Quando penso da uomo del sindacato vissuto nella laicità riformatrice della Uil agli inizi della Cisl, mi viene in mente la descrizione del voto nelle Acli che sancì la fine della esperienza della corrente cristiana sindacale nella Cgil unitaria.
Sono parole di un protagonista di allora, esponente poi di primo piano delle Acli di Labor, Vittorio Pozzar: «La votazione nel 1948 avvenne per appello nominale con una certa solennità: per 580 volte risuonò la parola …”libero”… per quaranta volte la risposta “cristiano”; una volta sola fu…unità federativa nella Cgil…».
Del resto fin dagli inizi “aclisti” la constatazione che la Cgil unitaria fosse nata prevalentemente per volontà politica aveva orientato quei sindacalisti guidati da Achille Grandi e da Giovanni Gronchi verso una fisionomia di natura riformatrice e autonoma dai partiti. E non è un caso che il mondo sindacale cristiano raccolto attorno ad Achille Grandi avesse di gran lunga preferito come primo Segretario della nuova Cgil Bruno Buozzi, riformista socialista, tenacemente unitario con il quale vi erano assonanze importanti su come avrebbe dovuto essere la nuova esperienza unitaria sindacale. Fino al punto che, dopo la uccisione di Bruno Buozzi, Di Vittorio descrivendo al suo partito il rapporto con i socialisti, sosteneva che li avrebbe di fatto rappresentati lui nei confronti del mondo cattolico, lasciando da parte di conseguenza alcuni dei punti fermi del progetto di Buozzi. Buozzi che, con la sua tenacia riformista era riuscito ad evitare, dopo la fine della occupazione delle fabbriche agli inizi degli anni Venti che la “sconfitta” si trasformasse in disastro, riuscendo invece ad ottenere risultati concreti importanti (le 48 ore di lavoro settimanale che si riuscì a portare a 40 ore soltanto poi nell’autunno caldo del 1969, la tutela dei sindacati, il riconoscimento delle Commissioni interne, la salvaguardia della salute).
Del resto quel riformismo non era semplice pragmatismo, ma discendeva da una cultura ben definita che non poteva riguardare anche il mondo del sociale cattolico di allora. Tanto è vero che Achille Grandi, dopo avere organizzato la corrente sindacale cristiana dalla quale nascerà poi la Cisl, mise alla direzione della Rivista di bandiera della corrente un ex riformista socialista, passato nel mondo cattolico e, come lui, fervente fautore della Repubblica.
Vi è insomma fin dalle origini della Cisl un tratto che spiega come dopo gli inizi non facili vi sia stata la possibilità di collaborare e interpretare i progressi dell’Italia industriale da parte in particolare di Cisl e Uil nate nello stesso fatidico 1950, con connotati che poi si sarebbero sviluppati nel tempo in modo non dissimile: il valore dell’autonomia, la volontà riformatrice, come spiegava spesso uno dei fondatori della Uil Raffaele Vanni (era un convinto riformatore), il ruolo delle Federazioni di categoria in una Italia che si avviava ad essere una realtà industriale importante.
A tutto ciò si aggiungeva un distacco netto dalle ideologie ed anche una autonomia vissuta senza sudditanze nei riguardi dei referenti politici che erano la Dc ed il mondo laico. L’insofferenza di Acli, Dc e Uil nei riguardi della “superiorità” della politica nei confronti del “sociale” è nota ed è ricca di numerosi episodi che hanno favorito negli anni Sessanta un rinnovamento di classi dirigenti, di strategie, di spinta verso l’unità sindacale (unitaria, non unica).
In questo senso il ruolo dei metalmeccanici fu rilevante, elaborando la contrattazione aziendale come ammise Giuseppe di Vittorio nel 1955 dopo la clamorosa sconfitta nelle elezioni delle Commissioni interne della Fiat. Il primo centro sinistra (1960-1969) ed il concilio Vaticano secondo (1962 – 1965), la distensione tra Usa e Unione Sovietica, mutarono profondamente tutti i parametri sociali e politici valorizzando i risultati delle iniziative sindacali.
La nuova classe dirigente della Cisl, della Uil, della Cgil comprese l’importanza di un legame stretto con i lavoratori in fabbrica e la esigenza di abbattere muri antistorici della divisione sindacale per confrontarsi ognuno liberamente ed utilmente con le proprie idee (non era più sufficiente parlare ai lavoratori, era decisivo parlare con loro e farli votare sulle scelte e sulle forme di lotta). In questo senso l’azione creativa di Pierre Carniti e del gruppo unitario della Cisl degli anni Sessanta fu fondamentale per avvicinare le posizioni dei gruppi dirigenti della Uilm e della Fiom.
