- Cultura sindacale, culture sindacali
L’obiettivo di questo breve scritto, lungi da qualsiasi ambizione di esaustività, è di richiamare il tentativo di costruzione di una cultura sindacale e del lavoro autonoma e in divenire, all’interno del pluralismo sindacale italiano, come quella che ha dato origine alla Cisl a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, ripercorrendone alcuni aspetti fondamentali ed evolutivi.
Come è stato affermato recentemente (Cella, 2022), di culture sindacali e del lavoro si è sempre parlato poco e, forse, oggi se ne discute colpevolmente ancora meno, in particolare nell’esperienza italiana.
Tutto ciò nonostante le Confederazioni sindacali italiane abbiano innegabilmente superato la crisi e la scomparsa dei partiti storici, avvenuta negli anni Novanta del secolo scorso, di quelle formazioni politiche che hanno scritto la nostra Costituzione, ma di cui oggi non vi è più traccia diretta nell’attuale panorama politico-istituzionale italiano.
Ma che cos’è una cultura sindacale e come si intreccia con la cultura del lavoro che ne è sostanziale fondamento?
Seguendo uno schema più volte proposto da Gian Primo Cella, essa può essere definita con tre principali elementi di descrizione/definizione:
in primis, una cultura sindacale è identificabile con l’immagine del mestiere del sindacato: ovvero come “l’arte della pratica sindacale”. Si fa il sindacato in un certo modo e con certi strumenti e abilità. Una dimensione, quindi, prevalentemente organizzativa, esperienziale e, sotto alcuni aspetti, tecnica;
in una seconda accezione, la cultura sindacale può richiamarsi agli aspetti connessi alle attività conoscitive ed educative di un’organizzazione di rappresentanza dei lavoratori. Si tratta di un tema peraltro fondamentale nello studiare le origini e il divenire della Cisl: la dimensione formativa, non solo per i sindacalisti, ma anche per i lavoratori;
in un terzo senso, il termine cultura sindacale esprime la capacità di rapportarsi, da parte di un sindacato, con la dimensione esterna e l’evoluzione della società e del concetto di lavoro, una caratterizzazione che potremmo definire cultura relazionale: la capacità di contaminare, contaminarsi, ma anche di innovare e di innovarsi nel rappresentare il lavoro che cambia.
La sottovalutazione di queste dimensioni, declinate diversamente nell’ambito del pluralismo sindacale italiano anche nei momenti di maggiore tensione e impegno verso l’unità (Lauria, 2022), ha portato spesso ad una scarsa considerazione delle culture sindacali e del lavoro, sacrificate ad una lettura prevalentemente politica, ideologica o, almeno per la Cisl, pseudo – confessionale.
Ha sottolineato Cella: «La cultura sindacale nei lunghi decenni del secondo dopoguerra, è stata accantonata dalla storiografia a vantaggio delle culture politiche, quasi come se delle grandi organizzazioni sindacali fossero incapaci di produrre, e di consumare, una elaborazione culturale autonoma, non solo per sostenere le proprie attività rivendicative, ma anche per interpretare il mutamento e la grande epoca di modernizzazione della società italiana. Persino nella denominazione delle confederazioni, troppo spesso ci si abbandonava alla dizione di sindacato cattolico (e talvolta democristiano) per la Cisl e di sindacato socialcomunista (se non più semplicemente comunista) per la Cgil» (Cella, 2022).
La cultura sindacale, peraltro, nasce e si sviluppa non dalle élites delle organizzazioni, ma dal basso, dai luoghi di lavoro, successivamente viene organizzata e coordinata.
Uno studio imprescindibile su questo tema è quello di Vittorio Foa sulla storia degli operai inglesi del primo Novecento: La Gerusalemme Rimandata (1985) dove viene analizzato come la sconfitta del sindacato di mestiere ai primi del Novecento avesse aperto la strada a un sindacato capace di includere gli operai comuni, le donne, gli stessi disoccupati.
- Una cultura del lavoro plurale fin dall’inizio e in divenire
La Confederazione fondata da Giulio Pastore si è spesso soffermata con molta attenzione sulle proprie origini e sulla propria cultura del lavoro, anche se con interpretazioni interne non del tutto convergenti, soprattutto nella valutazione del rapporto di queste stesse origini con le innegabili trasformazioni avvenute negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (Fondazione Pastore, 2005).
In questo soffermarsi della Cisl sulla propria nascita c’è certamente un problema di memoria e volontà di legittimazione che in altre culture ed esperienze sindacali appare più sfumato.
