Quante donne scelgono la Cisl? Secondo quanto dichiarato dall’attuale Segretaria generale Daniela Fumarola lo scorso gennaio, circa 2.017.230 (1.140.296 lavoratrici e 876.934 pensionate), pari al 48,4% degli iscritti.[1] Una percentuale inferiore di una manciata di decimali rispetto a quella pubblicata nel Bilancio di missione 2019-2020 (con dati 2020), in cui le iscritte erano il 48,9% su un totale di 4.069.111 aderenti.[2]
Se volessimo, in questo 75° anniversario dalla fondazione della Cisl, ricostruire una serie storica della composizione di genere degli iscritti ci troveremmo di fronte a diverse difficoltà, una delle quali probabilmente insuperabile: fino almeno alla metà degli anni Ottanta i dati erano solo aggregati. In pratica non si sapeva quante donne c’erano nella Cisl; non si sapeva «in quali categorie, livelli professionali sono collocate», e per questo, «per avere maggiori e migliori elementi di conoscenza senza dei quali è impossibile oggi operare e individuare scelte», il Coordinamento femminile nel suo documento preparatorio all’Assemblea dei quadri del 1984 chiedeva che venisse attivato «da subito il tesseramento disaggregato».[3] Quello però che si sapeva anche allora era l’efficace sintesi fatta dal Segretario confederale Mario Colombo alla precedente Assemblea dei quadri, la quarta, svoltasi nel 1980: e cioè che in Cisl c’erano «tante iscritte, molte militanti, poche dirigenti».[4]
Di queste iscritte, militanti, dirigenti, sebbene piuttosto numerose, non molto valorizzate sono le biografie e le storie di vita che sono state raccolte nei libri di testimonianze pubblicati negli anni (qui ne citeremo solo alcuni, senza la benché minima pretesa di esaustività) e pochi, anzi pochissimi, i nomi di cisline universalmente conosciuti all’interno della nostra stessa organizzazione.[5] Frequentemente la “notorietà” è più consolidata a livello locale, a conferma del fatto che tante donne hanno operato e tuttora operano con successo sul territorio, nelle aziende, difendendo i lavoratori e collaborando alla crescita associativa della Cisl. Un’azione rimasta a lungo poco conosciuta, «come i santi minori, che hanno costruito e segnato il cammino della cattolicità, ma che la chiesa dimentica, ignora».[6]
Tante iscritte, dunque, perché fin dal suo primo nascere, la Cisl raccoglie larghi consensi tra le lavoratrici, attingendo in particolare a quella generica «massa grigia» individuata da Pastore fin dal 1949, proprio in opposizione all’idea di creare un «sindacato di colore»[7] ma che ben rappresenta la condizione di tante donne, da un lato lontane da una esplicita appartenenza politica ma vagamente gravitanti attorno all’identità cristiana e dall’altro instabili economicamente perché adibite a lavori stagionali, magari a domicilio, e quasi mai “a tempo indeterminato”, visto che la creazione di una propria famiglia le trascinava spesso definitivamente fuori dal mercato del lavoro fin dal matrimonio. Si pensi, in ambito rurale, anche nel Mezzogiorno, alle raccoglitrici di olive, alle braccianti agricole, alle tabacchine, alle conserviere; in ambito urbano alle operaie tessili e alle professioni che cominciavano a costruire il settore terziario, come le domestiche, le telefoniste, le commesse e le impiegate, senza dimenticare il nascente ambito sanitario ed educativo: infermiere, insegnanti, vigilatrici d’infanzia, ecc.
