«Noi evidentemente non abbiamo inteso, né intendiamo costituire
un’istituzione che fondi le sue premesse ed abbia obiettivi di natura
esclusivamente economica: noi intendiamo il sindacato anche
come scuola sul piano morale, sul piano spirituale»
(Mario Romani)
Premessa – le categorie della formazione
Il sistema formativo di un’organizzazione può essere letto e interpretato attraverso diverse categorie analitiche, che ne rivelano la complessità e il valore strategico. Innanzitutto, è fondamentale considerare le finalità e gli obiettivi formativi, che possono variare in base agli intenti strategici (come l’allineamento alla missione, alla visione e agli obiettivi di lungo termine) o a finalità più operative, legate all’acquisizione di competenze tecniche e gestionali necessarie per lo svolgimento delle attività quotidiane.
A queste si aggiungono obiettivi valoriali, come la trasmissione della cultura organizzativa. Autori come Peter Senge (1990), con il concetto di learning organization, sottolineano il ruolo della formazione continua come leva per lo sviluppo sostenibile e sistemico dell’organizzazione. Allo stesso modo, Chris Argyris e Donald A. Schön (1978) offrono un contributo essenziale al concetto di apprendimento organizzativo, distinguendo tra single-loop learning (apprendimento correttivo, centrato sul mantenimento delle pratiche esistenti) e double-loop learning (apprendimento trasformativo, che mette in discussione valori e assunzioni di fondo). Il sistema formativo, in questa prospettiva, non si limita a trasmettere competenze, ma può diventare uno strumento per stimolare riflessione critica e revisione dei modelli decisionali. Ne deriva una visione della formazione come dispositivo strategico di cambiamento e innovazione, capace di incidere sulla cultura organizzativa e sulla capacità dell’organizzazione di adattarsi a contesti complessi e mutevoli.
Il sistema formativo, letto da una prospettiva sindacale, assume una valenza strategica che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni o competenze tecniche. In questo contesto, la formazione diventa uno strumento di empowerment, volto a rafforzare la consapevolezza critica dei lavoratori e dei loro rappresentanti, contribuendo a un processo di trasformazione sia individuale che collettivo. L’obiettivo non è solo l’aggiornamento professionale, ma anche la costruzione di un’identità sindacale solida, capace di sostenere e promuovere la partecipazione, il confronto, la negoziazione e l’azione politica nei luoghi di lavoro e nella società. Partendo dalle finalità e obiettivi, la formazione sindacale si configura come un mezzo per sviluppare competenze che spaziano dalla conoscenza dei diritti, del diritto del lavoro e della sicurezza, alla capacità di analisi critica delle dinamiche produttive e delle trasformazioni del mercato. In quest’ottica, le teorie sull’apprendimento trasformativo, come quelle di Jack Mezirow (2003, 2016) nassumono un ruolo centrale. Mezirow sostiene che l’apprendimento trasformativo porta gli individui a mettere in discussione le proprie assunzioni e prospettive, favorendo un cambiamento profondo nel modo di interpretare e agire nel mondo. Per il sindacato, questo significa promuovere una formazione che non si limiti a fornire nozioni, ma che stimoli una riflessione critica e consapevole, capace di trasformare l’esperienza personale in un impegno collettivo per il cambiamento.
Un’altra categoria rilevante è rappresentata dai destinatari della formazione. A seconda del ruolo ricoperto (dirigenti, quadri, lavoratori operativi), del livello di competenza posseduto e dei bisogni formativi specifici, le proposte formative si articolano in modo differenziato. In questo senso, risulta fondamentale un’attenta analisi dei fabbisogni formativi, per individuare con precisione chi ha bisogno di apprendere, che cosa deve apprendere e perché. Un contributo centrale in quest’ambito è fornito dal modello sviluppato da William McGehee e Paul W. Thayer (1961), , che propone un approccio sistematico all’analisi del fabbisogno formativo, articolandolo su tre livelli interdipendenti: l’analisi organizzativa, che identifica le aree strategiche in cui la formazione può sostenere gli obiettivi organizzativi; l’analisi dei compiti, volta a individuare le competenze, conoscenze e abilità necessarie per svolgere determinate mansioni; e infine l’analisi individuale, che mira a rilevare i gap tra le competenze richieste e quelle effettivamente possedute dalle persone. Questo impianto teorico, ancora oggi ampiamente adottato, permette di progettare interventi formativi mirati e coerenti, tenendo insieme esigenze sistemiche e specificità delle persone.
