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Se il sottotitolo Viaggio economico nei capolavori della letteratura fosse stato il titolo avremmo potuto aspettarci una storia del pensiero economico attraverso i classici di questa disciplina. Invece Luigino Bruni esce da quei confini per andare a rintracciare la sua materia in altri territori altri, quelli della letteratura intesa come arte, poesia e romanzo. Ci porta e rileggere, o per lo meno a ripensare, a capolavori che tutti conosciamo, più o meno direttamente. Uno scavare che ci fa scoprire in quelle opere connotati di cui non c’eravamo accorti e arricchisce nella capacità di comprensione sia di quelle sia dell’economia.

Non dobbiamo sorprenderci, spiega Luigino Bruni, perché «Quando la letteratura ha voluto parlare della vita vera, non ha potuto non incontrare il lavoro, il consumo, il risparmio, le tasse». E questo suo scavo va a fondo. Mi aspettavo una serie di citazioni di passi in cui di affrontano temi economici, magari con un taglio leggero, da aneddoto, ma invece lo scopo dell’autore si rivela una riflessione sul rapporto fra etica ed economia e come questa sia espressa in grandi opere della letteratura e nella Bibbia, a cui dedica il più ampio capitolo finale. Una sorpresa che forse in una qualche misura è stata anche dello stesso Luigino Bruni, che nell’introduzione afferma che «Solo alla fine ho capito che le opere che commentavo erano capaci di dire da sole tutto ciò che si deve dire di essenziale sulla giustizia, sul dolore, sulla vita sul dono, e quindi anche sull’economia […]. Ma l’ho capito dopo: all’inizio c’era soltanto la loro bellezza, non c’era la loro morale».

Ci offre così uno stimolo a riflettere su vari aspetti dell’economia, cosa davvero utile oggi che è pervasiva e dominante in tutti i campi della vita umana, e l’economicità è divenuta il criterio principe di valutazione di fatti e azioni: conveniente e non conveniente in molti casi prevale e soppianta l’alternativa fra giusto e ingiusto.

I capitoli sono otto e ciascuno tratta una grande opera della letteratura, con una eccezione, il primo, dedicato ad una illuminante comparazione fra la Divina Commedia e il Decamerone. Dante è intrinsecamente medioevale. Una grande dimostrazione che i medievali non sono secoli bui, ma resta ancorato a una visione per cui la mercatura era incivile, i profitti erano cattivi e i prestiti ad interesse erano sempre usurai. Boccaccio, nato meno di cinquanta anni dopo, è uomo del Rinascimento, ben inserito nel sistema economico che sostiene quella nuova fase culturale. Nasce in una famiglia di mercanti. Il padre è un dirigente della compagnia dei Bardi, una sorta di multinazionale dell’epoca, e cercò di farsi seguire nella professione, poi ripiegò sugli studi giuridici prima di rassegnarsi alla netta propensione per la poesia. Nella visione medievale, vivere di rendita per il possesso della terra era moralmente ineccepibile, mentre non lo era trarre un profitto dall’investire in operazioni commerciali e bancarie. Boccaccio invece conosce bene il mondo commerciale, i suoi miti, la sua cultura, i suoi vizi e le sue virtù. I mercanti non appaiono nella Divina Commedia, mentre sono i protagonisti di gran parte delle novelle e la mercatura è mostrata come mestiere alternativo a quello delle armi e comincia ad affermarsi un’altra etica: «il mutuo vantaggio è la grande virtù dell’economia: Dante rimpiangeva le antiche virtù basate sulle passioni, Boccaccio loda le nuove virtù basate sugli interessi reciproci».

Gli altri sette capitoli trattano ciascuno di una sola opera, di cui Bruni mette in luce un elemento peculiare. Eccone l’elenco: Shakespeare, il mercante e l’usuraio; Verga e la civiltà della roba; Sisifo, la fatica e la felicità; Pinocchio e la scoperta del valore; Cuore e il merito non è una virtù; I miserabili: la grammatica del dono; la Bibbia per azioni. 