In tutti questi settori quasi esclusivamente femminili le tante iscritte si trasformano abbastanza facilmente in militanti, spinte dalla voglia (e anche dalla necessità) di essere d’aiuto a sé stesse e alle colleghe nel superare condizioni di lavoro ancora molto oppressive. Ad esse la Cisl offre – oltre a un approccio non rivendicativo a priori e che, volto alla contrattazione, viene percepito come più concreto e vicino all’esperienza quotidiana – un’opportunità preziosa, cioè quella della formazione. Attraverso le migliaia di corsi di base organizzati anche nelle realtà più periferiche, le donne colgono la possibilità di sanare una delle zavorre che le tenevano, in quel primo ventennio di dopoguerra, in una condizione di inferiorità sociale e di dipendenza economica, cioè lo scarso livello scolastico (si spiega anche per questo il grande successo che otterranno, in seguito, i corsi delle 150 ore). Dovuto a scelte arbitrarie della famiglia d’origine («Mio padre diceva che non era il caso che studiassi, […] non era una persona in difficoltà economica, aveva possibilità, ma credeva che uscendo dal paese potevo diventare una ragazza di strada. Anche mia sorella non aveva studiato e lui diceva che non poteva fare differenza tra noi due», racconta Bruna Giudici[8]) o alle condizioni di indigenza ampiamente diffuse anche nelle regioni del Nord Italia («Dopo le medie inferiori la mamma gli altri [figli] li aveva mandati tutti al famoso stabilimento Legler, sai, 4.000 operai […], e lei non mi voleva però mandare, diceva sempre a mia sorella: è l’ultima, facciamola studiare. Però purtroppo allora, in tempo di guerra, non si poteva, i soldi erano quelli», ricorda Clemenza Leidi[9]), le future militanti entrano spesso in fabbrica a 14-15 anni, e colmeranno poi autonomamente, anche grazie all’attività sindacale, le lacune lasciate sui banchi di scuola. Tra le tante che rimarcano più volte la sensazione di inadeguatezza legata al fatto di “non aver studiato abbastanza” e l’impegno profuso per riuscire a superarla, Marisa Baroni rivendica con orgoglio il soprannome “Andreatta” (ministro del Bilancio e della Programmazione economica nel secondo governo Cossiga di fine anni Settanta) attribuitole dai colleghi sindacalisti per la sua abilità nel risanare la situazione finanziaria di tante strutture territoriali dell’allora Fulpia (la Federazione unitaria lavoratori prodotti industrie alimentari).[10]
Dalle molte militanti, che forniscono un solido livello di prima rappresentanza aziendale, escono però poche sindacaliste a tempo pieno, e ancor meno dirigenti, intese come elette ai ruoli di responsabilità nelle segreterie di categoria e nelle Unioni, di cui l’esperienza di Francesca Meneghin rappresenta un felice, precoce esempio.[11] Le esperienze più comuni sono quelle di partecipazione ai direttivi (Consigli generali) o agli esecutivi delle Federazioni, più raramente in quelli delle Unioni; il livello resta spesso quello della provincia. Al I Congresso Cisl a Napoli, nel 1951, le donne sono 34 su 768 delegati, cioè il 4,4%; cinque entreranno nel Consiglio generale nazionale insieme a 98 uomini, e solo una (Ines Ferro, allora responsabile della Commissione femminile nazionale) nel Comitato esecutivo, a fronte di altri 25 eletti.[12] Cifre affatto sorprendenti se collocate nei primi anni Cinquanta, quando la percentuale di donne lavoratrici si aggirava intorno al 20%, ma che sollecitano qualche riflessione in più se riviste, in peggio, più di un quarto di secolo dopo: all’VIII Congresso Cisl a Roma, nel 1977, andranno 31 donne su 1012 delegati, cioè il 3% secco; cinque di loro saranno elette nel Consiglio generale nazionale insieme a 98 uomini, e nessuna nel Comitato esecutivo, composto da 50 membri. Alle soglie degli anni Ottanta, nel frattempo, il tasso di attività femminile stava per raggiungere e superare il 32%.[13]
Questi numeri sono il risultato finale dei tanti racconti che descrivono il perdurare nel tempo dell’inconciliabilità della carriera sindacale con una vita famigliare in cui la donna è il centro di tutte le attività di cura. I ritmi e gli orari irregolari di lavoro, la necessità di spostarsi quasi giornalmente sul territorio provinciale e regionale (quando non nazionale) in situazioni promiscue fanno selezione severissima delle “candidate”, circoscrivendo i massimi ruoli di responsabilità a livello di Federazione nazionale a un piccolo gruppo di valorose, spesso non sposate, e se sposate senza figli. Nei rari casi in cui siano anche madri, significa che possono contare su una rete famigliare solida, o su un marito con idee particolarmente progressiste.[14] All’etichetta del sindacalista come lavoro “sconveniente” per una signora attribuita dalla morale cattolica più conformista, si somma poi la convinzione (non espressa a parole, ma praticata nei fatti) dei sindacalisti che il loro lavoro, in fondo, non sia adatto al genere femminile e che comunque, nel caso, le donne possono essere ottime segretarie organizzative ma certo non segretarie generali.
