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1. Impatto sociale della cultura sui processi di governance dei territori

La cultura stimola processi di innovazione e cambiamento tanto nelle organizzazioni quanto nel tessuto sociale, impattando, quindi, sui processi di governance di sviluppo locale.

A partire dagli studi di Landry e Matarasso nella seconda metà degli anni Novanta[1] il tema della valutazione degli impatti sociali e territoriali della cultura è stato oggetto di attenzione e, al contempo, di un complesso inquadramento per via, sia delle variabili che intervengono – e che sono diverse da un contesto ad un altro – sia per gli approcci utilizzati, sia per gli impatti che ne derivano.

Se per un verso vi sono esperienze che dimostrano l’impatto positivo della cultura sulla rinascita e rigenerazione sociale di luoghi, l’empowerment di territori e periferie, con annessa importante nascita di “nuova occupazione” (anche e soprattutto femminile) in alcune zone, dall’altro e allo stesso tempo emerge un quadro diversificato tale da rendere difficile l’individuazione di criteri comuni di valutazione degli impatti, tipici delle analisi di impatto economico-giuridico.[2] 

L’impatto delle iniziative di innovazione culturale sulla rigenerazione dei luoghi e degli spazi e l’addendum di occupazione che produce, sono oggetto della trattazione dei paragrafi seguenti.

La cultura e le imprese culturali che gemmano per effetto di azioni e investimenti sul territorio, come già evidenziato, sono considerate importanti non solo dal punto di vista sociale, ma anche occupazionale, poiché contribuiscono da un lato ad una crescita diretta dell’occupazione e della innovazione del capitale sociale, in misura pari o superiore rispetto ad altri settori produttivi,[3] dall’altro generano un effetto indiretto su altri settori dell’economia come il turismo o la comunicazione. L’effetto a cascata determinato è sul territorio, che produce ricchezza e innovazione.[4]

Boschma, [5] in un suo scritto sulle economie di prossimità, mette in evidenza come la creazione di spazi co-working e Fab Lab, quali nuovi luoghi di lavoro, abbiano prodotto un effetto di cambiamento del tessuto produttivo, anche nel rapporto di scambio tra imprese, istituzioni e comunità locali  e, quindi, anche sulle politiche.[6]

Si innesta pertanto, a parere della scrivente, un processo che ha vede la trasformazione anche degli enti locali nella gestione dei servizi e il loro passaggio da un ruolo di government ad uno di governance, nel quale l’aspetto tipico di tale trasformazione non riguarda esclusivamente il reticolato di soggetti pubblici/privati coinvolti e il ruolo di coordinamento svolto dall’ente pubblico, ma attiene al coinvolgimento dell’intera comunità locale. A tal proposito, le modalità di consultazione pubblica e di crowdsourcing nella definizione delle politiche da mettere in campo contribuiscono a ricomporre le smagliature che hanno contraddistinto in questi ultimi anni i rapporti tra la società civile e le istituzioni.

In tal modo gli enti locali, attraverso l’elaborazione di nuovi modelli di governance fondati sulla collaborazione tra soggetti pubblici e privati, anche con il coinvolgimento dei corpi intermedi e degli stakeholder del territorio, possono innescare meccanismi virtuosi di welfare.

Ne discende che in questo percorso di territorializzazione del welfare è necessario che ciascun contesto locale sia in grado di costruire «un sistema di protezione sociale sufficientemente solido e riconoscibile. In assenza di standard minimi e di regole certe e condivise, ogni territorio risponde, infatti, alle molteplici sfide del welfare locale con approcci, logiche di investimento e priorità diverse. Ovunque, però, ed in ogni caso, si rende necessario lo sviluppo delle competenze e delle capacità di progettare e programmare le politiche sociali da parte degli enti e degli attori vi che concorrono, a diversi livelli e con diversi ruoli».[7] 

Su queste basi e per rispondere alle mutate esigenze del mercato del lavoro, anche per effetto della crisi economica, che impone un cambiamento di paradigma nella visione del ruolo del soggetto pubblico e un necessario ripensamento dei modelli di sviluppo, si sono diffusi sempre più, soprattutto tra le aziende di piccole e medie dimensioni, le reti di impresa [8] insieme alle cooperative e ai consorzi (senza dimenticare il ruolo degli enti bilaterali, come delineato nel decreto legislativo n. 276/2003, che però assumono un ruolo maggiore nella garanzia di forme di assistenza di natura sanitaria e previdenziale).