Le nostre tradizioni non si annullavano, l’orgoglio di organizzazione non veniva dimenticato, ma ci si era procurati un vasto campo di proposta e di lotta unitaria. Ed i risultati non hanno mentito nei riguardi di quelle scelte. Allora si pose davvero e senza ideologismi la base per una nuova partecipazione dei lavoratori alla vita sindacale. E quella partecipazione non poteva non proseguire con scelte in due direzioni: per migliori e più estesi diritti; per far crescere la conoscenza del mondo del lavoro che non poteva rimanere sequestrata solo dalle classi più benestanti.
Come dice un antico proverbio gutta cavat lapidem: la Cgil cambiò molto in quegli anni. E questo mi fa pensare che in fin dei conti la scelta iniziale della Uil di non annullare in un bipolarismo voluto largamente sul piano politico nazionale e su quello internazionale (sindacato democratico e sindacato social comunista) e di costituire invece un sindacato laico e riformista sia stata una scelta positiva. Allora la nascita della Uil parve concorrenziale nei riguardi soprattutto della Cisl ed i rapporti fra le due organizzazioni non furono sempre idilliaci.
Ma quando Pastore con la famosa frase «marciare divisi, colpire uniti» fece capire che ogni forza sindacale in campo poteva assolvere a compiti decisivi per la dignità del mondo del lavoro e per cominciare a spartire gli effetti del benessere italiano che passava sotto il nome di “miracolo” economico, ci si rese conto che la tripartizione sindacale era una ricchezza e non una menomazione. Un primo colpo così fu dato dal movimento sindacale alla logica ferrea del “muro contro muro”. Una visione di quella Italia che era bene presente anche in Italo Viglianesi, Segretario generale della Uil.
Non va nascosto che uno degli elementi di distinzione fra la Cisl e la Uil era comunque un laicismo che sfociava spesso nell’anticlericalismo. C’era il timore nel mondo cattolico di veder offuscati i valori cristiani che già aveva preoccupato l’animo di Grandi fino a fargli sostenere che avrebbe difeso l’unità sindacale ad ogni costo, purché non venisse a mancare la libertà religiosa. Gli anni del Concilio modificarono entrambi gli atteggiamenti, tanto che da quel momento la capacità continua dei Papi, da Giovanni XXIII sino a Francesco, di affrontare con determinazione i problemi delle diseguaglianze e dello sfruttamento, delle ingiustizie e della emarginazione è divenuta una forza in più nel cammino sindacale di fronte alle nuove sfide.
Spesso non si riflette abbastanza sulle conseguenze che anche in campo laico generò il Concilio Vaticano II e non solo nella direzione della distensione e del dialogo. Si pensi alla scelta della Chiesa di celebrare la Messa nella lingua del popolo. Non era solo avvicinare il celebrante ed i fedeli, ma un segnale ad abbattere ogni barriera al dialogo più diretto. E se pensiamo che la piattaforma dei metalmeccanici del 1969 fu discussa nelle piazze, nelle parrocchie, nei circoli, ci accorgiamo quanto quell’invito ad esprimersi in un linguaggio diretto e comprensibile sia servito. Il risveglio della Chiesa conciliare del resto aveva dimostrato di fare breccia nella classe lavoratrice anche prima.
Basti ricordare il Natale in piazza Duomo a Milano. Era gli elettromeccanici e l’Arcivescovo Montini, poi Paolo VI. Il sindacato italiano e non a parole ha mantenuto in sé la custodia di un valore che oggi è insidiato ma senza il quale non vi è futuro per una società: la libertà. Lo dimostrarono le tre Confederazioni durante la prova terribile contro il terrorismo.
La spuntammo.
Allora fu una grande prova di responsabilità, ma anche di lealtà fra di noi. Lealtà che per alcuni settori del sindacato forse non era facile dimostrare. Un periodo nel quale la “personalità sindacale” era un patrimonio considerato comune, tanto da creare malcontento in quella parte della politica che riteneva invece intangibile la supremazia del partito sul ruolo del sindacato.
È interessante riflettere su come le tre Confederazioni impegnate in una fase assai difficile della vita economica e sociale, erano tratteggiate dai fautori di un ridimensionamento della loro azione, proveniente da una visione tutta ideologica e che esponeva il rapporto fra Governo e sindacati in questi termini: «Il Tg mostra tutte le sere Lama, Carniti e Benvenuto ammessi nelle grandi stanze, oligarchi (l’espressione nasce a Botteghe Oscure) ed è un tutt’uno indistinto di governanti, grandi industriali e finanzieri e di rappresentanti di quello che i vetero insistono a chiamare il proletariato. Decade la democrazia interna del sindacato, si accentua il verticismo delle decisioni (in Cisl e Uil più che in Cgil) e in corrispondenza di aggrava il distacco delle burocrazie sindacali dalle base…».