Scriveva Franco Marini, da Segretario generale della Confederazione, nell’introdurre un volume sulla nascita della Cisl (Saba & Bianchi, 1990), sull’importanza di documentare: «quel formidabile intreccio di circostanze e di uomini, di aspirazioni ideali e di lungimirante prospettiva storica cui tutti i lavoratori, e l’intera società italiana, vorremmo guardassero col nostro stesso ammirato rispetto».
La Cisl nacque, infatti, con pochi sostegni nella tradizione e ciò ha conseguenze anche nell’analizzare che tipo di cultura del lavoro ha caratterizzato l’origine e l’evoluzione di questa Confederazione.
Essa si delineava come un sindacato che, pur in una società prevalentemente agricola e senza sottovalutare l’importanza del sindacalismo dei braccianti e dei mezzadri, si proponeva di affrontare le sfide della nascente società industriale e si impegnava in un processo democratico e pluralistico, affermando l’autonomia da ogni centro di potere privato e pubblico, il primato del metodo contrattuale, il valore del libero vincolo associativo e solidaristico.
Un sindacato che intendeva associare, in questa dimensione di finalità e prospettiva, lavoratori e lavoratrici di diversa ispirazione ideale.
Di qui la celebre frase di Giulio Pastore pronunciata durante il primo Congresso della Confederazione a Napoli, nel novembre del 1951:
«Non abbiamo niente dietro di noi. Non partiti, non movimenti ideologici; non abbiamo neanche una tradizione perché non esiste in Italia la tradizione nella formula da noi enunciata. […] Dobbiamo creare tutto dal nuovo» (Coppola & Lauria, 2021).
Se proviamo a declinare attraverso le tre categorie precedenti un tale sforzo di innovazione e di rigenerazione che ha assorbito, sviluppato e tradotto diverse influenze, anche internazionali, in una cultura sindacale e del lavoro originale, non possiamo non associare il termine di cultura a quello di rappresentanza, a partire dalla dimensione organizzativa.
La pluralità della rappresentanza nella costruzione del nuovo sindacato si riverberava nell’attenzione alla dimensione categoriale fin dalla denominazione scelta: Confederazione italiana sindacati lavoratori, laddove le due ultime parole risultano dirimenti.
Seguendo questo filone di ragionamento è possibile parlare di diverse culture sindacali e del lavoro che costruirono insieme la cultura della Cisl anche se lo sviluppo delle federazioni di categoria, la cosiddetta “verticalizzazione”, fu un’acquisizione progressiva, pienamente realizzata solo con la diffusione della contrattazione articolata, a partire dai primi anni Sessanta del Novecento.
Va ricordato, però, che la pluralità dei mondi del lavoro rappresentati dalla Cisl includeva anche esperienze sindacali preesistenti e strutturate (si pensi al sindacato degli insegnanti elementari) e la non preclusione alla rappresentanza del lavoro autonomo (si pensi al sindacato delle maestranze teatrali e dei lavoratori ambulanti presente in alcune aree del Paese o al percorso che, negli anni Settanta, vide un’ampia comunità professionale di benzinai aderire alla Confederazione attraverso la sigla “Fegica”).
Non può essere dimenticato che in tutto il panorama del sindacalismo italiano, Cisl compresa, almeno nei decenni Sessanta e Settanta del Novecento, molto rilevante è stato il ruolo della cultura del lavoro e sindacale degli operai metalmeccanici e delle loro conquiste contrattuali: dalle 150 ore, all’inquadramento unico, ai diritti di informazione e consultazione.
Nella pluralità delle culture del lavoro presenti nella Cisl non può essere dimenticato il lavoro pubblico, con un ruolo importante non solo dei dipendenti statali, ma anche del parastato, degli enti locali, della sanità e della scuola, mentre altro settore significativo è il comparto delle grandi imprese chimiche e dell’energia nell’alveo, almeno fino ai primi anni Novanta del Novecento, del più ampio settore delle imprese a partecipazione statale.
Tornando indietro negli anni, questo approccio alla pluralità dei mondi del lavoro esprimeva altre peculiarità: si pensi, in ambito agricolo, alla rappresentanza di braccianti e mezzadri. Questi ultimi ebbero nella Cisl, almeno fino al 1958, una loro specifica federazione di categoria (Federazione nazionale sindacale mezzadri) e approcci peculiari sia nella tutela che nella rappresentanza.
È utile in questo caso proporre due esempi concreti.
Il primo riguarda una figura interessantissima rispetto al riscatto dei lavoratori della terra attraverso la formazione professionale e la cooperazione: si tratta, nella provincia trevigiana, del sindacalista veneto della Cisl, nato negli Stati Uniti, Domenico Sartor (Pitteri, 2021).