Avviene così che la prima generazione di cisline, cioè delle nate prima del 1945, arrivi a conquistare un posto nelle Segreterie nazionali di Federazione, anche in settori prettamente femminili, non prima degli anni Settanta: le più note sono Augusta Restelli per la Filta (Federazione italiana lavoratori tessili e abbigliamento, dove arriva nel 1977 e ne diventa Segretaria generale nel 1985)[15] e Marisa Baroni per la Fulpia (in Segreteria nazionale nel 1977). Nel settore scolastico, i due sindacati che oggi compongono la Cisl Scuola, ma che fino al 1997 organizzano gli insegnanti in base al ciclo di studi (l’uno, il Sism, della scuola media e l’altro, il Sinascel, della scuola elementare e materna) e che già nel 1951 avevano tra il 50 e il 70% dei posti coperti da donne, dovranno aspettare, rispettivamente, il 1986 con Lia Ghisani (già componente di Segreteria dal 1977) e il 1993 con Daniela Colturani per avere due donne a capo delle strutture nazionali. A livello di relazioni internazionali, invece, la figura di riferimento più significativa resta Fabrizia Baduel Glorioso.[16]
In tutte le loro storie si trovano caratteristiche ricorrenti: una formazione giovanile o comunque una vicinanza a una delle tante forme dell’associazionismo cattolico (le Acli, l’Azione Cattolica, la Gioc, ecc.), che le spinge all’azione in campo sociale; un’adesione alla Cisl come espressione di tale impegno e come presa di distanza da una proposta sindacale troppo rivendicativa e legata alle influenze partitiche; un grande senso di responsabilità nei confronti dei lavoratori che rappresentavano e l’entusiasmo di partecipare a una complessa ma imponente opera di democratizzazione e giustizia sociale.
Non si percepiscono, nelle loro parole, i tratti del femminismo comunemente inteso, ma che la Cisl potesse essere più accogliente con le donne questo sì, era chiaro. Rispondono alle consuetudini maschiliste con intelligente ironia, come quando Marisa Baroni, stanca dei ritardi dei colleghi uomini alle riunioni settimanali di segreteria, dopo neanche un’ora interrompe i lavori per andare a comprare un golfino, o per andare dal parrucchiere, o per fare la spesa;[17] Elvira Iacovissi,[18] invece, fa saltare loro il pranzo per riuscire a prendere il treno che la riportava a casa. Ricorrono invece a una maggiore fermezza per respingere apprezzamenti non richiesti (e non graditi) sulla loro avvenenza.
Non mancano momenti di delusione e sconforto quando realizzano le interferenze, anche pesanti, nella vita privata e percepiscono l’aspettativa altrui – implicita ma pressante – di veder sacrificata alla presenza nel sindacato anche la serenità sentimentale. Un episodio molto significativo è ancora di Marisa Baroni: «In Cisl […] furono sollevati dalla nostra separazione, perché avevano paura di perdermi, come se una donna non potesse avere una famiglia ed essere una brava militante. Era un modo paternalistico, maschilista di giudicare, non c’era la valutazione delle mie capacità».[19]
Declinano il lavoro sindacale al femminile con disincantato realismo, difendendo in particolar modo le donne in quanto componente più penalizzata sul mercato del lavoro e in azienda. D’altra parte, formare sindacaliste affinché si dedicassero in particolare al tesseramento femminile era la finalità ufficiale con la quale molte, durante gli anni Sessanta, vengono invitate a lasciare il lavoro in fabbrica e cimentarsi con la vita sindacale. Questi contesti vengono sfruttati non solo per il tesseramento, ma anche per fare un lavoro di “scouting”, cercando di individuare se qualche lavoratrice fosse particolarmente portata a cominciare un percorso di rappresentanza. Alessandra (Sandra) Codazzi,[20] in questo, è pioniera e maestra indiscussa.
