Laica, aconfessionale oppure … libera e indipendente? Per dare un senso a questa alternativa, ammesso che alternativa sia, il buon metodo storico e qualche attenzione etimologica suggeriscono di risalire alle vicende che hanno portato alla fondazione della Cisl giusto settantacinque anni fa, quando queste questioni sono state affrontate, dopo l’uscita della corrente sindacale cristiana dalla Cgil unitaria nell’estate del 1948.
Agli incontri “segreti” che si tennero tra agosto e i primi di settembre di quell’anno vennero sciolti diversi nodi decisivi per poter dar corso alla costituzione della Lcgil. Si trattava di andare oltre le sofferenze scontate nella Cgil unitaria da una corrente cristiana in difficoltà per la mancanza di una solida presa di coscienza sindacale. Un vuoto che l’aveva esposta alle pressanti contingenze politiche di cui le componenti comunista e socialista erano aggressive interpreti.
Nessuno dei partecipanti a quegli incontri sostenne sul piano dei princìpi la tesi del sindacato cristiano, pur essendo tutti contrari a dar vita a un’organizzazione puramente tecnica, priva di riferimenti valoriali. I supponibili imbarazzi iniziali vennero superati da Pastore in nome di due princìpi fondamentali.
Il primo principio era la «assoluta indipendenza» dalle direttive di partito e dalle pressioni governative in quanto il campo d’azione del sindacato libero era tracciato dai problemi concreti della tutela sindacale e non dai posizionamenti politico-partitici. Su questa premessa era possibile formulare una proposta organizzativa sostanzialmente unitaria, cioè rivolta a tutti i lavoratori in quanto tali, senza discriminazioni di sorta. A chi ipotizzava un sindacato «di colore», Pastore contrappose la formula «libero e indipendente» che «si addiceva» ai lavoratori cristiani ed era indispensabile per attrarre quella «massa grigia» di lavoratori che considerava determinante per l’affermazione della nuova organizzazione, dunque «dobbiamo assolutamente escludere il sindacato cristiano e qualunque cosa che ci allontani un gran numero di lavoratori» (Saba, 2000; p. 18).
Il secondo principio era conseguente al primo: in quanto libero il nuovo sindacato non doveva qualificarsi per appartenenza a un credo religioso. L’apertura a tutti i lavoratori implicava quell’opzione aconfessionale che venne accettata dall’ampia maggioranza dei convenuti a quegli incontri.
In verità, pur se da tutti negato, non era del tutto remoto il rischio di una clericalizzazione che avrebbe implicato una dipendenza funzionale dalle gerarchie ecclesiastiche garantita da un assistente ecclesiastico formalmente incaricato. Più realistica era l’opzione confessionale, sostenuta da una minoranza, che si limitava ad esigere l’esplicito impegno morale da parte degli iscritti a seguire le pratiche religiose.
Per convenzione si identifica nella aconfessionalità un principio fondativo della Lcgil (e poi della Cisl) che i fondatori non intendevano in negativo (come suppone la privativa vocale inziale), ma in positivo come precondizione per affermare i valori della libertà e dell’indipendenza che aprivano la strada sia ai lavoratori di altre correnti della Cgil unitaria, sia ai lavoratori non iscritti al sindacato.
Tanto in quegli ultimi anni Quaranta, marcati Lcgil, quanto nei primi anni Cinquanta sotto le insegne della Cisl, l’opzione per l’indipendenza e per la libertà fu largamente condivisa tra gli ex appartenenti alla corrente sindacale cristiana, più controversa fu l’opzione della aconfessionalità. Tuttavia, su entrambi questi princìpi, non mancarono contrasti anche vivaci e non sempre le decisioni adottate in seguito furono ad essi coerenti.
Da tutto questo, a rigori, non consegue una natura laica della Cisl, come chiarisce la biografia di tanti protagonisti e come ben esemplifica la vicenda umana dello stesso Pastore, formatosi in gioventù come «militante del movimento sociale cattolico e collaboratore laico dell’apostolato della Chiesa» (Saba, 1983; p.18). Laico intende dunque una differenza qualitativa, propria del cattolicesimo, tra il clero (coloro che appartengono a un «ordine santo») e il popolo cattolico, cioè i laici (λαός = «popolo») comunque partecipi dell’ecclesia (Waldenfels, 1987; p. 496).