Che il capitolo conclusivo sia dedicato alla Bibbia sorprende un po’. Per di più è il più lungo e articolato. Luigino Bruni ne è conscio e spiega che «il commento dei testi biblici è diventato, da oltre un decennio, un mio nuovo lavoro, che affianca e alimenta quello dell’economista e dello storico delle idee». Così ne ha scoperto lo splendore letterario e auspica che entri nella formazione scolastica assieme all’epica greca e romana.

Faccio qualche accenno ad una sola delle opere trattate negli altri capitoli: Cuore di Edmondo De Amicis. Un libro che ha avuto un grande successo internazionale e, sottolinea Bruni, è «significativo che i libri per ragazzi più amati e influenti nella cattolicissima Italia siano stati Cuore e Pinocchio, opera che parlano pochissimo di Dio e di religione». Per molti dei nati attorno alla metà del secolo scorso è stata una lettura inevitabile. Parla di una scuola elementare torinese nel 1881. Erano passati pochi anni da quando, nel 1877, era diventata obbligatoria la frequenza dei primi tre anni della scuola elementare. Protagonisti sono ragazzi di condizioni sociali molto diverse. Luigino Bruni mette in luce la funzione della scuola pubblica è la riduzione delle disuguaglianze sociali. Che, al contrario, «la meritocrazia, cioè l’ideologia del merito, invece incrementa. Tutti i bambini e le bambine vanno e devono andare a scuola, non solo i meritevoli. […] La mia capacità di potermi impegnare è dono: se torno da scuola e condivido la stanza con altri fratelli e sorelle, se devo andare a fare qualche lavoretto per sopravvivere, se in tutta la mia casa non si trova né una scrivania né un libro, il mio impegno nello studio ha molto poco a che fare col merito».

L’ideologia meritocratica che fa della competizione la regola generale della vita sociale in ogni ambito e aspetto è funzionale alla legittimazione del privilegio e al rendere colpevole la condizione di svantaggio sociale. Occorre tenere ben distinti due ambiti. Uno è la formazione, dove occorre colmare le differenze e sviluppare le potenzialità di ciascuno. Altro è la selezione per le attività negli apparati di produzione di beni e servizi la cui efficacia ed efficienza è correlata alla divisione del lavoro, alla distinzione di ruoli e la loro assegnazione alle persone che si ritiene porteranno i migliori risultati. 

Anche in questo caso però l’assegnazione di un ruolo non deve essere una condanna a ripetere sempre la medesima attività. Per ogni persona l’apprendimento è una capacità che dura tutta la vita, favorirlo e curarlo è chiave di successo di una collettività.

Quindi se è vero che ci sono casi in cui una severa selezione meritocratica può portare benefici sociali, questo non è affatto il caso della scuola. La scuola pubblica è nata con lo scopo di ridurre la differenza di opportunità data dalla nascita in contesti con differenti risorse economiche, culturali e relazionali. Un fine mai pienamente raggiunto e che richiede costante attenzione. 

Dire che tutti possono competere, che tutti possono gareggiare nella corsa per la conquista del podio è una distorsione della realtà. C’è chi nasce a bordo campo, ben alimentato e allenato, fornito delle migliori scarpette con la famiglia che sostiene e fa il tifo. C’è invece chi nasce a chilometri di distanza dal terreno di gara, per raggiungerlo deve scalare scalzo sentieri sassosi e farlo impegnerebbe una grossa fetta delle scarse risorse famigliari.

Non è un quadro melodrammatico, è una metafora della realtà che, in una certa misura, abbiamo visto nelle differenze di opportunità per scolari e studenti quando sono state chiuse le scuole in occasione della pandemia. Si presenta in maniera molto più acuta in diversi Paesi del mondo, con una accentuazione per le femmine. Ancora una volta i classici della letteratura ci aiutano a vedere e comprendere il presente.