È anche da quest’opera paziente di “dissodamento” e “fertilizzazione” di un terreno considerato marginale che trarrà forza il movimento dei delegati che comincerà con il Sessantotto e che vedrà un grande allargamento del coinvolgimento femminile, facendo emergere la seconda generazione di cisline. Il rinnovamento portato dal tramonto delle Commissioni interne e dal passaggio ai Consigli di fabbrica fa perseguire loro con rinnovata forza sia temi già battuti della penalizzazione femminile come gli inquadramenti bassi, i salari non parificati, gli orari non conciliabili con le esigenze delle famiglie, sia le nuove tematiche dei servizi territoriali, dei turni e del part-time, del lavoro casalingo e della disoccupazione, cui si appassiona ad esempio Luigia Cassina.[21] L’organizzazione e le modalità di lavoro vengono poste in discussione non solo dentro le aziende, ma anche dentro il sindacato, al quale si comincia a contestare apertamente – e vigorosamente – l’impostazione troppo maschile e la palese esclusione delle donne dai ruoli dirigenti. In questi anni, il movimento studentesco avvicina alle tematiche sindacali centinaia di giovani, tra cui Rita Pavan, che racconta nella sua autobiografia[22] la vivacità dell’ambiente milanese di fine anni Settanta, caratterizzato dalla presenza nella segreteria dell’Unione provinciale di una figura destinata a fare la storia della politica lombarda: Fiorella Ghilardotti.[23]
Con gli anni Ottanta, le cisline cominciano a capitalizzare il lungo percorso di emancipazione compiuto, ed emergono infine in maniera sempre più evidente con la consapevolezza «di una specificità e di una complessità che il sindacato non può eludere o rimuovere». Ad accelerare il processo, il decennio precedente – gli anni Settanta – fatto di esperienze aggregative, di riflessioni e contrapposizioni anche aspre sperimentate attraverso il movimento femminista, i rapporti nella Federazione sindacale unitaria e l’interconfederale donne Cgil Cisl e Uil che aveva dato conferma della necessità di riunirsi per fare “massa critica” e sviluppare una azione concertata. Ma mentre ancora nel 1978 i termini erano polemici e apertamente contestatari,[24] nel documento del 1984 citato in apertura si trovano vari spunti programmatici per “declinare la Cisl al femminile”, cioè mettere a frutto nell’organizzazione la grande potenzialità di una componente fino ad allora scarsamente considerata e ancor meno valorizzata nelle capacità e nelle competenze, ma che si faceva portatrice di un proprio «contributo di elaborazione e di proposta». Si identificano gli ambiti più critici da ripensare insieme alla componente maschile, a partire dalle condizioni sperimentate dalle donne che vivono l’organizzazione e nell’organizzazione, per poi passare a «come le donne stanno nel sindacato, come sono rappresentate e come gli strumenti che si sono date, i coordinamenti, riescono […] ad esprimere una cultura che sia assunta dal sindacato e diventi elemento determinante delle sue scelte politiche»[25] [corsivo mio].