A tal proposito una parte della letteratura ha osservato che «il paradigma industriale tradizionale, che suggeriva la ricerca di concentrazione e di economia di scala, concede pari dignità al modello delle reti, dei network, della flessibilità, dell’integrazione di distretti, alleanze e consorzi. All’interno della rete si realizza un coordinamento non sempre basato solo su regole gerarchiche e non fondato unicamente su meccanismi di prezzo. Siamo spesso al di fuori, cioè, della dicotomia williamsoniana mercato-gerarchia: siamo dentro relazioni verticali (bidirezionali), orizzontali, (paritetiche) e laterali (decentrate)».[9] 

2. Welfare culturale “sanitario” e benessere

Il tema del welfare culturale è stato oggetto di attenzione e studio da parte della letteratura scientifica, nel corso degli anni, soprattutto successivamente alla pubblicazione di alcuni studi epidemiologici che hanno dimostrato in maniera inequivocabile come la fruizione intelligente del tempo libero si associ a un prolungamento dell’aspettativa di vita e a una riduzione di alcune patologie degenerative, come la malattia di Alzheimer o il cancro.

Il professor Grossi, nel libro Cultura e salute, la partecipazione culturale come strumento per un nuovo welfare,[10] se un lato mette in evidenza i temi legati al rapporto privilegiato tra partecipazione culturale e stato di salute, dall’altro prende atto che in Italia la cultura è generalmente considerata “intrattenimento” ed è su tale aspetto che occorre una inversione di rotta.

Le chiavi interpretative della cultura sono diverse e si muovono non solo nell’ambito più strettamente culturale, inteso come tutela e valorizzazione del patrimonio materiale immateriale, storico e artistico, ma anche quale strumento di benessere individuale e della società, preso atto del grande valore e approccio multidisciplinare della cultura.

Ne discende, quindi, che l’attività culturale deve assumere una precisa valenza anche dal punto di vista del “benessere”, divenendo uno strumento in grado di prevenire il declino cognitivo, attenuare condizioni di stress e contribuire al benessere generale.[11] 

Lo stretto rapporto tra cultura e benessere (inteso come benessere psico-fisico) gode anche di diverse evidenze empiriche. Tra le più recenti vi è lo studio del 2018 dell’Università statunitense di Berkeley,[12] in cui si rileva una diminuzione dei marcatori infiammatori dopo aver vissuto esperienze culturali,  insieme al fatto, scientificamente dimostrato, su quanto ascoltare musica durante la chemioterapia aiuti a ridurre la nausea.

Su questa scia vi sono alcuni Paesi che credono fortemente nel valore terapeutico di arte e cultura; in Canada, ad esempio, le visite ai musei sono prescritte dal medico curante e rimborsate dallo Stato come se fossero farmaci.

E nel solco di questo orientamento che si colloca il welfare culturale riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità e definito dall’enciclopedia Treccani[13] come «un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale».

Nel 2015 l’Oms ha avviato il progetto Cultural contexts of health and well-being al fine di contribuire alla realizzazione della strategia della Regione europea (rappresentata dai 53 Paesi dell’area e non solo da quelli dell’Unione europea) delineata nel documento di Health 2020. A European policy framework and strategy for the 21st century [14], volto a orientare le politiche sanitarie nazionali secondo l’approccio della Salute in tutte le politiche[15] (Oms, 2013). Un lavoro poi confluito nella ricerca dell’Oms, What is the evidence on the role of the arts in improving health and well-being? A scoping review (del 2019)[16] che ha messo in evidenza il contributo delle arti al miglioramento del benessere e della qualità della vita.

Un modello di welfare, quindi, che può essere declinato in molteplici tipologie di attività, dalla promozione della salute, all’inclusione, all’invecchiamento attivo, all’introduzione di progetti come terapie complementari a percorsi terapeutici tradizionali e al loro utilizzo come supporto alla relazione di cura o come mitiganti per alcune condizioni degenerative.