Un secondo esperimento significativo, svoltosi in un contesto sociale del tutto differente, è quello tentato dal libero sindacato nei primi anni Cinquanta a Modena, nel rigetto della politica comunista di occupazione delle terre e in prospettiva di un ammodernamento del sistema agricolo: si tratta della Cooperativa del Bosco della Saliceta, tesa a trasformare i braccianti in coltivatori diretti associati (Guerzoni, 2021).
Altro tema è il ruolo rilevante dei quadri non strettamente sindacali, ma attivi nei servizi o nella consulenza individuale (con una particolare attenzione riservata al patronato e agli uffici vertenze).
Questo approccio e questa cultura del lavoro avevano effetti anche sull’organizzazione interna, in particolare, ma non esclusivamente, dell’apparato nazionale.
Nella Cisl, a differenza di altre Confederazioni, non si è mai utilizzato il termine “funzionario”, ma quello di operatore sindacale. Ciò anche per una idea forte e non solo formale di autonomia dell’esperienza sindacale e dei suoi quadri, compresi quelli tecnici, rispetto a quella politica.
Un’autonomia che, pur costruita progressivamente e con una innegabile dialettica interna, rappresentava non solo e non tanto una decisione formale dei vertici (si pensi alla storica decisione dell’incompatibilità tra cariche sindacali e politico-istituzionali, maturata faticosamente nel Congresso confederale del luglio del 1969), ma un’esperienza diffusa, condivisa progressivamente alla base delle strutture sindacali e tra i delegati di fabbrica.
Questa impostazione rimase valida nell’evoluzione e nell’ibridazione delle culture sindacali, anche allontanandosi dagli anni Cinquanta.
Agli inizi degli anni Settanta, ad esempio, nell’ambito di una serie di ricerche dirette dal sociologo Alessandro Pizzorno sugli operatori a tempo pieno di Fim, Fiom e Uilm della Lombardia, vennero intervistate oltre duecento persone, circa il settanta per cento dell’universo di riferimento.
La ricerca fu pubblicata sulla rivista della Cisl “Prospettiva sindacale” (Cella, 1973) e permise di osservare, in quel momento storico, la diversità di origine degli operatori della Fim Cisl rispetto a quelli della Fiom Cgil.
Gli operatori della Fim erano in genere alla prima esperienza di partecipazione collettiva; in buona parte, ma non esclusivamente, provenivano dal mondo cattolico; quelli della Fiom, invece, venivano generalmente dal partito e da qui passavano al sindacato. In altre parole, gli operatori Fim saltavano un passaggio: l’impegno nella Fim era la loro prima esperienza diretta di partecipazione politica e pubblica, pur mediata attraverso il sindacato.
Si può dire quindi che la dimensione associativa e la priorità nel rappresentare e tutelare il lavoro costituissero non un postulato teorico, ma un fatto concreto, in cui, in un mondo ideologicizzato e fortemente presidiato dai partiti, la dimensione della rappresentanza sindacale e del lavoro tendeva a prevalere sulle pur importanti, anche se variegate, culture politiche di riferimento.
- La contrattazione collettiva e la concezione del lavoro della Cisl
È rilevante comprendere la cultura del lavoro alla base dell’idea e della visione della contrattazione collettiva della Cisl.
Per la Cisl il contratto collettivo non è solo strumento per attuare la protezione o per esprimere la rivendicazione, ma è anche una strada per sperimentare la partecipazione non antagonistica allo sviluppo dell’impresa e della società, per l’elevazione del lavoro come strumento individuale e comunitario.
Da qui la grande attenzione e ammirazione della Cisl, soprattutto nel primo decennio della propria storia, rispetto alla figura del socialista Bruno Buozzi firmatario, nel 1919, del primo contratto collettivo nazionale di settore su cui si tornerà in seguito.
È noto che vi fu una scelta strategica, centrale per delineare la cultura del lavoro ed economica cislina, quella della contrattazione articolata, che venne lanciata nel febbraio del 1953, nel più famoso dei Consigli generali della Cisl, svoltosi a Ladispoli.
Già tre anni prima, nel Consiglio generale di Roma del giugno 1950 la neonata Confederazione si interrogava su “nuove finalità e nuovi strumenti” dell’azione sindacale.
La Cisl rilevava: «un progressivo allargamento della sfera d’azione sul piano dell’impresa con una nuova valutazione dell’apporto del lavoro al valore del prodotto» e sosteneva la necessità di: «integrare i contratti collettivi di categoria con contratti aziendali che permettessero di realizzare il massimo proporzionamento fra rendimento e salario».
Tutto ciò andò di pari passo con la decisione, fortemente dibattuta internamente, di opporsi alla c.d. “legge sindacale”: «constatato che l’ordinamento giuridico statuale può coesistere con altri ordinamenti giuridici propri ed associazioni …» e che «… la legge non si occupa dei soggetti e delle parti della contrattazione collettiva» (Consiglio generale Cisl, ottobre 1950).
