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Stiamo attraversando un’epoca buia, dove soffiano venti di guerra, spinte al riarmo e all’ipermilitarizzazione, angosce diffuse per ragioni economiche, climatiche, geopolitiche. Non sono certo tempi in cui si respira un’aria di apertura, curiosità, scommessa sul futuro.

In questo scenario anche le politiche migratorie – e in particolare quelle che riguardano l’arrivo di rifugiati in cerca di protezione, così facilmente scambiabili a uno sguardo superficiale e ideologico a flussi indistinti e incontrollati di migranti illegittimi e irregolari – diventano sempre più difensive, murate, espulsive, sia a livello europeo che nazionale. L’esternalizzazione delle frontiere e dei controlli va di pari passo con un progressivo restringimento del diritto all’accoglienza e alla tutela nei confronti di chi riesce a varcare i confini e accedere in qualche modo al territorio italiano. Una contrazione delle forme e della stabilità dei permessi di soggiorno connessi alla protezione nazionale di carattere umanitario, insieme alla compressione dei servizi volti a dare adeguato orientamento e strumenti per l’inserimento sociale ed economico in Italia, hanno reso i percorsi delle persone che cercano asilo ancora più tortuosi e incerti, rendendoli in questo modo ancora più esposti al rischio di sfruttamento, marginalità, esclusione sociale.

Per chi come me lavora da anni come ricercatrice e operatrice nel campo dell’immigrazione e dell’asilo questo contesto – in costante peggioramento, benché non nuovo – sembra produrre pesanti rischi non solo per i migranti che arrivano e rimangono nel nostro Paese, ma anche per le comunità che volenti o nolenti si trovano ad accoglierli. In questa chiave mi sembra che inquadrare le tematiche dell’accoglienza, ma ancor prima del rapporto con le nostre alterità, nella cornice della coesione sociale, ci aiuti a tracciare un campo non solo di analisi ma anche di azione, perché è un concetto che reinclude le comunità locali, il welfare e la giustizia sociale all’interno di un dibattito che altrimenti rischia di essere polarizzato e divisivo.

Una delle principali studiose di coesione sociale, Regina Berger-Schmitt, in una sua nota definizione, ne evidenza due elementi centrali: «la riduzione delle disparità, delle diseguaglianze, e dell’esclusione sociale» e «il rafforzamento delle relazioni sociali, delle interazioni e dei legami».[1] Già da questa sottolineatura risulta chiaro che coesione sociale non è sinonimo di omogeneità o di indifferenziazione; si prende infatti atto del fatto che una buona gestione della diversità culturale può addirittura rinforzare la coesione sociale e non minarla, senza per questo dover adottare politiche che annullano le differenze. La qualità della coesione sociale è quindi un elemento che caratterizza le comunità e che dipende da numerose variabili, non solo dalla diversità culturale e dalla gestione delle differenze.

Da questo punto di vista, lavorare con i richiedenti asilo e i rifugiati dovrebbe significare interrogarsi non solo sulle dimensioni dei diritti e sulle necessarie riforme per renderli realmente esigibili, ma anche sulle strategie da adottare per favorire in modo più generale la coesione sociale e il contatto interculturale, così da promuovere al contempo l’integrazione e il benessere dei rifugiati e l’integrazione e il benessere delle comunità locali. Non in alternativa o in opposizione, ma in una necessaria co-implicazione. Anche per questo le relazioni intergruppi tra comunità ospitante e rifugiati devono essere oggetto di politiche mirate. In questa direzione va anche l’approccio della cosiddetta community-based protection, ovvero la protezione dei rifugiati incentrata sulle comunità, che è diventata oggetto di approfondimento e di intervento, in particolare da parte dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), in base alla quale la comunità ospitante andrebbe immediatamente inclusa nella definizione delle priorità e nella programmazione degli interventi, riconoscendo la resilienza, le capacità, le competenze e le risorse dei rifugiati stessi, ma anche degli autoctoni cittadini locali.

Se si assume questa chiave di lettura, cambia necessariamente anche il focus del lavoro sociale con e per i rifugiati. Pur non dovendo mai rinunciare all’impegno diretto e di advocacy per garantire servizi e interventi di qualità e integrati nel welfare locale, diventa altrettanto importante concentrarsi sulla centralità delle relazioni e sul contrasto all’isolamento, la paura reciproca, il razzismo. Affinché il contatto tra gruppi diversi sia efficace, è necessario che tale contatto non sia casuale, sporadico ed estemporaneo. Da questo punto di vista il modello dell’accoglienza integrata e diffusa – alla base di quello che oggi è conosciuto come Sai, Sistema di accoglienza e integrazione – rappresenta una condizione facilitante, ma non sufficiente perché ciò si verifichi.