Promotrice del documento e convinta fautrice del passaggio “dalla protesta alla proposta” è Carla Passalacqua,[26] dirigente scolastica piemontese da poco «fatta fuori»[27] dalla Segreteria nazionale del Sinascel (il Sindacato Nazionale Scuola Elementare), alla quale era arrivata nel 1977 grazie alle sue conquiste a favore di una scuola e di un sindacato più moderni e democratici, che accetta l’incarico di responsabile del Coordinamento femminile nazionale propostole dalla Segreteria confederale nonostante non avesse «nessuna esperienza di lavoro con le donne, di femminismo, di specificità di genere e dei temi che ne derivavano».[28] In quale atmosfera si mette al lavoro prendendo il posto di Luisa Saba, nel 1982, lo descrive lei stessa nel suo ultimo intervento in pubblico: «All’inizio non fui accettata bene dalle donne, mi vedevano come quella mandata lì dagli uomini per farle “rientrare nei ranghi”, mentre gli uomini mi vedevano come quella che sarebbe stata sconfitta. Non scommettevano neppure sulla mia sconfitta, la consideravano certa, al massimo era un problema di data».[29]
La data non arriverà mai, poiché Carla esce dal sindacato nove anni dopo per diventare vicepresidente della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità presso il Ministero del Lavoro. Lascia dietro di sé, però, un’eredità impossibile da ignorare: un Convegno nazionale Donne Cisl nel 1981, l’attivazione dei Coordinamenti donne a tutti i livelli e in tutte le categorie contemporaneamente a un rilancio di iniziative formative specifiche, due grandi manifestazioni unitarie nel 1986 e nel 1988, in cui si pongono al centro i temi della disoccupazione femminile, della legge – allora in discussione – sulle azioni positive, della violenza sessuale, facendo così uscire definitivamente il movimento femminile sindacale dall’impasse del rivendicazionismo sterile.
Non ultima, ottiene la deliberazione del Consiglio generale confederale che introduce nel dicembre 1988 una quota minima del 10% di donne sul complesso dei candidati nelle liste congressuali. Nonostante le polemiche che la cifra suscita, è innegabile che non sarebbe stato possibile proseguire senza l’introduzione di un vincolo formale, visto che nei suoi primi 35 anni la Cisl non era stata in grado di far superare alla presenza femminile nelle strutture direttive la soglia del 4% a fronte di circa un milione di iscritte.[30] Non che la situazione nella Confederazione fondata da Giulio Pastore fosse diversa da quella delle altre grandi organizzazioni di massa, sindacali e partitiche, né aziendali, né tantomeno della società in generale. Però già nel 1991 la Cgil comincia a introdurre un obiettivo minimo del 30% in tutti i settori per arrivare cinque anni dopo a una soglia del 40%.[31]
L’introduzione delle cosiddette “quote rosa” come strumento incentivante avviene dunque in Cisl piuttosto a rilento, dovendo superare scetticismi e ostracismi più o meno palesi, sia da parte maschile che femminile. A partire però dalla stagione congressuale 2005, la prima in cui viene sperimentato l’obbligo di una presenza del 30% (per entrambi i sessi) nelle liste dei candidati e con gli aggiustamenti successivi volti a riparare alle distorsioni che si verificano all’atto pratico, si può constatare un progressivo miglioramento del precedente squilibrio. Nel 2016, dopo che nel 2007 vengono modificati i Regolamenti prevedendo la presenza di almeno una donna negli organismi esecutivi dove la presenza femminile è pari o superiore al 30%, la ricerca Idee per l’altra metà di domani[32] promossa da Giovanna Ventura, allora segretaria organizzativa nella Segreteria Cisl nazionale guidata da Annamaria Furlan, attesta il superamento a tutti i livelli, per quanto riguarda i Consigli generali, della quota del 20%, con i valori massimi di presenza femminile (29,11% e 26,56%) nelle categorie e nelle unioni territoriali e i valori minimi (24,68% e 22,27%) nelle categorie e nella Confederazione nazionale. Si riproduce dunque la stessa dinamica: sul territorio è più facile che al nazionale, nella categoria di appartenenza è più facile che nelle Unioni. Da allora i dati sembrano aver raggiunto, mediamente, nella composizione degli organismi elettivi, la fatidica quota del 30%, così come riportato nell’ultimo Bilancio di missione disponibile.[33] Tuttavia mentre scriviamo (a stagione congressuale ancora in corso) risultano in carica solo due Segretarie generali su 19 Usr (10,2%) e tre Segretarie generali nazionali su 18 categorie (16,6%).