Siamo nell’ambito di uno scenario frutto di un processo maturato negli ultimi venti anni che mira a «inserire in modo appropriato ed efficace i processi di produzione e disseminazione culturale all’interno di un sistema di welfare per farli diventare parte integrante dei servizi socio-assistenziali e sanitari che garantiscono ai cittadini il contesto per sviluppare il proprio potenziale, elemento centrale per il benessere (Life Skills, Oms), forme di cura e di accompagnamento necessarie al superamento delle criticità legate all’invecchiamento, a patologie, a disabilità, all’integrazione sociale a cui si associa il dovere di tutela sociale».[17]

3. Indicatori e metodologie di impatto

Le metodologie scientifiche di impact assessment specifiche sulla cultura iniziano a svilupparsi in maniera più strutturata negli anni Duemila con gli studi di Scott e Selwood[18] in un settore che tradizionalmente presentava delle difficoltà.

La misurazione dell’impatto e, prima ancora del set degli indicatori, non è cosa semplice perché non è sufficiente monitorare i dati e calcolare solo il numero dei visitatori; piuttosto è necessario individuare indicatori in grado di fotografare la multi-dimensionalità degli impatti generati dalla cultura.[19]

L’impatto è duplice: da un lato quello tangibile diretto o indiretto, che si misura attraverso l’effetto che l’istituzione culturale può generare a livello di economia locale, di posti di lavoro, di salari per le categorie degli addetti nel settore, di costi della catena di fornitura; dall’altro vi è l’impatto di natura intangibile che si genera nel momento in cui un individuo o una comunità sono a contatto con l’arte e il patrimonio, tanto in termini di apprendimento culturale quanto di benessere.[20]

Le principali metodologie di impatto sono tre. La prima è il metodo Cost-benefit analysis (Cba), che si sostanzia in una tecnica, la quale identifica e analizza gli impatti in termini monetari e stabilisce se i benefit degli investimenti superano i costi; essa è spesso utilizzata in ambito pubblico e privato per avere dati “economicamente” valutabili e scevri da altri fattori, al fine di valutare le decisioni di investimento più che per misurare gli impatti.

La seconda metodologia è Multiplier analysis (Ma) e serve a dimostrare il valore aggiunto di un impatto sull’economia più in generale. Tali impatti includono gli effetti diretti misurabili (occupazione) e indiretti (fornitori di servizi); tale tecnica coglie l’effetto “trickle down” o effetto cascata, ossia l’effetto che un’istituzione ha o può avere sull’economia. Nei fatti, tuttavia, tale tecnica non consente di valutare benefit di tipo sociale e culturale.

Poi vi è la Contingent valuation (Cv) che si caratterizza per essere una metodologia che utilizza un modello di “preferenze rivelate”. Nello specifico si sostanzia in una survey nella quale viene chiesto agli utenti di esprimere una preferenza specifica su un servizio o prodotto. Gli utenti sono così invitati ad indicare il valore tramite (a) la loro disponibilità a pagare (WTP – Willingness To Pay) per un servizio che è in realtà gratuito, o (b) la loro disponibilità ad accettare (WTA Willingness to Accept) la perdita di un servizio in forma di compensazione. La citata metodologia spesso si rivela adatta per alcune rilevazioni in ambito culturale, considerato che è un metodo che consente di attribuire un valore ad attività che non ne hanno uno convenzionale, di mercato e per prendere in considerazione anche il punto di vista di coloro che non usano direttamente un bene/prodotto (ma a cui attribuiscono comunque un valore).

Infine vi è la metodologia Social return on investment (Sroi) che, prendendo le mosse da una tecnica utilizzata in ambito prettamente economico e che combina elementi della multiplier analysis e della valutazione contingente per indicare sia l’impatto che il valore, e comprende una serie di indicatori finanziari, economici e sociali. Lo Sroi è stato applicato largamente nel settore privato e no profit e del Terzo settore.