I contenuti formativi costituiscono, poi, l’anima del sistema. Nel progettare percorsi formativi efficaci, è utile distinguere tra diverse tipologie di competenze. Una distinzione rilevante è quella tra competenze soglia (threshold competencies) e competenze distintive (differentiating competencies), proposta da Richard Boyatzis (1982) nell’ambito della psicologia organizzativa. Le competenze soglia sono quelle di base, necessarie per svolgere una determinata funzione o ruolo: nel contesto sindacale, possono comprendere la conoscenza della normativa sul lavoro, la comprensione dei contratti collettivi o la capacità di condurre un’assemblea. Rappresentano requisiti minimi per operare in modo adeguato. Le competenze distintive, invece, sono quelle che connotano un maggiore impegno: includono, ad esempio, la capacità di visione strategica, l’intelligenza emotiva, la gestione efficace dei conflitti complessi, la leadership trasformativa o la capacità di costruire reti di alleanze. Sono queste competenze che, nei percorsi formativi più avanzati, il sindacato può coltivare per sviluppare quadri e dirigenti capaci di agire in contesti mutevoli, rappresentare in modo efficace le istanze dei lavoratori e promuovere innovazione nelle pratiche organizzative e contrattuali.
Anche le metodologie didattiche adottate sono centrali: si va da approcci tradizionali a metodi attivi, fino alle tecnologie digitali. Le riflessioni di Knowles (1973) sull’andragogia (l’arte e scienza di aiutare gli adulti ad apprendere) sono ancora oggi fondamentali per progettare percorsi efficaci. Inoltre, gli approcci blended e digitali richiamano oggi modelli di apprendimento flessibile e personalizzato, in linea con le teorie del connectivism di Siemens (2005), secondo cui l’apprendimento non risiede più solo nella mente della persona, ma si distribuisce attraverso reti di persone, risorse digitali e ambienti tecnologici. Il connectivism riconosce che il sapere oggi è fluido, aggiornabile e dinamico, e che la capacità di accedere all’informazione e di navigare tra le connessioni diventa essa stessa una competenza fondamentale. In questa prospettiva, i sistemi formativi devono sapersi aprire a logiche di apprendimento distribuito e continuo, valorizzando la collaborazione, l’accesso alle conoscenze digitali e l’integrazione tra formale e informale. L’aula sindacale è spesso uno spazio di confronto, dove si valorizza l’esperienza dei partecipanti, si lavora su casi reali, si sperimentano simulazioni di contrattazione o gestione di assemblee.
La struttura e l’organizzazione del sistema formativo comprende aspetti gestionali e strategici. La governance del sistema è un nodo cruciale, come evidenzia Mintzberg (1979) nella sua analisi delle configurazioni organizzative, e implica il coinvolgimento di più attori: formatori interni, dirigenti/committenti, responsabili di funzione, consulenti esterni. Il ciclo della formazione (analisi, progettazione, erogazione, valutazione) viene sistematizzato nel modello ADDIE (Analysis, Design, Development, Implementation, Evaluation), punto di riferimento nella progettazione formativa.
Anche le modalità di erogazione della formazione rivelano le scelte strategiche dell’organizzazione: può essere interna o esterna, on-the-job o off-the-job. In ambito sociologico, Jean-Claude Barbier (2004) ha riflettuto sulla relazione tra apprendimento formale, non formale e informale, richiamando l’attenzione sul valore della formazione continua come dispositivo di inclusione e innovazione.
Un sistema formativo efficace deve inoltre disporre di strumenti di valutazione e monitoraggio, non solo per misurare l’apprendimento ma anche per verificarne l’impatto sui comportamenti e sui risultati organizzativi. Il modello a quattro livelli di Donald Kirkpatrick (1959, aggiornato da Kirkpatrick & Kirkpatrick, 2006) (reazione, apprendimento, comportamento, risultati) è tra i più adottati. Per una lettura più critica dell’efficacia formativa in chiave socio-organizzativa, si possono citare gli studi di Fabbri & Striano (2004) sull’apprendimento trasformativo in contesti lavorativi. Non si può non notare come in Italia i testi di Kirkpatrick non siano mai stati tradotti, indicatore del disinteresse nei confronti di queste pratiche di un Paese molto concentrato sull’adempimento e sulla burocrazia più che sulla sostanza delle cose.
Infine, il sistema formativo si intreccia con altri sistemi organizzativi, tra cui le politiche di innovazione. In questo senso, la formazione diventa non solo uno strumento tecnico, ma una leva di cambiamento culturale e strategico. La formazione, come sottolinea Edgar Morin (1999), deve essere capace di integrare conoscenze, contesti e complessità, diventando parte fondamentale della costruzione di un’organizzazione “che apprende”, che somigli sempre più a un organismo che si adatta a un contesto mutevole, più che a una macchina che esegue ciecamente routine.