Allora, oltre forse a riconsiderare la quota del 30% non come un punto di arrivo ma come un trampolino per una ripartenza (evitando di trasformarla in un placido materassino galleggiante), di fronte a questa oggettiva e perdurante difficoltà nel riuscire a rispecchiare la composizione delle iscritte nei quadri dirigenti, si potrebbe valutare quali prospettive di soddisfazione vedono le lavoratrici nella proposta di lavoro sindacale.
Due ricerche svolte a distanza di poco meno di vent’anni – la prima rivolta alle iscritte della Cisl di Milano,[34] la seconda alla Cisl Lombardia[35] – riportano un risultato sorprendentemente simile nelle risposte alla domanda: “Perché non accetti un impegno maggiore nel sindacato”? La risposta più scelta è che fare sindacato non è compatibile con gli impegni di vita e di famiglia; le altre due opzioni sono il disinteresse verso la proposta e la convinzione di non sentirsi adeguata (oltre al timore di ripercussioni in azienda).
Resta dunque ancora oggi insoluto, per le donne, il problema della conciliazione tra ritmi di vita e lavoro (sindacale). Si potrebbe perciò gettare la spugna, e ammettere che quello del sindacalista sia un lavoro solo per uomini, o solo per single, o solo per chi ha la possibilità di essere sempre reperibile. Oppure ci si può parlare, tra uomini e donne che svolgono lo stesso mestiere, e cercare di adattare l’organizzazione e i metodi del lavoro alle esigenze delle persone, come ci si prefigge di fare nelle contrattazioni aziendali.
La Usr Cisl Emilia Romagna lo ha fatto, nel 2022, e ne ha tratto un interessante volumetto di riflessione organizzativa.[36] Non è detto che l’esperimento abbia fortuna, ma il successo sta già nel fatto che qualcuno si sia reso disponibile a interrogarsi e abbia voluto provare ad avviare un percorso usando un’altra prospettiva che, anche se ispirata da esigenze poste dalle donne, potrebbe in realtà migliorare la qualità (e l’attrattività) del lavoro di tutti i sindacalisti, facendo fare alla Cisl un ulteriore passo per uscire dalle strutture del Novecento e portandola nel nuovo secolo di una partecipazione più vera e sostenibile, a prescindere dal genere.
[1] Dati tratti dal sito della Confederazione, visionato in data 27/03/2025 (https://www.cisl.it/notizie/primo-piano/sindacato-cisl-boom-di-iscritti-nel-2024-gli-attivi-aumentano-di-70-mila-unita-fumarola-rinnovata-la-centralita-della-nostra-organizzazione-nel-rappresentare-i-bisogni-reali-del-mondo-del-lavor/#:~:text=%E2%80%9CE’%20rilevante%20la%20crescita%20tra,44%2C71%25%20sono%20donne .)
[2] Bilancio di missione Cisl Nazionale 2019-2020, p. 17. Reperibile online nella sezione “Bilanci, Tesseramenti e retribuzioni segretari confederali” del sito della Confederazione. In esso è pubblicato anche il dettaglio della composizione di genere di tutte le categorie.
[3] Le donne e la Cisl, una presenza reale e innovativa, in Supplemento a «Conquiste del Lavoro» n. 7 del 13 febbraio 1984, pp. 5-6.
[4] Aldo Carera, Donne, lavoro e sindacato (1892-2009), in Carera A., Coppola A. (2014), Ponti invisibili. Voci di donne, storia della Cisl 1950-2012,p. 112, Fnp Cisl, Roma.