Questo approccio fu ulteriormente approfondito dallo studioso di riferimento della Cisl, Mario Romani che, nel 1951, sostenne il ruolo fondamentale del contratto integrativo aziendale per «collegare sempre più chiaramente la remunerazione al rendimento individuale e collettivo e alla produttività generale dell’azienda» (Romani, 1951).
Sono temi che si legano alla costituzione, il 22 ottobre 1951, del Comitato nazionale per la produttività e alle successive proposte, in verità di scarso successo, della Cisl a Confindustria per la creazione di “Comitati misti di produzione”.
Sul piano della politica economica la Cisl, sin dal 1951, avvertì la necessità di muoversi nella consapevolezza della connessione esistente tra sviluppo economico e progresso sociale (Merli Brandini, 1980).
Il Consiglio generale Cisl di Ladispoli, nel febbraio del 1953, si esprimerà così nella mozione di indirizzo della politica salariale, prospettando: «l’introduzione e sviluppo di una prassi di accordi integrativi d’azienda per ciò che si riferisce all’inserimento nella remunerazione dell’elemento che esprime l’indispensabilità dell’apporto dei lavoratori agli sforzi diretti ad accrescere la produttività delle aziende».
All’impegno per la contrattazione aziendale si affiancò, a partire dal 1954, pur con alcune difficoltà e contraddizioni interne, la decisione di dare centralità, importanza, potere, alle Sas (Sezioni sindacali aziendali) sui luoghi di lavoro.
La Cisl, in questo modo, si divaricava, anche da un punto di vista organizzativo, dalla Cgil e affidava alle Sas tre compiti fondamentali: il proselitismo, la promozione e selezione di quadri e dei candidati per le Commissioni interne, il ruolo fondamentale di “agenti contrattuali”.
Si diffusero le esperienze dei premi collettivi di produttività (il P/H), si negoziarono le procedure di calcolo dei cottimi, si diede vita a nuove modalità di valutazione professionale del lavoro (i piani di job evalutation) supportate da interventi organizzativi tesi a ridurre la parcellizzazione dei compiti e l’immobilismo professionale con esperienze di job enlargement e di job enrichement (Bianchi, 2012).
Rispetto alla concezione del “lavoro”, Giulio Pastore elaborò un concetto per definire la condizione di subalternità e di mancato riconoscimento per i diritti di partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica: l’”estraniazione” che ampliava, sotto certi aspetti, il concetto di “alienazione” di matrice marxista (Acocella, 2021).
Lo strumento per superare l’estraniazione era, per Pastore e nella cultura del lavoro dell’intera Cisl, proprio il contratto collettivo che, nell’approccio sindacale della Confederazione, rappresentava un contributo sostanziale alla crescita del profilo istituzionale della nascente democrazia italiana.
L’azione contrattuale veniva descritta come fonte primaria del diritto e il principio di associazione come fondativo della vita repubblicana (Acocella, 2021).
Il sindacato, fonte di diritto, ambiva a portare, in una logica di piena autonomia, per citare il titolo della raccolta degli scritti di Giulio Pastore: I lavoratori nello Stato (Pastore, 1963).
Il Centro studi di Firenze, anche nell’impegno dei primi due direttori, i “dossettiani” Benedetto De Cesaris e Vincenzo Saba, divenne un luogo fondamentale per lo sviluppo di questa strategia.
Nacque, ad esempio, a cavallo tra il 1957 e il 1958, un corso unico e peculiare nel delineare la cultura sindacale e del lavoro della Cisl: quello per esperti della contrattazione (Lauria, 2020).
In questa occasione a Firenze si intrecciarono proprio le dimensioni della formazione e della contrattazione con un aspetto che appare ancora oggi davvero significativo e sorprendente: in quel luogo si prepararono le persone per ruoli che ancora non esistevano nel mondo del lavoro e nelle relazioni industriali.
Si organizzarono, infatti, corsi per esperti di contrattazione aziendale quando in Italia, a questo livello, ancora non si contrattava.
Non si trattò, quindi, dell’adeguamento a un ruolo già esistente, ma dell’invenzione preventiva di un ruolo che l’organizzazione aveva deciso di mettere in campo trasformando la realtà e le relazioni industriali, dando un apporto peculiare e concreto, non solo teorico, al rinnovamento della cultura del lavoro nel nostro Paese.
Quello per esperti della contrattazione fu un corso che portò a Firenze giovani neolaureati tra i più brillanti che studiavano e si formavano, incontrando una cultura sindacale in via di definizione.