Una lettura del sistema formativo Cisl
Il sistema formativo sindacale, letto attraverso le categorie analizzate, trova nella visione valoriale della Cisl un orientamento chiaro e coerente. La Cisl ha storicamente concepito la formazione non come una funzione accessoria, ma come una delle sue dimensioni fondanti, strumentale alla promozione integrale della persona e alla costruzione di una cittadinanza attiva e solidale, oltre che premessa necessaria all’autonomia politica e culturale che la caratterizza. In questo quadro, ogni categoria del sistema formativo si intreccia con i riferimenti ideali e strategici dell’organizzazione.
Le finalità formative, ad esempio, si radicano profondamente nei princìpi di centralità della persona, autonomia, responsabilità e sussidiarietà. La formazione Cisl non mira solo a trasmettere competenze tecniche, ma vuole sviluppare una coscienza critica nei lavoratori, capaci di leggere la realtà, di interpretare i cambiamenti e di agire per il bene comune. L’idea di una formazione come educazione alla libertà è pienamente coerente con la tradizione della Cisl, che ha sempre rigettato visioni strumentali o ideologiche del sapere.
La scelta dei destinatari riflette il valore della democrazia partecipativa: tutti, dai quadri dirigenti ai delegati di prima nomina, dai lavoratori migranti ai giovani, devono poter accedere a opportunità formative. La Cisl promuove un’idea di rappresentanza inclusiva, in cui la formazione è leva di mobilitazione sociale e protagonismo diffuso, nonché premessa necessaria per rendere concreta la prospettiva della democrazia economica, pienamente coerente con una visione del lavoro come vocazione, relazione e costruzione del mondo (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, §269-287). Come evidenzia Bruno Manghi, la formazione Cisl si caratterizza anche per andare oltre il titolo di studio e il normale percorso scolastico, dato che fare sindacato significa anche ri-studiare e continuare a farlo secondo una logica di lifelong learning.
Anche i contenuti formativi rispecchiano l’orizzonte valoriale cislino: non solo norme e contratti, ma anche economia sociale, giustizia intergenerazionale, sviluppo sostenibile, transizione digitale e ambientale, dignità del lavoro. Temi che declinano l’identità sindacale in una prospettiva etica e progettuale, che guarda al futuro e al bene collettivo.
Le metodologie privilegiate sono coerenti con la visione della persona come soggetto attivo e responsabile. Approcci esperienziali, cooperative learning, laboratori, momenti riflessivi: tutto punta a valorizzare il sapere dei partecipanti, in un’ottica di autoformazione e corresponsabilità. In questo senso, il modello formativo si avvicina a quello freiriano (da Paulo Freire, noto principalmente per il suo approccio radicale e trasformativo all’educazione), che promuove emancipazione e autonomia, due parole-chiave del lessico Cisl.
Anche la modalità di erogazione (flessibile, inclusiva, capillare) riflette l’impegno a rimuovere gli ostacoli all’accesso al sapere, attuando quel principio di solidarietà effettiva che rende concreta l’uguaglianza sostanziale, secondo quanto affermato anche dall’articolo 3 della Costituzione italiana. L’approccio si pone nell’orizzonte di una pedagogia sindacale fondata sui valori del personalismo cristiano, della responsabilità, del pluralismo, della solidarietà e della giustizia. È una formazione che accompagna la persona nel suo percorso di crescita non solo come lavoratore o come rappresentante, in coerenza con il pensiero di papa Francesco, secondo cui «ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente» (Fratelli Tutti, n. 107).
Nella formazione Cisl è, inoltre, sempre presente un’idea di missione o messaggio che, oggi, ha soprattutto a che fare con il volere essere il “sindacato della partecipazione”.
La struttura del sistema formativo, con le sue articolazioni territoriali, settoriali e categoriali, riflette la volontà di garantire capillarità, prossimità e sussidiarietà. Le modalità di erogazione, sempre più flessibili e digitali, permettono di raggiungere lavoratrici e lavoratori in ogni contesto, anche quelli più fragili, coerentemente con il valore della tutela universale e della giustizia sociale.
Infine, anche la valutazione della formazione non può essere solo quantitativa o centrata sull’apprendimento individuale. Deve considerare l’impatto sulla capacità di rappresentanza, sulla qualità delle relazioni sindacali, sul rafforzamento della partecipazione democratica nei luoghi di lavoro. Questo approccio riflette la visione di sviluppo umano integrale promossa dalla Cisl, dove la formazione è parte di un progetto più ampio, in linea con la Gravissimum Educationis del Concilio Vaticano II, secondo cui «l’educazione è una vera iniziazione alla vita sociale, attraverso la quale ci si prepara alla fraternità, alla solidarietà e alla cooperazione» (Gravissimum Educationis, n. 5).