4. Ritorno sociale sull’investimento (Sroi): punti di forza e di debolezza

Per effetto delle sue caratteristiche lo Sroi offre maggiore flessibilità in quanto fornisce una serie di indicatori che vengono costruiti ad hoc, e può essere utilizzato per monitorare l’andamento dell’impatto di un museo, ad esempio, nel tempo e infatti sono diverse le sperimentazioni proprio in tale settore.

Entrando nel merito della valutazione di impatto, essa dal punto di vista pratico valuta l’impatto sociale, economico e ambientale del lavoro svolto da un’organizzazione attraverso il coinvolgimento diretto con le principali parti interessate o stakeholder.

Il processo di valutazione passa per alcuni princìpi e fasi: a) il coinvolgimento delle parti interessate nella valutazione; b) la definizione di alcune proxy, scegliendo i parametri più rilevanti e quelli che meglio esprimono il valore sociale creato e sono misurabili; c) si individua un parametro che permette di mantenere un profilo di “realismo”; d) ci si impegna alla trasparenza e al rigore della valutazione dei dati; e) si considerano aspetti che possano essere ricondotti a proxy materiali, e sostanzialmente di natura monetaria; f) si procede infine alla verifica dei risultati.

La combinazione di dati qualitativi, quantitativi e finanziari al fine della valutazione dell’impatto, sia su una organizzazione, sia sul benessere generato, consente di avere un quadro più chiaro e abbastanza realistico. L’approccio scientifico, infatti, è quello della “Theory of change” che mira a esplorare se si realizza il cambiamento sociale e come il cambiamento può essere illustrato e comunicato allo scopo di dimostrare che il valore è stato creato.

Ne discende la centralità del coinvolgimento delle parti interessate che si sostanzia attraverso metodologie quali i focus group, le interviste, i World Café, i questionari di raccolta dati. Tale modalità, se da un lato consente, altresì, di avere anche una trasparenza del processo, poiché la definizione del valore sociale che viene creato e della mappa di impatto o catena di causa ed effetto dagli input agli output, vengono comunemente definiti tra l’organizzazione e le parti interessate; dall’altro, partendo dal bilancio finanziario che copre l’arco temporale di un anno per evincere dati finanziari relativi al soggetto che si propone di fare la valutazione del proprio rendimento sociale, si può applicare ad un quadro temporale più esteso. In tal modo si può valutare l’impatto di una serie di fattori che potrebbero essere intervenuti alla realizzazione di un dato risultato, come ad esempio il concorso di altri soggetti o eventi al raggiungimento del risultato, e che quindi non sono imputabili al contributo diretto dell’organizzazione o dell’ente.

E proprio la metodologia Sroi, al momento, per le evidenze empiriche appare quella più efficace, in quanto capace di fornire una evidenza quantitativa a fattori intangibili come gli impatti sociali e culturali. Tuttavia il ricorso allo Sroi è poco diffuso, fatta eccezione per le realtà che hanno nella loro mission obiettivi di natura sociale o che in qualche modo hanno un ritorno sociale spiccato delle attività poste in essere, come i musei prima citati. [21] 

Tuttavia un aspetto che una parte della dottrina evidenzia come critico riguarda alcuni aspetti di metodo che si prefiggono l’obiettivo di restituire una misura economico-monetaria dell’impatto sociale. [22] L’altro elemento che è valutato in maniera più critica è il ricorso a indicatori discrezionali per la valutazione fermo restando, come evidenzia Arvidson, che vi sono dei vantaggi in tale metodologia. Uno tra questi è la flessibilità e pragmaticità, considerato che lo Sroi può essere applicato in molti settori e in molte iniziative anche singole, purché venga definito in modo corretto e trasparente il tipo di impatto che si vuole misurare, senza la pretesa di stimare la totalità degli impatti sociali generati. In tale fattispecie entra in campo in modo importante la trasparenza della comunicazione dei risultati e la chiarezza con cui vengono definiti gli ambiti di impatto e le categorie di stakeholder coinvolte.

