione nella storia di questa nazione “il lavoro è la persona” (la persona che si riconosce nella comunità, non il solipsistico individuo appagato di sé), con una enunciazione debitrice della lezione rosminiana sul diritto da un lato e dall’altro del personalismo novecentesco, che vuole la persona nel suo contesto relazionale. Accade invece oggi che alla tutela collettiva e solidale del lavoro, si sostituisca, screditando la prima, la difesa meramente individuale e strettamente legalistica, che meglio s’accorda con il verbo liberista, economicista ed individualista. Tutto ciò si colloca in un clima politico-culturale nel quale la politica non tollera, come si è detto, le società intermedie – architrave della democrazia costituzionale – le quali hanno per loro natura proprio una dimensione verticale, che unisce la nazione e le aree sociali, mentre l’oligarchia preferisce le assoggettabili e meglio manipolabili realtà localistiche e parcellizzate. Le società intermedie rappresentative sono state in grado di esprimere una rappresentanza sociale o professionale corrispondenti alla democrazia pluralistica voluta dalla Costituzione.
L’equilibrio tra centralità della persona con la sua responsabilità e l’organizzazione collettiva – perseguita tramite i partiti, l’associazionismo politico-sociale ed infine le istituzioni rappresentative – deve però mirare alla sintesi nelle decisioni comuni tra diversi interessi che trovano composizione nella norma o nell’azione di governo. Il sindacato, secondo la Cisl, è soggetto diverso ma non minore in questo scenario politico, come dimostrò, dal 1993 in poi, la politica della concertazione. L’autonomia dalla politica dei partiti è la condizione imprescindibile perché la rappresentanza e la tutela del lavoro non soggiacciano a interessi di schieramento. La centralità e la tutela dei lavoratori hanno inciso profondamente sullo sviluppo della società italiana, da un lato introducendo di fatto e di diritto la Costituzione tanto nei luoghi di lavoro quanto nella società generale – così riuscendo a consolidare saldamente i diritti del lavoro – dall’altro consentendo l’accesso dei lavoratori nello Stato in tutte le sue articolazioni.[14]
[1] Artt. 1-55 – Diritti e doveri dei cittadini (Titoli I-IV).
[2] Si vedano le precoci riflessioni di G. La Pira (1946), La nostra vocazione sociale, Roma, AVE, un meditato manifesto del laburismo cristiano.
[3] Ruini M. (2007), La Costituzione della Repubblica italiana. Appunti, Roma, Editore Bulzoni, pp. 15-16. Il volume contiene gli appunti inediti di Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione (detta “dei 75”) e Presidente poi del Senato e del Cnel, e saggi di Guzzetta, Campanozzi e D’Angelo, con una Prefazione di Marieli Ruini.
[4] Art. 1., L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Titolo III, Artt. 35-47 (Rapporti economici).
[5] Atti dell’Assemblea Costituente, Seduta del 4 marzo 1947, Intervento in Assemblea di Piero Calamandrei, pp. 1743-1746.
[6] 1984 sarebbe stato l’anno fatidico del Referendum sulla scala mobile che confermò il ruolo protagonista della Cisl guidata da Carniti e la rivendicazione della piena autonomia da ogni sudditanza partitica, anche a costo di far coincidere momentaneamente la propria posizione strategica con quella della maggioranza al Governo del Paese.
[7] Art. 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
[8] Cfr. Craveri P. (1977), Sindacati e istituzioni nel dopoguerra, Bologna, Il Mulino.
[9] Ibidem (cfr. in particolare il paragrafo Le “pretese architettoniche imperiture” dell’on. Rubinacci, alle pp. 351 ss.).
[10] Ciò coinvolge la stessa relazione tra etica e diritto in materia di società naturali che, come è noto, costituiscono la realtà effettuale del tessuto sociale delle nazioni moderne.
[11] Cfr. Acocella G. (1999), La società, lo Stato, la politica, Seminario di studi (Napoli, 22-23/05/1998), Roma, Edizioni Lavoro.
[12] Cfr. Rescigno P. (1966), Persona e comunità, Bologna, Il Mulino.
[13] Atti dell’Assemblea Costituente, cit., p. 1748.
[14] I lavoratori nello Stato era infatti intitolato il volume che raccoglieva gli interventi di Giulio Pastore, primo Segretario generale della Cisl, che illustrava e spiegava gli effetti dell’attività del sindacalismo confederale in Italia dopo il 1945 (Pastore G. (1963), I lavoratori nello Stato, Firenze, Vallecchi).