La Cisl, per citare impropriamente un Dossetti di molto successivo, chiamò a Firenze le “giovani menti” più capaci, in una logica multidisciplinare, per costruire un team di esperti e consulenti della contrattazione, pensato in prospettiva, al fine di operare in sinergia con i sindacalisti nelle aziende e nei territori che cominciavano a sperimentare concretamente l’intuizione di Ladispoli.
Ci vollero infatti oltre cinque anni per ottenere i primi contratti organici di secondo livello e altri quattro per, nel 1962, stilare (unitariamente) il primo protocollo di settore tra Asap Intersind (che organizzava le imprese pubbliche del settore metalmeccanico) e Fim, Fiom e Uilm. Un testo che, anticipando qualsiasi legge, sancì il primo riconoscimento strutturale della contrattazione aziendale, valorizzando anche l’unità di azione che aveva saputo svilupparsi tra i tre sindacati metalmeccanici aderenti a Cgil Cisl e Uil.
Come affermato da Tiziano Treu, gli anni Sessanta segnarono il punto più alto della linea di massimo sviluppo della concezione contrattualistica dell’azione sindacale a tutti i livelli, anche nei rapporti con lo Stato e con il governo dell’economia.
Si pensi alle idee sulla programmazione concertata, alle proposte di accordo quadro e a quelle del risparmio contrattuale, che prefiguravano un intervento del sindacato in via contrattuale insieme sulla distribuzione e sull’impiego del reddito nazionale (Treu, 1980).
Non va poi dimenticata, a partire dalle seconda metà degli anni Sessanta, l’attenzione crescente della Cisl alle esperienze di autogestione e partecipazione diretta dei lavoratori, sia in ambito industriale che agricolo.
In questo caso ben presto si osservò la differenziazione tra l’autogestione come lotta e la pratica autogestionaria come conduzione di un’attività stabile nell’economia di mercato anche attraverso il modello cooperativo (Manghi, 2021).
Va inoltre ricordata la cornice di riflessione sullo sviluppo economico e il fattore umano nel quale si sviluppò l’intuizione contrattualistica della Cisl delle origini.
Furono molto significativi gli svariati interventi in cui Giulio Pastore affermò che il futuro del sindacato e del Paese si dovessero giocare soprattutto nell’industria.
Si percepiva in essi come proprio l’industria rappresentasse per la Cisl il luogo dove si potesse attuare realmente la contrattazione e far partecipare i lavoratori allo sviluppo economico e sociale.
In questo, come già ricordato, l’influenza della cultura sindacale americana fu fondamentale.
Nel Dna della Cisl non fu presente, però, solo la cultura dell’industrialismo e della produttività che molto doveva al professor Mario Romani, ma anche una originale cultura dello sviluppo locale e dell’importanza del fatture umano nell’animazione e nello sviluppo delle comunità locali.
Un cultura che, forte della propria esperienza e concezione sindacale, Giulio Pastore sviluppò ulteriormente nel suo successivo ruolo di Ministro per il Mezzogiorno e le aree depresse e che certamente, pur andando al di là del perimetro scelto per questo contributo, meriterebbe ulteriori approfondimenti e considerazioni.
Tanto più che se l’avvento dell’industria moderna condurrà all’affermarsi del sindacato industriale, l’attore principe del sindacalismo moderno, animato dalla logica e dalla pratica della contrattazione collettiva (Merli Brandini, 1969), la persistenza di un mercato del lavoro con una significativa presenza di forza lavoro agricola e del proletariato edile spiega, anche nel caso della Cisl, il diffondersi delle forme di rappresentanza sindacale territoriale, con minori o maggiori capacità di controllo del mercato stesso (Cella & Fortunato, 2015).
- La peculiarità culturale della “leva della formazione” tra protezione e rivendicazione
Un ulteriore significato di cultura sindacale e del lavoro richiama la formazione sindacale. Non solo l’impegno nella formazione, ma anche gli investimenti fatti in questo ambito. Per le organizzazioni dei lavoratori e per la Cisl in particolare, la formazione è stata e tuttora è una terza funzione che si aggiunge alle due funzioni primarie senza le quali non si può parlare di sindacato: la protezione e la rivendicazione.
Non tutti i sindacati sperimentano la formazione, almeno non con la stessa intensità e finalizzazione; quelli che applicano contemporaneamente le tre funzioni di protezione, rivendicazione, formazione, esprimono, o, almeno, provano ad esprimere e sperimentare, una sorta di “diversità”, di “peculiarità”.
Nella cultura sindacale e del lavoro della Cisl, l’idea che bisognasse impegnarsi oltre che nella protezione e rivendicazione anche nella formazione, non solo per i dirigenti o i delegati, ma anche verso gli iscritti e i lavoratori, è stata fondamentale, distintiva.