In altri termini, Pastore chiamava i sindacalisti cattolici a farsi testimoni (apostoli) della Chiesa nel sindacato libero, in ossequio alla vocazione ad agire nella vita sociale di propria iniziativa insieme a tutti gli altri (dunque non laici) (Catechismo, 1992, 2442), cioè a tutti i lavoratori non identificabili per appartenenza religiosa o per coloritura politica. In questo senso va intesa la definizione di «massa grigia» di cui sopra. Lavoratori che potevano condividere con i laici la pluralità di esperienze concrete ispirate al bene comune, alla pace e alla giustizia sociale. Per questa comunanza di fini intrinsecamente umani la scelta aconfessionale era in sé unitaria e «si addiceva», come affermato da Pastore, ai sindacalisti cattolici.
In più occasioni il Segretario generale della Lcgil ribadì la «volontà fermissima» di affermare la necessità di un sindacalismo nuovo, libero, indipendente, apartitico ma non apolitico, aconfessionale ma non agnostico (Saba, 1996; p. 207). Un disegno fissato nel secondo articolo dello Statuto della Cisl che recepiva la sostanza perpetua della dottrina sociale (la centralità della persona) e la esprimeva in forma di una concezione storicamente determinata (i fondatori non usarono mai il termine valori, al più pensiero).
La Lcgil e la Cisl si sono costituite dunque come realtà temporali libere e indipendenti, radicate nel mondo del lavoro senza preclusioni escludenti. Libertà e indipendenza furono considerate “laicizzanti” (cioè, in esplicita opposizione alla confessionalità) da figure autorevoli come Lamberto Giannitelli, sostenitore della riedizione di un sindacato cattolico. Così pure da chi, come Giuseppe Rapelli, era favorevole alla ricostituzione della corrente sindacale cristiana attraverso le Acli, ma non riuscì ad aggregare sulle proprie posizioni un dissenso organico e consistente. A Rapelli va dato atto di aver reso esplicito quel che altri tacevano: il distacco crescente tra la cultura sindacale «bianca» e la nuova cultura della Cisl (Saba, 1996; pp. 192-208).
Pastore era pienamente consapevole che l’esperienza della Lcgil era eccessivamente legata alla matrice aclista originaria e al rapporto con la Democrazia cristiana. Né poteva bastare la decisione di aver portato la Lcgil nella nuova Internazionale dei sindacati liberi, che si era costituita a Londra nel dicembre 1949, ricusando l’ingresso nell’Internazionale cristiana. Ma non tutto era compiuto: Pastore sentiva la necessità di contare su una solida e innovativa base culturale.
Così, come ben noto, si rivolse a Mario Romani, giovane studioso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore che stava dando prova di originalità di pensiero negli ambiti del cattolicesimo ambrosiano.
Ancor prima di iniziare la sua collaborazione con Pastore, Romani aveva maturato un chiaro orientamento riguardo il confessionalismo. La sua prospettiva era quella del naturale superamento, senza drammi, della cultura sociale del tempo ispiratrice di un sindacalismo cristiano che riteneva inadeguato alla tutela del lavoro in un moderno sistema industriale (Zaninelli & Saba, 1995; p. 53).
Interessato ai fatti più che alle dottrine, Romani non si avventurò sul terreno difficile e accidentato della controversia tra detrattori e sostenitori del capitalismo. Egli attribuiva maggiore importanza alle questioni pratiche suscitate dalle profonde trasformazioni economiche e sociali che si annunciavano anche nel nostro Paese sulla traccia dei processi in corso nel mondo occidentale libero e democratico. L’aperto confronto con la democrazia rappresentativa, con il mercato e con la libertà degli attori economici e sociali segnò un’apertura al liberalismo, allora come oggi fuori dalla norma per il cattolicesimo tradizionalmente più propenso a posizioni di stampo comunitarista.
Per il sindacato era una sfida a dotarsi di basi culturali e di soluzioni “tecniche” (sindacalmente parlando) adeguate a un sistema economico capitalistico considerato riformabile dall’interno agendo in conformità ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa, riletti nei termini della «laicità culturale» della Cisl. Per laicità culturale si intende: l’insegnamento sociale pontificio offriva all’associazionismo sindacale princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttrici d’azione che ponevano al centro la nozione di persona umana, la sua dignità, i suoi diritti inalienabili a valere in particolare per il mondo del lavoro (si veda l’articolo 2 dello Statuto confederale). Si trattava di un patrimonio di idee ispiratrici di un progetto di maturazione umana e di progresso civile e sociale senza pretesa di totalità, espressione della libera dialettica di posizioni consentita dal pluralismo (Grandi, 2012; pp. 116-117).