[5] Campione certamente insufficiente, i nomi suggeriti nel testo intendono solo fungere da esempio delle diverse condizioni e situazioni storiche e sono mirati a stimolare la curiosità della ricerca e dell’approfondimento all’interno dei volumi proposti, sollecitando magari l’avvio di altre indagini biografiche e una maggiore accessibilità delle risorse archivistiche ancora non adeguatamente valorizzate.
[6] Carla Passalacqua, Voglia di contare ben oltre l’8 marzo, in Marcella Filippa (a cura di), Le vite di Carla P., Edizioni del Capricorno, Torino, 2017, p. 116.
[7] Vincenzo Saba, Giulio Pastore sindacalista, Edizioni Lavoro, Roma, 1983, p. 106.
[8] Classe 1922, operaia tessile a 15 anni nel Comasco; eletta in Commissione interna, entra nel direttivo di categoria e nel direttivo provinciale. La sua testimonianza si trova nel libro curato da Aldo Carera, La cognizione della Cisl, Edizioni Lavoro, Roma, 2003, pp. 213-219.
[9] Classe 1929, operaia tessile a 14 anni nel Bergamasco; eletta delegata di reparto nel Consiglio di fabbrica. La sua testimonianza si trova nel libro curato da Aldo Carera e Adriana Coppola, Ponti invisibili. Voci di donne, storia della Cisl 1950-2012, cit., p. 157.
[10] Anna Vinci, Marisa Baroni e la Cisl, Jaka Book, Milano, 2019, p. 113.
[11] Classe 1927, Francesca Meneghin è stata partigiana, fondatrice della Cisl di Treviso, politica della Democrazia Cristiana, operaia tessile. Nel 1957 è la prima donna della Cisl ad assumere l’incarico di responsabile territoriale Cisl di Vittorio Veneto (TV); la sua biografia è raccontata nel libro di Mauro Pitteri, La ragazza della bandiera. Francesca Meneghin e il libero sindacato, Cisl di Belluno Treviso, Carbonera, 2021, oltre che in un filmato omonimo.
[12] Ivo Camerini, Storia donne Cisl-Selez. 3, visionato in data 08/04/2025 (https://online.cisl.it/arc.storico/FOV3-00018670/I4163C415)
[13] Renata Livraghi, Dossier il lavoro femminile, in «effe», n. 3, marzo 1982, consultato online in data 08/04/2025 (https://efferivistafemminista.it/2014/12/il-lavoro-femminile/ ). I dati pubblicati a inizio marzo 2025 nel rapporto Cnel-Istat fissano il tasso di occupazione delle donne tra i 15-64 anni al 52,5% per il 2023. Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità, Documento di sintesi, p. 6, consultato online (https://www.cnel.it/Portals/0/CNEL/Comunicazione/PROGRAMMI%20EVENTI/Cnel_Istat_Il%20lavoro%20delle%20donne%20tra%20ostacoli%20e%20opportunit%C3%A0.pdf?ver=2025-03-06-101631-840×tamp=1741256197000 ).
[14] Adriana Coppola, Donne cattoliche e sindacato nella seconda metà del Novecento, in «Nuova Secondaria», n. 7, marzo 2018, p. 34.
[15] Classe 1938, comincia a lavorare a 14 anni in un’azienda calzaturiera del Varesotto, per passare poi nel reparto della stampa a mano alla De Angeli Frua di Milano. Racconta la sua ricca carriera non solo sindacale nel libro curato da Costantino Corbari, Impegno e passione, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni, 2013, pp. 326-332.
[16] Classe 1927, componente dal 1952 al 1965 dell’ufficio studi e formazione della Confederazione, dal 1965 al 1978 ha occupato la carica di responsabile dell’Ufficio per le relazioni internazionali. Partecipa attivamente alla creazione della Confederazione europea dei sindacati (Ces/Etuc) e ricopre poi la carica di presidente del Comitato economico e sociale delle Comunità europee di cui era membro fin dal 1970 in rappresentanza dei sindacati. Dopo la scadenza del suo mandato diventa parlamentare europea eletta, come indipendente, nelle liste del Partito comunista italiano.