Questo tratto identitario è stato fecondo e generativo anche oltre vent’anni dopo, nell’ibridarsi delle culture sindacali italiane all’inizio degli anni Settanta, attraverso il contributo peculiare che la Cisl (e la Fim) seppero dare all’intuizione contrattuale unitaria delle 150 ore per il diritto allo studio. Un grande investimento, attraverso il sapere, nella risorsa tempo; un istituto che, pur trasformandosi nel corso degli anni, seppe costruire un ponte significativo e di massa tra fabbrica e scuola, tra lavoro e società, rinnovando l’approccio all’educazione degli adulti nel nostro Paese (Lauria, 2012; 2023).
L’attività di studi e formazione, fin dall’inizio, costituirà uno degli elementi fondanti della cultura della Cisl, in stretta connessione con la concreta azione sindacale e con la politica dei quadri, anche attraverso la fondazione di una sorta di «università del lavoro»: la scuola del Centro studi di Firenze, tuttora attiva sulle colline che portano a Fiesole, ed in esercizio fin dai primi anni di vita della Confederazione.
La formazione sindacale fu uno strumento importantissimo per l’affermarsi del progetto della Cisl, per la condivisione interna della propria concezione del lavoro e per rafforzare e rinnovare i quadri dirigenti. Era infatti ben chiara la necessità di dare alla Confederazione uno spessore culturale e teorico che inverasse la scelte programmatiche che avevano portato alla costituzione del nuovo sindacato e ne delineasse alcuni peculiari lineamenti programmatici e organizzativi.
Tali lineamenti si alimentarono, come è noto, anche dell’ispirazione nei confronti del sindacalismo anglosassone, in particolare nordamericano. Come già ricordato la formazione era uno strumento importante per adeguare la Cisl alla nascente società industriale del nostro Paese, approfondendo la capacità di sviluppare un’adeguata contrattazione articolata nei luoghi di lavoro e valorizzando la produttività come elemento fondamentale di una rinnovata concezione di un’economia sociale di mercato e di relazioni industriali partecipative (Carera, 2022).
Il contesto più ampio in cui si sviluppò la cultura sindacale della Cisl attraverso la formazione fu anche quello di una ricerca di formazione di rete che si prolungasse e producesse saperi, facendo incontrare persone, professioni, territori, esperienze e promuovendo; si utilizza qui una bella immagine del sociologo cislino Bruno Manghi, “reti di sapienti” (Manghi, 2019). Il Centro studi di Firenze, fin dagli inizi, è stato un esempio straordinario: una grande palestra, per chi come ha ricordato sempre Manghi: «ripartiva dal leggere, dallo scrivere, dal far di conto, ma che permetteva, anche a chi aveva precedentemente studiato, di ri-approcciare certe materie in maniera diversa».
Significativo, in questo senso, il filo, certo mai esclusivo, ma robusto, che la scuola di Fiesole seppe tessere con l’esperienza di Don Lorenzo Milani e della scuola di Barbiana, anche attraverso gli allievi del priore divenuti sindacalisti (Lauria, 2019; 2023).
In tutte le esperienze di formazione della Cisl, a volte in maniera più accentuata a volte meno, c’era un’idea di missione e di messaggio che inevitabilmente ri-narrava anche l’idea e la cultura del lavoro alla base dello sviluppo della Confederazione. La formazione distribuiva e proponeva dei saperi; sta qui l’originalità: il pensare, da sempre, che il proprio punto di partenza, non dicesse tutto della realtà. Al contrario, la realtà andava studiata, vista nella sua complessità.
I saperi che venivano proposti al Centro studi di Firenze, come nel territorio, attraverso l’esperienza delle «tre sere», non discendevano infatti da una teologia o da un’ideologia organizzativa (per un approfondimento su questa formula della formazione di base, proposta dalla Cisl negli anni Cinquanta e Sessanta attraverso incontri nel territorio che si sviluppavano, appunto, su tre o cinque serate, si vedano Baglioni, 2011 e Manghi, 2013).
I docenti coinvolti furono sempre i più vari, con opinioni e specializzazioni diverse.
Nella formazione Cisl, coerentemente con la concezione del lavoro della stessa Confederazione, si riscontrava una dimensione di ricerca verso ciò che ancora non si conosceva o che non si era perfettamente capito, verso ciò che invece si sarebbe dovuto conoscere, che costituiva l’applicazione concreta di un principio di libertà.
Infine, l’orientamento a un ruolo, direttamente interconnesso all’impegno sui luoghi di lavoro: «tu vieni a fare formazione perché dovrai agire».