5. Spunti di riflessioni su cultura, valorizzazione del patrimonio e rigenerazione delle periferie

Il settore culturale e l’impatto sul territorio passano necessariamente dalla rigenerazione di aree comunali, zone rurali e interne (progetto Accadia) e borghi, oltre che progetti che vedono al centro le Città metropolitane e, quindi, aree urbane periferiche che necessitano di politiche di accompagnamento e supporto alla coesione sociale. Politiche che mettono insieme tanto gli aspetti legati alla culturale, quanto quelli legati al welfare e alla sua innovazione come ad esempio i progetti di innovazione diffusa. [23] 

Nello scenario più ampio che l’Unione europea definisce city makers [24] – e che colloca nell’ambito dell’Urban Innovative Actions – sono nati gli spazi collaborativi per l’innovazione sociale, i community hub, le imprese di comunità, le imprese sociali nei quali si rafforza il concetto di comunità e cittadinanza. [25] 

Ne discende che un fattore importante, che emerge dagli studi e dall’analisi dei diversi contesti, riguarda la gestione del patrimonio dei grandi attrattori e dei beni culturali e nel complesso del patrimonio pubblico che potrebbe e dovrebbe essere utilizzato a favore di progetti che fondono la dimensione culturale con quella dell’impatto sociale e occupazionale. Di recente l’iniziativa degli Stati Generali del Patrimonio Italiano che ha ottenuto in concessione da Roma Capitale la casa che fu dell’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, in Piazza Fontana di Trevi, si muove in questa direzione. [26] La città di Roma, in base Regolamento sull’utilizzo degli immobili di Roma Capitale per finalità di interesse generale, ha concesso al citato ente del terzo settore un bene storico e un luogo simbolico che diventerà un luogo di memoria e cultura e accoglierà studiosi, ricercatori, storici, giovani studenti per rendere il patrimonio fruibile, ma anche per essere uno strumento di “educazione civica” per le giovani generazioni.

Nel complesso tuttavia negli ultimi anni, e non solo per effetto della pandemia, si evidenzia che si sta assistendo ad un declino del patrimonio pubblico che in molti casi non solo non è “recuperato” e tutelato, ma neppure valorizzato, essendo spesso addirittura in stato di abbandono.

E laddove sono messe in campo modalità di valorizzazione, in molti casi si scontrano con la grande debolezza derivante dalla combinazione di inefficienti modelli di gestione e conseguenti bilanci nelle risorse pubbliche utilizzate.

È qui che il modello di gestione pubblico-privato necessita di essere rivisto alla luce di meccanismi di asset transfer a livello governativo in grado di impattare in maniera efficace sui territori. Degli elementi a supporto sono rappresentati dalle capacità delle istituzioni (sia nazionali sia locali) di amplificare gli effetti spill-over delle iniziative messe in atto, al fine di concorrere a creare valore nella filiera urbana, a partire dalla promozione dell’imprenditorialità e della rappresentatività della comunità locale nella pianificazione strategica dello sviluppo urbano sino alla valorizzazione tout court del bene e dell’ambiente.[27]

È evidente che si dovrebbe intervenire anche sul tema del cambiamento di paradigma dei manager pubblici della cultura nella direzione di attivare, magari anche mutuando da esperienze straniere come il Regno Unito ad esempio, modelli sostenibili di gestione pubblico-privata che vada al di là del mero sbigliettamento, intercettando esigenze di valorizzazione del bene nell’ambito delle peculiarità territorio, partendo anche della imprese culturali e creative. Il tutto sulla base di un modello partecipativo.[28] 

Allo stesso tempo c’è da rilevare la necessità di far dialogare i territori e le comunità con gli strumenti finanziari (sia della programmazione europea sia privata, legata altresì ai finanziamenti collettivi) per consentire di promuovere investimenti mirati che puntino anche alla sostenibilità ambientale globale e locale, in uno scenario generale di innovativi schemi di scambio tra asset pubblici e privati e di governance multi-stakeholder nella co-produzione di servizi.


[1] Matarasso F. (1997), Use or ornament? The social Impact of participation in the Arts, Comedia.

[2] Ratti M. (2015), “Outcome Indicators for the Cultural Sector”, Economia della Cultura, vol.1, pp. 23-45.

[3] Bakhshi H., Hargreaves I., Mateos-Garcia J. (2013), A manifesto for the creative economy, Nesta Operating Company, London; Tricarico L. (2018), Impresa culturale, impatto sociale e territorio: nuovi approcci e strategie di sviluppo,  in G. M. Caroli (a cura di) Evidenze sull’innovazione sociale e sostenibilità in Italia: IV Rapporto CERIIS sull’Innovazione Sociale, Franco Angeli, Milano.