In questo orizzonte ideale ispirato al progresso morale, culturale e materiale dei lavoratori si inseriva la realistica disposizione di Romani a muoversi nel quadro del capitalismo contemporaneo, secondo un grande disegno affidato, per la loro parte, ai protagonisti sociali dello sviluppo, i quali, dal punto di vista operativo, si potevano avvalere al meglio degli strumenti propri della regolazione sociale e della contrattazione. Una tesi che si poneva in alternativa tanto alla prospettiva sostanzialmente statalista del suo maestro accademico, Amintore Fanfani, e della dirigenza democratico cristiana, quanto all’impostazione apertamente anticapitalistica autorevolmente sostenuta nel mondo cattolico da figure quali il teologo Carlo Colombo (Ferrari, 1995; p. 113).
A quel punto la controversia non riguardava più la questione della confessionalità, ma l’alternativa tra l’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione e il contrattualismo di nuovo conio. Il nitido profilo del sindacato nuovo disegnato da Romani e dai suoi più stretti collaboratori (Giuseppe Glisenti e Benedetto De Cesaris) e coraggiosamente messo a terra da Pastore, prospettava ai lavoratori italiani una formula sindacale innovativa, tracciata oltre i condizionamenti dovuti alle appartenenze (o alle non appartenenze) confessionali e partitiche. Un terreno comunque accogliente per i laici cattolici nella piena condivisione dell’originaria natura associativa e delle istanze partecipazionistiche in un paese gravido di resistenze da parte degli attori politico sociali, dell’opinione pubblica e delle altre organizzazioni sindacali.
Entrambi uomini di grande religiosità e altrettanto spiritualmente e intellettualmente attivi, Pastore e Romani prospettarono al mondo cattolico italiano la possibilità di superare le esperienze ancora legate al progetto ottocentesco di Leone XIII, minoritario anche se significativo nella storia del sindacalismo italiano, ma ormai privo della spinta modernizzatrice che la Cisl intendeva portare nel mondo del lavoro (Saba, 1983; p. 111) anticipando su queste materie le aperture conciliari.
Con l’apporto di Romani, che si sarebbe pienamente manifestato nei primissimi anni Cinquanta, «il velo dei falsi problemi» (Romani, 1988; p. 131) si era definitivamente squarciato: il punto nodale era il consolidamento di un movimento sindacale consapevole della sua indispensabile azione di equilibrio e di progresso umano in una realtà in continuo sviluppo, in una società pluralistica altamente dinamica e in una comunità politica democratica.
In questa direzione si era già mosso, come sappiamo, Giulio Pastore nel tessere le relazioni che portarono il 30 aprile 1950 alla firma del Patto di unificazione delle forze sindacali democratiche (poi Preambolo dello Statuto confederale Cisl) la cui matrice pluralistica venne testimoniata dai grandi ritratti di Achille Grandi e di Bruno Buozzi, che fecero da sfondo al tavolo della presidenza in due momenti storici per il libero sindacato: al primo (e unico) Congresso della Lcgil (Roma, 4-7 novembre 1949, nell’aula magna dell’Università, oggi La Sapienza) e all’Assemblea costitutiva della Cisl (Roma, 1° maggio 1950, Teatro Adriano). Quelle presenze testimoniavano, nel primo caso, poco più di un’ipotesi di lavoro che stava prendendo corpo dopo il viaggio di Pastore negli Stati Uniti nella primavera del 1949 con il socialdemocratico Giovanni Canini e con il repubblicano Appio Claudio Rocchi. Nel secondo caso la contestuale costituzione della Cisl riaffermava l’obiettivo di proporre il sindacato libero come unica possibile prospettiva per ritornare all’unità dei lavoratori.
Con quei due ritratti Pastore rendeva onore alla memoria di Grandi («il mio impareggiabile maestro perduto»), scomparso nel settembre 1946, e di Buozzi «dalle labbra dei quali, nel segreto dei ritrovi del tempo clandestino, abbiamo appreso i canoni del sindacalismo libero e indipendente» (Saba, 1983; p. 110).