Certamente è necessario anche che le  politiche in favore dell’integrazione dei rifugiati costituiscano un volano di coesione sociale, ma ciò può avvenire a patto che non includano in maniera esclusiva ed escludente i rifugiati, ma si riverberino positivamente su porzioni più ampie delle comunità, enfatizzando ciò che rende simili i rifugiati (o alcuni tra essi) e la comunità locale (o specifici sottogruppi della stessa comunità locale) e offrendo occasioni di riconoscimento reciproco delle somiglianze, tanto nei problemi che nelle loro possibili soluzioni. Inoltre va considerato che l’integrazione sociale dei rifugiati, il senso di appartenenza che ne discende e il miglioramento della qualità della vita in termini di benessere generale e senso di autoefficacia non sono aspetti marginali dei percorsi di integrazione tout court, e per questo meritano di essere posti al centro delle politiche e dei discorsi pubblici sull’asilo e i rifugiati.

Diverse – benché non diffusissime – sono le iniziative che provano ad agire nel senso sopra descritto. Tra di esse, intendo qui approfondire Il programma di Community matching[2] che a partire dal 2021, in virtù del coinvolgimento e riconoscimento dell’Unhcr e del sostegno dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, attraverso i fondi dell’8 per 1000, ha visto le associazioni Ciac (Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale) e Refugees Welcome Italia come soggetti promotori in 12 città italiane: Bari, Bergamo, Bologna, Ivrea, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Parma, Ravenna, Roma, Torino. Il Community matching – come si legge nel sito di progetto e nel toolkit a disposizione di operatori ed enti territoriali – si propone come obiettivo generale quello di favorire l’integrazione delle persone rifugiate in Italia, sviluppando relazioni sociali significative che si immagina possano agire positivamente anche su altri domini di vita dei protagonisti: dalla stabilizzazione lavorativa a quella abitativa, dalla salute al senso di sicurezza, dall’apprendimento della lingua all’orientamento ai servizi e al territorio. Allo stesso tempo questo programma intende incidere anche sulle comunità locali, sviluppando una maggiore conoscenza del fenomeno dei rifugiati attraverso esperienze personali e quotidiane e favorendo una trasformazione sociale più complessiva, nella direzione dell’accoglienza, della solidarietà, del rispetto dei diritti.[3] Il Community matching rappresenta quindi un’esperienza interessante sotto almeno tre diversi profili: innanzitutto, per l’impatto che produce sulle vite delle persone rifugiate coinvolte; in secondo luogo, per gli effetti sui buddy volontari e le comunità in senso più ampio in cui queste relazioni prendono corpo; in terzo luogo, per lo sforzo di elevare tale pratica a vera e propria politica di integrazione, con un impegno congiunto da parte dei vari attori coinvolti per arrivare a una sua istituzionalizzazione, senza tradire la centralità dei punti precedenti.

In tre anni (fino a fine 2024) sono stati realizzati complessivamente 1357 abbinamenti tra buddy volontari e buddy rifugiati. Se ci si sofferma sul piano dell’impatto sulla vita delle persone rifugiate, si riscontra – sulla base di un’attenta analisi degli indicatori raccolti prima e dopo l’esperienza di matching – un notevole miglioramento della condizione generale delle persone rifugiate coinvolte (con valori sempre superiori al 30% nelle diverse annualità). Guardando ad aspetti più puntuali, si rileva ad esempio che il livello di conoscenza della lingua italiana da parte dei rifugiati è uno degli aspetti su cui il programma ha avuto maggiore impatto, grazie alla possibilità di avere scambi più assidui e significativi non solo con la persona volontaria, ma anche con una rete più ampia di persone italiane (nel 2023 ad esempio il 63% dei rifugiati ha migliorato il proprio livello di italiano).