Una evidente caricatura dello sforzo sindacale di trovare soluzioni in momenti drammatici della vita economica del Paese che risponde ad una logica antagonista del tutto indifferente al rapporto con la realtà.
Ma allora il sindacato aveva già compiuto un salto di qualità notevole diventando un soggetto politico al quale era affezionato in modo particolare proprio Pierre Carniti. Un soggetto politico che si faceva rispettare da tutti, non utilizzava un antagonismo fine a sé stesso e non era il notaio di alcun Governo. Soggetto politico, certo, ma era possibile per la maturazione di una pratica autonoma solida e assecondata da una cultura sindacale all’altezza dei tempi.
Un solo esempio: quando fu fatto l’accordo per l’equo canone in Italia, il movimento sindacale trattò direttamente con il Governo. Allora i “notai” furono i partiti. Senso di responsabilità che non è mai mancato neppure durante i momenti più critici: quando l’Italia era sull’orlo del baratro nel 1992 e nel 1993 le tre Confederazioni riuscirono, dopo anni di scontri sulla scala mobile, a far prevalere gli interessi del mondo del lavoro e stipularono accordi con Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi che salvarono l’economia del Paese e la condizione del lavoro.
Ed in quella occasione non possiamo dimenticare che l’allora Segretario generale della Cgil Bruno Trentin fece prevalere le ragioni del sindacato su ogni altra considerazione di carattere politico.
Della Cisl, lo dico con convinzione, ho apprezzato quella concretezza dell’azione sindacale che non è né ideologica né preconcetta. Il sindacato deve saper trattare in tutte le situazioni e saper dire “no” con forza quando è il caso di dirlo. Ma quel “no” non ha come priorità il far cadere i Governi, bensì ottenere conquiste utili per lavoratrici e lavoratori e per aprire una strada di riforme vere e profonde, in una situazione dove nulla cambia con gli slogan o con l’attesa aventiniana. In questo senso ritengo che tutto il movimento sindacale dovrebbe essere più ascoltato dai Governi e dalla politica. Perché in esso vi sono proposte che andrebbero valutate e non sottovalutate come se il mondo politico temesse di perdere la sua autoreferenzialità.
Negli anni Cinquanta e Sessanta siamo cresciuti come esperienza sindacale, perché ci siamo fatti valere senza alcun timore reverenziale. Non è mancato l’antagonismo, il dissenso e la lotta. Ma se il mondo del lavoro è riuscito ad essere protagonista lo deve soprattutto a quelle generose e coraggiose classi dirigenti sindacali capaci di trasformare la protesta in proposta e capaci di realizzare vere riforme.
Bruno Buozzi ha insegnato molto al sindacato italiano: «non bisogna accontentarsi di sedere nel posto nel quale altri gli vogliono riservare».
Occorre scegliere dove stare e perché collocarsi proprio là dove si può contare, si può condizionare, si può migliorare. Nella ricerca continua delle migliori soluzioni possibili. Partecipare alla evoluzione economica, produttiva e sociale. E tale atteggiamento è ancora più necessario in una realtà mondiale dove la ricchezza e l’autoritarismo stanno assediando i diritti e la dignità del lavoro e delle persone. Ecco perché in particolare Uil e Cisl hanno avvertito nei confronti di Buozzi un legame ideale che non poteva essere dimenticato.
Quando si sostiene che il sindacato fa parte del Novecento, si dovrebbe ricordare invece di quanti Buozzi hanno agito nel movimento sindacale per evitare che mancasse ai lavoratori una voce ed una forza insostituibile. I Buozzi nella dirigenza, i Buozzi nei luoghi di lavoro, i Buozzi attorno al tavolo dei negoziati. È il motivo per il quale sono convinto che 75 anni sono ancora pochi per il movimento sindacale.
Le radici sono state ben piantate, la volontà di fare sindacato è nelle tre Confederazioni forte ed appassionata. Conta il futuro ed il futuro riguarda anche il movimento sindacale italiano.
Oggi viviamo una fase di grandi cambiamenti. La Cisl, la Cgil e la Uil non possono aspettare, non debbono avere paura, non possono essere “luddiste”. Ci sono dei rischi. Enormi, nuovi, pericolosi. C’è però una grande opportunità. Utilizzare le innovazioni non per favorire nuove diseguaglianze tra chi ha e chi non ha la gestione del cambiamento, ma per attuare la solidarietà e la valorizzazione delle persone. È una sfida. Va colta. L’unità sindacale rimane l’arma segreta per attuarla.