La vicenda storica della Cisl e la formazione (cenni)
Non è ancora stata scritta una storia della formazione in Cisl, anche se è possibile ricostruire qualche elemento di riflessione in merito.
Il primo riguarda l’origine. Sappiamo che nel 1951, appena un anno dopo la nascita della Cisl, venne istituito il Centro studi nazionale di Firenze. Il Centro studi divenne rapidamente un punto di riferimento per la formazione sindacale, organizzando corsi destinati a formare dirigenti sindacali competenti e consapevoli. Secondo Guido Baglioni «si tratta dell’iniziativa di punta nella scelta strategica più rilevante compiuta dalla Cisl come organizzazione, e cioè la qualificazione e la produzione di nuovi sindacalisti mediante i processi formativi, a livello centrale e a livelli decentrati; tali processi sono estesi ai militanti e ai soci attraverso la diffusione della formazione di base» (Baglioni, 2011).
Questa iniziativa, fortemente voluta dal primo segretario generale Giulio Pastore e dal direttore dell’Ufficio studi confederale Mario Romani, mirava a fornire una formazione di alto livello ai quadri sindacali, ispirandosi al modello del sindacalismo americano degli anni Trenta e Quaranta dello scorso secolo, rivitalizzato dal New Deal roosveltiano.
Con ogni probabilità Romani aveva in mente casi come il Brookwood Labor College, fondato nel 1921 a Katonah, New York. Questa istituzione offriva corsi su organizzazione sindacale, riforma politica e diritti civili, preparando attivisti per il movimento operaio. Analogamente, il Work People’s College (1904-1941) a Duluth, Minnesota, e il Commonwealth College (1923-1940) vicino a Mena, Arkansas, fornivano formazione focalizzata sull’organizzazione del lavoro e sulla giustizia sociale. Proprio dopo la grande crisi del 1929, l’amministrazione americana varò la Federal Emergency Relief Administration (FERA), con il fine di avviare programmi di educazione per adulti, inclusi corsi di educazione dei lavoratori, raggiungendo circa un milione di persone fino al 1943. Nel 1942, l’Università di Harvard istituì l’Harvard Trade Union Program, ideato dal professor John Thomas Dunlop, figura centrale del rinnovamento del pensiero sindacale americano nel secondo dopoguerra. Questo programma mirava a educare i membri dei sindacati su questioni contemporanee del lavoro e del diritto sindacale, rappresentando un ponte tra il mondo accademico e quello sindacale.
Dunlop influenzò molto il pensiero alla base della costituzione della Cisl (lo troviamo citato nell’incipit degli Appunti sull’evoluzione del sindacato di Romani, 1981), a partire dalla convinzione che il sapere economico, giuridico e politico fossero essenziali per una rappresentanza efficace e moderna. Romani va, però, oltre questa visione funzionalista e sistemica del lavoro e della formazione sindacale: pur valorizzando gli aspetti tecnici, insiste sul radicamento etico e culturale della formazione; essa deve formare “persone nuove”, capaci di coniugare valori cristiani e impegno sociale, in continuità con l’idea di un sindacato “educatore e promotore della dignità del lavoro”. In ciò si intravede un’apertura, una possibile sostanziale continuità con la stagione successiva della formazione Cisl, molto centrata sulle competenze non tecniche del fare sindacato.
Tra i precursori della formazione rivolta agli adulti anche non precedentemente scolarizzati a cui i fondatori della Cisl potrebbero essersi ispirati, Bruno Manghi cita nel testo collettaneo Giulio Pastore e il sindacato nuovo (Lauria, Innocenti, 2019) anche le cattedre ambulanti del mondo agricolo, decisive per promuovere il progresso in agricoltura, nonché le società di mutuo soccorso, la cui funzione era anche di cooperazione all’educazione dei soci e delle loro famiglie.
L’introduzione in Italia dei metodi formativi attivi di origine statunitense, caratterizzati da un approccio esperienziale e partecipativo, avvenne principalmente a partire dagli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo. In questo periodo, l’industria delle partecipazioni statali iniziò a sperimentare non solo la contrattazione collettiva articolata, ma anche tali metodologie per migliorare la formazione e lo sviluppo delle persone al lavoro. Un contributo significativo in questo ambito fu offerto da Enzo Spaltro, tra i padri della psicologia del lavoro in Italia, che ha promosso l’adozione di tecniche formative innovative ispirate alle esperienze americane e centrate sul gruppo. Queste metodologie ponevano l’accento sull’apprendimento attivo e sulla centralità del discente nel processo educativo, in contrasto con i tradizionali metodi didattici meramente trasmissivi.