[17] Anna Vinci, Marisa Baroni e la Cisl, cit., pp. 113-114.
[18] Classe 1934, insegnante di scuola materna nel Frusinate; eletta nella segreteria prima provinciale e poi regionale del Sinascel. La sua testimonianza si trova nel libro curato da Aldo Carera e Adriana Coppola, Ponti invisibili. Voci di donne, storia della Cisl 1950-2012, cit., p. 243.
[19] Anna Vinci, Marisa Baroni e la Cisl, cit., pp. 95.
[20] Classe 1921, reggiana, partigiana seguace di Giuseppe Dossetti; iscritta alla Cisl fin dalla sua fondazione, era una delle otto donne con responsabilità nazionali, in quanto a capo dell’Ufficio lavoratrici dal 1962. Eletta in segreteria nazionale Filta nei primi anni Settanta, nel 1976 si candida e viene eletta Senatrice per la Democrazia Cristiana.
[21] Classe 1945, entra a 17 anni alla Pirelli. Racconta la sua esperienza di delegata di fabbrica nel libro di Costantino Corbari, L’idea del dialogo, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni, 2017, pp. 137-145.
[22] Rita Pavan, Dalla loro parte, Homeless Book, 2021.
[23] Classe 1946, cremonese, dal 1975 svolge un’intensa attività sindacale a livello di base per la Fim Cisl nel Lodigiano, occupandosi soprattutto di formazione. Eletta segretaria confederale a Milano, nel 1992 diverrà la prima (e unica) presidente della Regione Lombardia prima di entrare nel Parlamento Europeo nel 1994.
[24] Si vedano i contributi contenuti nel volume, a cura del Coordinamento nazionale femminile Cisl, Questione femminile e sindacato, Nuove Edizioni Operaie, Roma, 1978.
[25] Tutte le citazioni precedenti sono tratte da Le donne e la Cisl, una presenza reale e innovativa, cit., p. 2.
[26] Classe 1930, attiva sindacalmente dal 1969, la sua storia è raccontata nel libro curato da Marcella Filippa, Le vite di Carla P., cit., oltre che in un breve documentario per la regia di Giovanni Panozzo, Bolle di sapone, realizzato in occasione dell’Assemblea organizzativa confederale del 2015 e visionabile online.
[27] Carla Passalacqua, Intervento al seminario “Donne, lavoro, sindacato”, in Marcella Filippa (a cura di), Le vite di Carla P., cit., p. 121.
[28] Ivi.
[29] Carla Passalacqua, Intervento al seminario “Donne, lavoro, sindacato”, in ibid, p. 121.
[30] Silvia Inaudi, Carla e il suo tempo, in ibid, p. 37. Nello specifico: «3% nei Consigli generali, 1,7% negli Esecutivi e meno dell’1% nelle Segreterie di Unione, con la maggior parte delle donne adibita a funzioni tecnico-amministrative».
[31] Angelo Acquafresca, Differenza di genere e “quote rosa” nel sindacato. L’esperienza della Cisl e della Fit nei Congressi del 2005, tesi di laurea presso l’Università degli Studi di Milano, 2005, p. 4.
[32] La ricerca è consultabile online, visualizzata il 9 aprile 2025 (https://www.cisl.it/wp-content/uploads/2016/06/Dati%20Altramet%C3%A0.pdf )
[33] Bilancio di missione Cisl Nazionale 2019-2020, p. 32. Reperibile online nella sezione “Bilanci, Tesseramenti e retribuzioni segretari confederali” del sito della Confederazione.
[34] Angelo Acquafresca, Differenza di genere e “quote rosa” nel sindacato. L’esperienza della Cisl e della Fit nei Congressi del 2005, cit., pp. 9-10.
[35] La voce delle donne iscritte alla Cisl Lombardia, BiblioLavoro, 2023, p. 79.
[36] Laura Dal Corso, La leadership nella dimensione partecipativa del sindacato. Una prospettiva di genere, Edizioni Lavoro, Roma, 2022.