La parola “operatore”, già citata in precedenza, veniva proprio da qui: «io imparo per agire efficacemente».
La formazione non si nutriva soltanto di una diffusione di saperi e di conoscenza, ma di saperi e conoscenza orientati a un fare sociale, intrecciato alla propria cultura del lavoro e della rappresentanza. Questo punto è presente in altre esperienze formative, ma nella Cisl, come ha affermato ancora Manghi, è stato davvero determinante.
La formazione ha avuto, in questa cultura sindacale, una sua autonomia funzionale potente, dei canoni, delle regole, dei modi propri di valutazione. Essa però, va ricordato, nonostante alcuni tentativi andati a vuoto, non ha mai sostituito il formarsi delle gerarchie.
Il Centro studi Cisl di Firenze, infine, è sempre stato un luogo di continuo aggiornamento anche della visione che la Cisl ha avuto della narrazione e della rappresentanza del lavoro.
La nascita di questo sistema compiuto si deve a Giulio Pastore ed è fattore importantissimo di come la cultura del lavoro della Cisl si è potuta sviluppare efficacemente nei luoghi di lavoro e nei territori. Un sistema sempre in evoluzione, con una tensione permanente tra l’organizzazione che gestisce legalmente il proprio potere e la formazione che gestisce la propria autonomia (Manghi, 2019).
- La cultura della Cisl nella dimensione internazionale tra fondamenti, incontri ed esperienze
Il periodo delle origini della Cisl non finisce mai di parlarci, così come non finiscono mai di parlarci le immagini di quei primi anni (Sbarra, 2021). Non poche, fin dalle origini, sono infatti le fonti iconografiche che fin da subito raccontano anche dell’importanza dell’azione e del posizionamento internazionale della Confederazione.
Solo per fare un esempio, il primo Congresso nazionale della Cisl a Napoli, svoltosi tra l’11 e il 14 novembre 1951, fu preceduto a Milano, da un’altra importante assise, cui la neonata Confederazione diede un apporto organizzativo e politico decisivo: il secondo Congresso mondiale della Confederazione internazionale dei sindacati liberi Icftu, tenutosi dal 4 al 12 luglio dello stesso anno.
Sempre nel 1951 Mario Romani scriveva nei suoi Appunti sull’evoluzione del sindacato, come l’obiettivo centrale per la Cisl dovesse essere quello di fondare una nuova cultura e, con essa, un nuovo modello di azione sindacale da realizzarsi, anzitutto, attraverso la formazione di un nuovo gruppo dirigente.
L’evoluzione della cultura e della storia ci raccontano della Cisl come sindacato europeo ed europeista, aperto al mondo, paladino dei diritti democratici e associativi in ogni angolo del pianeta, mai restio all’incontro con culture diverse.
Se è fondamentale l’apporto di Mario Romani e della sua conoscenza diretta del sindacalismo anglosassone e in particolare nordamericano, al contempo è rilevante la dimensione europea della cultura della Cisl attraverso gli influssi del personalismo francese o del modello di partecipazione tedesco.
È, però, altrettanto utile capire le dinamiche di una naturale sintonia nell’incontro della Cisl con il nascente e appassionante sindacalismo libero latinoamericano (ma anche la vicinanza, meno conosciuta con il sindacato dei braccianti nel Sud degli Stati Uniti).
Non va dimenticato come la Cisl, in questo caso anche in cooperazione con Cgil e Uil, ma con una sua innegabile forza e specificità, si sia impegnata nel sostenere il sindacalismo democratico e la transizione dal socialismo reale nei paesi dell’Est Europa, a partire dalla Polonia.
Come afferma Bruno Manghi (2021): «ripercorrendo tutti questi sentieri e questi incontri: è molto forte il senso di quanto abbiamo appreso e, al tempo stesso, di quanto abbiamo condiviso, seminando nel contesto mondiale, viaggiando, interloquendo, studiando, discutendo, sperimentando […]. Se penso alla dimensione internazionale, non posso non tornare al valore di quanto abbiano ritenuto importante i nostri padri fondatori essere cittadini del mondo […]. La Cisl discusse e fece una scelta non scontata: quella del sindacalismo libero e non del sindacalismo di matrice confessionale. Tutto ciò ci proiettò automaticamente in una dimensione internazionale e mondiale che aprì pienamente i nostri orizzonti, le nostre influenze reciproche, perfino le nostre letture».
Risuona, nella cultura nell’azione della Cisl, la nota frase di Giorgio La Pira: «il desiderio di libertà è il più vitale tra i desideri dell’uomo. Più è violato, più rinvigorisce, perché la libertà è una fortezza imprendibile nella quale saldamente si rinserra la personalità dell’uomo».