[4] Sacco P., Ferilli G., Blessi G. T. (2014), Understanding culture-led local development: A critique of alternative theoretical explanations, “Urban Studies”, 51, 13, pp. 2806-2821.

[5] Boschma R. (2005), Proximity and innovation: a critical assessment. “Regional studies”, 391, pp. 61-74.

[6] Tricarico L., Geissler B. (2017), The food territory: cultural identity as local facilitator in the gastronomy sector, the case of LyonCity, “Territory and Archi- tecture”, 41, 16.

[7] Costa G. (2009), Prove di welfare locale. La costruzione di livelli essenziali di assistenza in provincia di Cremona. Franco Angeli, Milano.

[8] Per approfondimenti sul contratto di rete, si leggano Bianca M. (2010), Il regime patrimoniale della rete, relazione al convegno “Le reti di imprese, Università di Macerata, 2010 ; Scognamiglio C. (2009), Il contratto di rete: il problema della causa, in “Contratti”, (10), pp. 961-965. Sulla diffusione delle reti di impresa sul territorio italiano, si legga Colombo E., Mangolini L. & G. Foresti (2014) (eds), Quarto Osservatorio Intesa San Paolo sulle reti d’impresa, Intesa San Paolo, marzo 2014

[9] Bernardi A., Treu T., Tridico P. (2011), Lavoro ed impresa cooperativa in Italia. Diversità, ruolo economico, relazioni industriali, sfide future, Passigli Editori, Firenze.

[10] Grossi E. (2013), Teoria della complessità applicata all’interazione tra cultura e salute, in E. Grossi, A. Ravagnan (a cura di) Cultura e saluteLa partecipazione culturale come strumento per un nuovo welfare, Springer Verlag, Milano.

[11] Cicerchia A., Bologna E. (2017), Health, Wellbeing and Cultural Participation: Between Narratives and Indicators,  “Economia della Cultura”, 2/2017 (2), pp. 313-322; Lampis A. (2017), Towards an expanded concept of welfare definition. Cultural welfare projects of the Autonomous Province of Bolzano, “Economia della Cultura”, 2017 (1), pp. 131-136.; Grossi E. (2017), Cultural participation and health: Some medical and scientific evidences,  “Economia della Cultura”, 2017 (2), pp.175-188; Bodo C., Sacco P.L. (2017), Nota introduttiva/Introductory note, “Economia della Cultura”, 2/2017(2); pp. 153-164. Fisher R. (2017), Arts and Health in the UK: No longer in the margins of public policy?, “Economia della Cultura”, 2/2017; Fujiwara D., Lawton R.N., Mourato S. (2017), The health and wellbeing benefits of public libraries, “Economia della Cultura”, 2/2017, pp. 203-212; Sacco P.L. (2017), Health and Cultural welfare: A new policy perspective?, “Economia della Cultura”, 2/2017pp. 165-174.

[12] Il documento è consultabile al seguente link https://ggsc.berkeley.edu/images/uploads/GGSC-JTF_White_Paper-Awe_FINAL.pdf.  

[13] Il documento è consultabile al seguente link https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Welfare.html.

[14] Il documento del 2013 dell’Oms è consultabile al seguente link https://www.dors.it/documentazione/testo/201409/2013_Health2020-Long_ENG.pdf.

[15] Salute in tutte le politiche è un approccio che considera la salute in tutte le decisioni politiche, secondo health-inequalities.eu. L’Organizzazione mondiale della sanità ha adottato questo approccio. 

[16] Il documento è consultabile al seguente link https://www.who.int/europe/publications/i/item/9789289054553. La versione italiana, Quali sono le evidenze sul ruolo delle arti nel miglioramento della salute e del benessere? Una scoping review (Rapporto completo), è stata tradotta da CCW-Cultural Welfare in partnership con DoRS Regione Piemonte, Centro di Documentazione Regionale per la Promozione della Salute, autorizzato da Oms.

[17] Seia C. (2020), Verso un Welfare Culturale, IBSA Foundation, 24 June.