Un altro aspetto su cui gli effetti sono stati particolarmente significativi è l’orientamento al territorio e ai servizi (ovvero la conoscenza dei principali servizi necessari per rendere esigibili i diritti di cui le persone rifugiate sono titolari, ma a cui spesso faticano ad accedere anche per una difficile conoscenza della burocrazia e dell’amministrazione pubblica italiane: per es. a chi rivolgersi per il medico di base, per i corsi di italiano, per il permesso di soggiorno, per l’Isee, per il codice fiscale, etc.), per il quale si registra un miglioramento pari all’83%. A migliorare sono anche gli indicatori relativi agli aspetti più “hard” del percorso di integrazione, come casa e lavoro: se è evidente che il successo/insuccesso in questi ambiti dipende dall’intreccio di fattori complessi e strutturali, non è secondario provare a rilevare – senza pretesa di dedurre correlazioni causali – le variazioni sopraggiunte anche su questi aspetti così problematici e delicati. Nel 2022, il numero di persone che a fine progetto ha dichiarato di avere un contratto di lavoro è pari al 62% (+25% rispetto all’avvio del percorso, +20% nel 2023). Raddoppia il numero di persone che dichiarano di avere un contratto di affitto intestato. Il 17% delle persone che erano in accoglienza all’avvio del percorso, a distanza di 6 mesi ha trovato una casa in affitto. Resta un dato significativo su cui riflettere, che rappresenta la drammaticità dell’accesso al mercato della casa in Italia: il 50% dei rifugiati a fine percorso si trova senza accoglienza e senza contratto di affitto. Nel 2023 il 30% dei rifugiati che a inizio match non avevano alcun tipo di accoglienza istituzionale, né un alloggio autonomo, ha comunque trovato una sistemazione.

Ma oltre a questi dati davvero incoraggianti, mi preme sottolineare anche quanto emerge relativamente agli effetti sui buddy volontari e le comunità in senso più ampio. Questo tema è stato tra l’altro oggetto della ricerca che ho condotto nel 2023 e che ha avuto come esito il libro uscito a fine 2024 Uno più uno non fa due. Promuovere comunità interculturali: il Community Matching tra rifugiati e italiani (Editpress, Firenze).

Il libro evidenzia come il programma stia riuscendo a creare una rete e un cambiamento che va oltre il singolo abbinamento, contribuendo alla sensibilizzazione dei cittadini locali e riducendo le distanze culturali. La community-based protection è esplorata come metodo efficace per promuovere la convivenza pacifica, l’inclusione e un senso di appartenenza per entrambe le parti e per ridurre le asimmetrie di potere e il razzismo, latente o esplicito. Come testimoniano le parole di una buddy: «da anni avevo a cuore il problema dei migranti, però il mio atteggiamento è cambiato da quando faccio questi matching, perché se prima avevo una sorta di atteggiamento di compassione, di pietà, ora invece, tramite questa relazione ho imparato un piano di parità, cioè questa cosa che io bianca ho pietà del nero, mi è passata completamente ed è bello, perché io adesso mi sento più alla pari, mentre quella compassione veniva da un senso di superiorità».

Un altro aspetto centrale riguarda l’effetto positivo del passaparola e delle reti sociali dei volontari che, coinvolgendo amici e familiari, ampliano l’impatto dell’integrazione. Il Community matching emerge come un potente strumento per creare ponti tra persone rifugiate e comunità locali, producendo un effetto domino di inclusione sociale e riduzione di pregiudizi. In media ciascun partecipante – italiano o rifugiato – ha parlato del programma di Community matching ad almeno nove persone, creando un impatto positivo che va ben al di là delle persone direttamente coinvolte. Inoltre, dalla ricerca è emerso in modo pressoché univoco, che il programma si è rivelato un potente mezzo per far conoscere luoghi nuovi ai buddy, ma anche per permettere a quegli stessi luoghi di essere attraversati, vissuti e frequentati da persone nuove, modificando il tessuto e il panorama urbano. I buddy escono per andare nei locali a prendersi qualcosa insieme, recandosi presso bar, ristoranti, trattorie, pizzerie, gelaterie, pub e altri luoghi di convivialità. Si dedicano anche a diverse attività di svago e culturali, come ad esempio andare al cinema, a eventi e feste, spettacoli teatrali, concerti, festival, zoo, bowling, oppure attività all’aria aperta come grigliate e picnic, o altre situazioni più di taglio culturale e formativo, tra cui biblioteche e università, mostre e musei.