- Conclusioni. La Cisl: due culture e mezzo?
Come riassumere quindi la cultura sindacale e del lavoro della Cisl?
Scriveva Bruno Manghi in occasione del trentennale della Confederazione: «Abbiamo in comune un codice, un codice composto di valori, pregiudizi e parole, un codice che ci ha permesso di scontrarci, di cambiare, di ritrovarci» (Manghi, 1980).
Ma da dove viene, si chiedeva lo stesso Manghi, il codice identitario e del lavoro della Cisl?
Scriveva il sociologo torinese: «sul terreno del cattolicesimo sociale italiano si inserisce, nell’ansia di intraprendere il futuro ed insieme di aprirsi al di là della provincia nostra, il messaggio unionista nelle sue varie filosofie nord americane e britanniche, con la sua fiducia nella negoziazione, con la centratura sul luogo di lavoro e sulla categoria, intesa come momento non eliminabile della presa di coscienza dei lavoratori» (Manghi, 1980).
Due culture quindi: una presente nel tessuto dei militanti, la seconda nella scommessa iniziale di pochi innovatori.
Ad esse non può, come già ricordato, non essere aggiunto un altro riferimento: il rapporto particolarissimo con la tradizione socialista riformista.
Questo rapporto, mediato in particolare attraverso Bruno Buozzi, riconnette la Cisl alla politicità del sindacalismo ed ha un effetto anche sulla concezione del lavoro della Confederazione permettendole di superare una nozione privatistica chiusa (o, se vogliamo, “professional-corporativa”) in coerenza con quanto introdotto dalla corrente culturale degli organizzatori socialisti nel movimento popolare italiano fin dagli ultimi anni dell’Ottocento.
Manghi completava il suo saggio con un aspetto importante che ritengo necessario ricordare in conclusione.
Tutto quanto esposto – sottolineava – senza la varietà insondata della gente che si è impegnata nel sindacato e che vi ha lavorato, sarebbe una mera raccolta di saggi da destinare, al massimo, alla scuola media superiore.
La cultura sindacale e del lavoro della Cisl (come di altre organizzazioni sindacali di massa) è vissuta soprattutto attraverso l’interpretazione continua di centinaia di migliaia di soggetti.
Per una riflessione sul “sindacato come esperienza” è peraltro ancora preziosissimo l’allora davvero innovativo filone di ricerca messo in campo dalla Cisl nel trentennale della fondazione, con la realizzazione di due preziosi volumi che utilizzavano le metodologia della “storia orale” (Carbognin & Paganelli, 1981).
Attraverso i militanti, i pesi delle località, delle storie, dei gruppi umani – concludeva Manghi – hanno avuto la meglio sugli schematismi che ogni cultura codificata comporta.
Sta qui, mi sento di concordare pienamente con questa originalissima figura di intellettuale, formatore sindacalista, il fulcro della descrizione di una cultura del lavoro e sindacale: essa, al di là della storia dei Congressi e dei gruppi dirigenti, ha potuto dare senso pubblico e rilievo alle esperienze, continua a ordinarle ed accumularle, prova a costituirne una memoria.
La cultura delle tradizioni e quella delle successive e necessarie elaborazioni, debbono, pena ricadere in un’operosità e in un pragmatismo senza direzione, continuamente “impastarsi” con l’esistenza delle persone.
Attraverso di essa si confrontano oggi, con le nuove, inedite sfide culturali ed organizzative che, nella frammentazione della società e nella rivoluzione digitale, vengono poste sia alla contrattazione che a tutti gli istituti della rappresentanza del lavoro, compresa la nuova e antica sfida della partecipazione dei lavoratori che la Cisl ha messo in campo, coerentemente con la sua cultura, attraverso una proposta di legge di iniziativa popolare, già approvata da un ramo del Parlamento, la Camera dei Deputati.
Una proposta di legge che non contraddice la preferenza del momento contrattuale rispetto alla tutela legislativa, nell’ottica, come scritto esattamente cinquanta anni fa dal “padre” della partecipazione Guido Baglioni, di: «difendere la dimensione naturalmente sindacale della sua azione dalla contaminazione di altri modelli, di marcare soprattutto l’autonomia della sua proposta dai condizionamenti partitici e dai vincoli istituzionali» (Baglioni, 1975).
Una storia che continua: facendo tesoro, pur in tempi difficili e di difficili scelte, dell’ammonimento e della lezione di Bruce Kaufman: «l’economia fondata sul libero mercato non può sopravvivere e funzionare in maniera efficace senza le pratiche e le istituzioni delle relazioni industriali che umanizzano, stabilizzano, professionalizzano, democratizzano ed equilibrano le relazioni di lavoro» (Kaufman, 2006).
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