[18] Scott C. (2002), Measuring social value, in R. Sandell (a cura di) Museums, society, in- equality, pp. 41–55, London, Routledge; Scott C. (2006), Museums: Impact and value, “Cultural Trends”, 15, pp- 45-75; Selwood S. (2010), Making a difference: The cultural impact of museums, London, Sara Selwood Associates.

[19] Armbrecht J. (2014), Developing a scale for measuring the perceived value of cultural institutionsCultural Trends“, 23(4), pp. 252–272; Hooper-Greenhill E. (2004), Measuring learning outcomes in museums, archives and libraries: “The Learning Impact Research Project (LIRP), “International Journal of Heritage Studies”, 10, pp.151–174.

[20] Holden J. (2004), Capturing cultural value. How culture has become a tool of government policy, London, Demos.

[21] In Inghilterra vi sono esempi significativi di tale applicazione nel caso dei musei di East Anglia (MEAL), di Liverpool e di Manchester. Rispetto ad essi si rileva ciò accade, perché spesso vi sono aree di attività di natura prettamente sociale e non legate alle attività “core” di un museo e nel caso di MEAL, ad esempio, vi è anche una impresa sociale, che in accordo con la missione sociale, lavora principalmente sulla creazione di una community locale e sulla facilitazione delle persone ad entrare nel mondo del lavoro. Tra i casi da citare vi sono anche quello del Tyne and Wear Museums (TWAM), nel Nord Est del Regno Unito, che nel 2006 ha analizzato gli impatti sociali generati dal una mostra “Cinema India: The Art of Bollywood”. In Italia si citano nel 2017 il progetto della Associazione fiorentina MUS.E, che ha curato la valorizzazione del patrimonio dei Musei Civici Fiorentini (tra cui il Museo di Palazzo Vecchio, il Museo del Novecento, il complesso di Santa Maria Novella, la Cappella Brancacci, il Forte di Belvedere e le Murate).

[22] Pathak P., P. Dattani (2014), Social return on investment: Three technical challenges, “Social Enterprise Journal“, 10, pp. 91– 104; Arvidson M. Lyon F., McKay S., Moro D. (2010), Briefing Paper 49: The ambitions and challenges of SROI, Third Sector Research Sector, Birmingham.

[23] Tricarico L. (2018), Impresa culturale, impatto sociale e territorio: nuovi approcci e strategie di sviluppo, in G. M. Caroli (a cura di), Evidenze sull’innovazione sociale e sostenibilità in Italia: IV Rapporto CERIIS sull’Innovazione Sociale, Franco Angeli, Milano; Fareri P. (2009), Rallentare: Il disegno delle politiche urbane, Franco Angeli, Milano.

[24] European Union EU (2016), Urban Agenda for the EU, Pact of Amsterdam. Disponibile su http:ec.europa.eu regional policy sources policy themes urban-development agenda pact-of-amsterdam.pdf.

[25] Avanzi, Dynamoscopio, Kilowatt & Cooperativa Sumisura (2016), Community Hub: I luoghi puri impazziscono. Disponibile su http:www.communityhub.it wp-content uploads 2016 10 Community-Hub.compressed.pdf; https://www.dynamoscopio.it/portfolio_page/community-hub; Tricarico L. (2014), Imprese di Comunità nelle Politiche di Rigenerazione Urbana: Definire ed Inquadrare il Contesto Italiano,  “Euricse Working Papers”, pp. 68-14.

Tricarico L. (2016), Imprese di comunità come fattore territoriale: riflessioni a partire dal contesto italiano, ”CRIOS”, 11, pp. 35-50.

[26] https://www.romatoday.it/attualita/casa-sandro-pertini-roma-progetto.html

[27] Inguaggiato V. (2011), Gangeviertel, un caso aperto di riuso temporaneo per produzione culturale, Amburgo,  “Territorio”, 56, pp. 40-42.

[28] Caliandro C., Sacco P.L. (2011), Italia reloaded: ripartire con la cultura, Il Mulino, Bologna; Micelli S. (2016), Fare è Innovare. Il nuovo lavoro artigiano, Il Mulino, Bologna.