Se da un lato è improprio attribuire a un’iniziativa come il Community matching l’aspettativa che possa produrre cambiamenti strutturali nella costruzione di comunità interculturali più coese o nel contrasto del razzismo, è invece comune e diffuso che proprio attraverso i legami che si sviluppano all’interno del programma si registrino dei piccoli ma sostanziali spostamenti: i buddy italiani hanno testimoniato che spesso proprio grazie ai racconti o a ciò a cui assistono e vivono insieme ai rifugiati a loro abbinati iniziano a vedere ciò che prima non vedevano e a sentirsi coinvolti, sentire che ciò che avviene ai loro buddy – ma anche ad altri sconosciuti razzializzati e discriminati – li riguarda. E con questa nuova consapevolezza e forza alcuni decidono di prendere parola nello spazio pubblico: gli effetti sono tutti da valutare e probabilmente si possono anche produrre talvolta degli esiti imprevisti, persino negativi, ma la rottura del velo di indifferenza e di non conoscenza sono già un risultato importantissimo. E, a quanto pare, contagioso.

Le relazioni di prossimità e di comunità che si sviluppano nell’ambito del programma Community matching – ma come in esso anche in tante altre esperienze similari – mostrano un doppio potenziale: nel costruire un legame inedito con una persona rifugiata non si accede solo a un’esperienza diretta delle tante forme di esclusione e disconoscimento cui migranti e persone razzializzate sono sottoposti; si ha anche la possibilità di agire concretamente per contrastare la diffusa negazione che tutto ciò stia davvero avvenendo. E per prodigarsi a partire da questa consapevolezza per ridurre le disuguaglianze e l’esclusione di cui si è testimoni.

Per questo ritengo che sia un valore imprescindibile poter coltivare tali legami, non solo nella spontaneità degli incontri che per fortuna avvengono al di fuori delle proposte progettuali come il Communtiy matching, ma anche e soprattutto in raccordo con le politiche pubbliche e gli attori che istituzionalmente ricoprono un ruolo nella tutela, nella protezione e nell’integrazione di richiedenti asilo e rifugiati. Poter rappresentare il “terzo” che non solo stimola e accompagna – accendendo spesso la prima scintilla – le relazioni di prossimità interculturale tra buddy volontari e buddy rifugiati porta linfa anche ai sistemi di accoglienza in termini di stimoli, punti di vista, risorse, mobilitazione diffusa. Anche per questo auspico che nel suo piccolo questo libro supporti le esperienze esistenti nel legittimarsi nell’arena delle policies a livello locale e nazionale.

Meno di 40 mila persone si trovano all’interno del Sai, quel sistema emancipante, diffuso, a diretta responsabilità delle istituzioni locali e con una forte partecipazione di enti del Terzo settore che ha storicamente rappresentato la punta più avanzata dei servizi per i richiedenti asilo e i rifugiati in Italia. Ma anche per questa minoranza non vi è garanzia che ciò si traduca in una promessa di reale integrazione dei rifugiati, né tanto meno in una focalizzazione sui processi interculturali di coesione sociale. Sappiamo infatti che negli ultimi anni anche nel Sai – sempre più marginale nel panorama generale dell’accoglienza, se è vero che più di 100 mila richiedenti asilo sono oggi accolti nel sistema straordinario – rischia di prevalere una logica di intervento prestazionale, erogativa e parcellizzata, dove trova difficilmente cittadinanza un approccio incentrato sulla comunità. Senza una specifica attenzione verso lo sviluppo di programmi di Community matching e di coinvolgimento dei rifugiati e dei cittadini locali insieme, l’accoglienza diffusa rischia di non avere gli ingredienti e la spinta per rendere davvero praticabile e praticato un contatto interculturale trasformativo.

Credo che la pista tracciata dal Community matching indichi alcune delle priorità verso cui dovremmo investire, non solo nell’accoglienza ma anche nelle politiche di coesione sociale tout court. Le relazioni interculturali sono in fondo una straordinaria palestra di cittadinanza.


[1] Berger – Schmitt R. (2000), Social cohesion as an aspect of the quality of societies: concept and measurement, EuReporting Working Paper No. 14, p. 3, ZUMA; https://www.gesis.org/fileadmin/upload/dienstleistung/daten/soz_indikatoren/eusi/paper14.pdf.

[2] Cfr: https://buddy.unhcr.it 

[3] Cfr: Toolkit Community Matching, 2022, pp. 66 e ss., al seguente link: https://buddy.unhcr.it/wp-content/uploads/2022/08/toolkit-unhcr.pdf.