Quell’agire in clandestinità era costato la vita al socialista riformista Buozzi, trucidato dai tedeschi in fuga da Roma (4 giugno 1944) senza poter firmare l’atto fondativo della Confederazione unitaria, così come fece Grandi per conto della corrente sindacale cristiana. A quelle intese, sostenute dalla comune volontà di far partecipare i lavoratori alla costruzione di un’Italia democratica e pluralista, il socialista riformista Buozzi si era accostato avendo rimosso nella propria coscienza un’antica avversione al cristianesimo (Forbice, 1984; p. 182). Grandi, a sua volta, aveva rivisto la sua iniziale forte rigidità nei confronti dei socialisti e dei liberali. Il loro alto profilo morale li rese capaci di coniugare i rispettivi ideali prefascisti con le nuove attese dei lavoratori nella libertà e nella democrazia (Riosa, 1996).
Buozzi e Grandi avevano esperienza diretta dei problemi del lavoro nelle realtà lavorative e credevano nella possibile autonomia dai rispettivi partiti di riferimento. Conoscevano i lavoratori, la loro capacità di lottare e la loro fedeltà all’organizzazione e ai dirigenti, erano convinti sostenitori della forza organizzativa del sindacato e della sua autonomia dai partiti. Contavano sulla partecipazione dei lavoratori alla vita organizzativa e sulla gradualità delle conquiste sindacali prive dei massimalismi e della demagogia di chi puntava solo a ingraziarsi le masse.
Il timore di farsi condizionare da forze esterne emerse al primo Congresso della Cisl (novembre 1951). Un paio di mesi prima, la XXIV Settimana sociale dei cattolici italiani non aveva dato segni di apertura alla nuova lettura del ruolo del sindacato libero in un regime democratico proposta da un intervento di Romani. A chi nel dibattito congressuale ipotizzò un tentativo di egemonia confessionale, Pastore chiese di prendere atto dell’unità di spirito che aveva riunito a Congresso «uomini di tutte le provenienze» senza discriminazioni di confessione religiosa o di fede politica (Saba, 1983; pp. 216-217). Una realtà di libertà e d’indipendenza che non temeva insidie di ritorno al passato.
A quei tempi il termine “laico” non venne mai usato. Può essere utile ricorrervi, nonostante una genericità che può causare confusioni e strumentalizzazioni, cedendo al dir comune, per evitare equivoci e sospetti di confessionalismo (Saba, 2000; p. 24), ma poco dice a chi afferma o mette in dubbio libertà e indipendenza.
A metà degli anni Sessanta, nel clima post-conciliare, le aperture della Gaudium et spes (1965) sul rapporto tra credenti e non credenti fecero riemergere la questione della confessionalità e dei rapporti con la Democrazia cristiana. Per Romani «Queste cose si dicevano, non per scherzo, e si sono dette per parecchi anni. Oggi si dicono già un po’ di meno». A chi denunciava la perdita di autonomia – dato sostanziale per la natura associativa della Cisl – Romani ribadiva che un sindacato andava valutato per la sua capacità di incidere sulla realtà di tutti i giorni nei luoghi di lavoro e nei territori: «quando si viene alla tutela in concreto scompare ogni differenziazione […]. Macché comunisti-fascisti: si tratta solo di lavoratori che hanno degli interessi concreti» (Romani, 1988; pp. 260-261), persone che chiedono rispetto, umanità, giustizia sociale.
Doti che avevano consentito all’opzione inclusiva della Cisl di corrispondere alle esigenze di tutti i lavoratori, perché il sindacato deve essere innanzitutto utile. Ma che non ne spiegano l’affermazione se non si tiene conto delle profonde condivisioni ideali con i suoi mondi vitali (le comunità locali, le parrocchie, l’associazionismo cattolico) maturate nella democrazia in aperta opposizione al comunismo. Un’iniziale, formidabile mobilitazione di fiducia dal basso che negli anni Sessanta avrebbe animato una spinta alla partecipazione sociale più consapevole e vissuta ma certamente più sofferta.
Libera e indipendente (o laica e aconfessionale che dir si voglia) la Cisl porta in sé la matrice cristiana del mondo occidentale in cui sono inscritte la centralità della persona umana e quella trama naturale di relazioni civili che danno sostanza a un’autentica comunità orientata alla vita buona, espressione della pienezza umana cui ciascuno ambisce (Marongiu, 1994; p. 215).
Bibliografia
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