Un altro esempio dell’applicazione delle tecniche induttive significativo è rappresentato dai Centri interaziendali di addestramento professionale integrato (Ciapi). Istituiti a partire dal 1963, i Ciapi miravano a fornire formazione professionale qualificata, utilizzando metodi didattici attivi ispirati alle esperienze statunitensi. Il primo Ciapi fu inaugurato a Siracusa nel 1963, seguito da altri centri in diverse località del Sud Italia, tra cui Bari, Cagliari, Caserta, Chieti, Crotone, Reggio Calabria, Palermo e Latina. Questi centri rappresentavano un’innovativa politica di acculturazione industriale, promossa dal governo italiano in collaborazione con la Cassa del Mezzogiorno e la Confindustria, per favorire lo sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali. I Ciapi furono importanti anche per la Cisl, che ne evidenziò in diversi documenti dei suoi organismi il valore strategico, riconoscendo l’importanza che ebbero nel panorama della formazione permanente dei lavoratori.
Un ulteriore riferimento imprescindibile fu l’esperienza della scuola di Barbiana di Don Milani, capace di anticipare l’idea, non popolare all’epoca, di una formazione emancipante, centrata sul soggetto e sull’esperienza, contro l’istruzione passiva. Come ebbe a scrivere il sacerdote «i ragazzi si annoiano a scuola perché devono stare zitti, imparare a memoria e non possono discutere. Nessuno impara bene se prima non capisce, se non partecipa, se non è chiamato a dire la sua». L’idea che l’apprendimento sia un atto sociale e collaborativo, non individuale, è risalente a Dewey, Piaget e Vigotskij, ma ci volle Lettera a una professoressa (1967) per porla alla base di un ripensamento dell’agire dell’educativo, che riguardò anche la nascente formazione degli adulti.
Tra i primi a introdurre questo metodo nelle aziende non della sfera pubblica fu Gian Piero Quaglino, animatore dell’Isvor Fiat (Istituto per lo sviluppo organizzativo), la storica scuola di formazione del gruppo, fondata nel 1955, per il quale «la formazione è uno spazio in cui le persone si riconoscono come soggetti di apprendimento, si interrogano, mettono in discussione se stessi e il proprio agire».
Tuttavia, è importante notare che l’adozione di questi metodi non è stata uniforme né immediata. La transizione verso approcci formativi più attivi ha richiesto tempo e adattamenti alle specificità del contesto italiano. Da evidenziare il contributo dato in questo senso dai movimenti sociali cattolici, come le Acli, gli scout, ecc., che mutuarono le modalità di far formazione e proselitismo del cattolicesimo francese. Va ricordata la JOC (Jeunesse Ouvrière Chrétienne), fondata da Joseph Cardijn, che formò generazioni di giovani lavoratori e sindacalisti con il metodo del «vedere, giudicare, agire», una delle più influenti pratiche pedagogiche attive del Novecento, la cui efficacia fu riconosciuta anche a livello ecclesiale da papa Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra del 1961.
La Cisl svolse una funzione notevole, anche attraverso operazioni di straordinaria innovazione, tra cui il tentativo compiuto di adottare l’apprendimento cooperativo, nato nell’alveo pedagogico, alla formazione degli adulti (fu Edizioni Lavoro con il contributo dei formatori Cisl a tradurre e diffondere nel nostro Paese il volume di Spencer Kagan L’apprendimento cooperativo: l’approccio strutturale).
La sfida per la formazione Cisl odierna è diffondere la cultura e le pratiche della partecipazione, via irta di ostacoli, opposta all’antagonismo e non interpretabile come il “mettersi d’accordo in qualche modo” con l’azienda. Partecipare comporta entrare nel merito, sapere leggere i dati, sapere interpretarli e tradurli in soluzioni che, nel contempo, elevino il benessere organizzativo e la capacità di produrre valore. Il tutto si traduce nell’acquisire le competenze per fare ciò che è sempre stato complicato ottenere, ovvero incidere nelle decisioni attinenti all’organizzazione, anche nei suoi aspetti micro.
La storia della formazione Cisl è lunga: conforta sapere che esiste nella nostra vicenda «una tensione ineliminabile e giusta, pur con tutte le difficoltà che si possono incontrare» (Manghi in Lauria, Innocenti, 2019) risalente a Pastore e Romani, che ci dà speranza e motivazione a proseguire, cercando di essere all’altezza dei tempi.
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