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Giacomo Di Martino, Sergio Di Martino, Francesco “Checco” Marsella, Enrico Maria Papes.
Ricordate Una ragazza in due? I versi “mettete dei fiori nei vostri cannoni”? I titoli vendutissimi e suonati nei juke box di tutto il Belpaese: Proposta, Tema, La bomba atomica, Io e il presidente?
Ricordate Bandiera Gialla? Arbore e Boncompagni? Le estati del beat? Il Disco per l’estate, il Cantagiro?
Ci siamo. Avete, almeno lontanamente, nelle orecchie, i suoni e soprattutto le quattro voci di un originale complesso beat da hit parade di quell’epoca: il quartetto milanese de “I Giganti”.
Già, i mitici Sessanta, soprattutto quelli prima del ’68, avrebbe detto Edmondo Berselli, che a questa fugace e felice stagione ha dedicato un bel libro e uno spettacolo teatrale, portato in tutta Italia con successo da Shell Shapiro dei Rokes. Anni nei quali I Giganti riscossero grande successo.
Aprono il tema… I Giganti.
Fosse stato per “mamma Rai”, il meno possibile.
Considerata esagitata l’innocua Una ragazza in due, cambiato il titolo a Protesta divenuta Proposta, soprattutto con la canzone Io e il Presidente i nostri incorsero nella ferrea censura di un’Italia ancora perbenista, tanto che quest’ultima canzone veniva suonata nelle piazze del Cantagiro e regolarmente tagliata nella televisione dell’allora canale unico.
Certo i Giganti alternavano pezzi “educatamente” di protesta (che decenni dopo furono definiti da alcuni critici: “trasgressione formato parrocchia”) ad apparizioni non proprio memorabili nei film sentimental-musicali di cui è affollato il periodo che va dal 1964 al 1968. Ma l’intreccio delle diversissime voci dei componenti li rendeva una formazione assolutamente originale nel ricco e affollato novero dei complessi che si esibivano nel periodo d’oro del beat italiano. Un periodo in cui l’Italia si accorgeva che “i giovani esistono” ed in cui i giovani credevano realmente che non ci si “dovesse fidare di chi aveva più di trent’anni”.
Ma non sono i sette dischi in due anni del periodo d’oro dei Giganti, l’oggetto di questa recensione.
Non è l’Italia spensierata e ancora un po’ ingenua del beat e del Piper.
È un’Italia diversa.
Il ’68 ed il ’69 hanno cambiato il Paese. La stagione del beat si è esaurita. Cominciano ad avere successo i primi cantautori e si intravede, a livello internazionale e italiano, l’onda della musica progressive.
I Giganti, come molti gruppi (…complessi, si diceva) di quel periodo vivono un momento di crisi.
Decidono, loro che avevano già nel Dna le sperimentazioni musicali e l’attenzione ai temi sociali, di tentare un grande e rischioso salto.
Quello che era stato definito scherzosamente il “quartetto Cetra del beat” decide di mettersi in gioco e di provare a segnare un nuovo inizio della propria carriera.
I quattro incontrano un paroliere sconosciuto, Piero De Rossi, e decidono, con una casa discografica parimenti quasi sconosciuta, di produrre un concept album su una storia importante.
Tutta giocata su un flash back ed il racconto di un delitto di mafia avvenuto nel lontano 1936 in un paesino della Sicilia centrale.
È il 1971 e in Italia di mafia praticamente ancora non si parla.
I Giganti si circondano di alcuni dei migliori musicisti dell’epoca, si affidano ad un grande produttore allora alle prime armi come Gianni Sassi, e in due mesi di continue session e di lavoro spasmodico danno alla luce un’opera di denuncia intitolata: Terra in bocca. Poesia di un delitto.
I Giganti mantengono il loro stile, la centralità dei cori e delle voci, il lavoro di gruppo a cui affiancano importanza e urgenza sociale dei testi. Ed anche una coraggiosa sperimentazione musicale.
Terra in bocca, raccontarono i Giganti, nella forse unica intervista che riuscirono a rilasciare sul loro album, era nata «per diffondere, con i mezzi a nostra disposizione, il maggior numero di verità intorno al cosiddetto fatto economico più rilevante dopo lo Stato, cioè l’onorata società».
È la storia di un’ordinaria violenza quotidiana, del dramma della siccità e del pizzo che i paesani sono costretti a pagare alla mafia.
La storia di una ribellione, pagata cara. Un contadino, Calogero Sonnino, improbabile eroe, esasperato dal racket, decide di fingere di aver trovato l’acqua nel proprio podere e di volerla gestire autonomamente dall’onorata società, donandola ai propri concittadini.
Un affronto inaccettabile che porta all’uccisione del giovane figlio di Sonnino, già promesso sposo.
È il sedicenne “lungo e disteso” di cui cantano, nel disco, i Giganti.
La terra in bocca è, chiaramente, un classico simbolo mafioso.
La denuncia si affianca al lirismo quando i quattro cantano dello svenimento in Chiesa della fidanzata e dello smarrimento del padre, diviso tra i sensi di colpa e la volontà di vendetta.
Vendetta che il padre porterà a termine, per poi costituirsi.
Ma il finale è inaspettato e di speranza: durante la sepoltura del corpo del giovane ucciso, nel podere paterno, l’acqua viene fortuitamente trovata, aprendo la vicenda ad un finale certamente amaro, ma nel quale lo sgorgare dell’acqua purifica il sangue versato e apre al sogno di riscatto di un intero paese.
Terra in bocca avrebbe dovuto diventare un’opera rock. Essere portata nei teatri, anche nel Sud.
Originale e d’effetto la copertina del disco che mostra in primo piano i piedi, uno scalzo, della giovane vittima del delitto di mafia, una margherita e la foto dei quattro musicisti vestiti da contadini, appesa con una puntina sulla suola della scarpa del cadavere.
Fu, invece, cancellata dalle radio e dalle televisioni.
Nei credits i Giganti ringraziano allo stesso tempo Karl Marx e Gesù Cristo.
In Rai, racconta Mino de Martino, uno dei Giganti «non si poteva parlare né del Presidente, né del Papa, né della mafia». Il silenzio dei media fu assordante. Totale e assoluto. Era la stessa Rai, lo ricordiamo, che aveva censurato la canzone Dio è morto di Francesco Guccini, poi riabilitata da Radio Vaticana.
Il padrino, il famoso film di Francis Ford Coppola, arrivò nel 1972, un anno dopo l’uscita del disco.
I Giganti non ressero all’urto della delusione e delle pressioni. E di lì a poco, si sciolsero.
Il messaggio di Terra in bocca (e anche i contenuti, pensiamo al tema dell’acqua) è ancora attualissimo.
Dentro la musica e attraverso essa, viaggiano le relazioni, le promesse e le speranze di tutti. Musica e impegno sono legati nella storia di chi lotta per il cambiamento.
Nel 1971, però, era ancora difficile parlare di mafia, nonostante l’impegno di chi, già nei decenni precedenti, aveva compreso la reale natura delle cosche e si era speso per combatterle, denunciando, manifestando, scioperando, scrivendo libri e articoli, spendendosi nel mondo dell’educazione, del sindacato, della politica. Pagando di persona, e a caro prezzo, rimanendo ignorato dai media e avversato dalle istituzioni. Pensiamo a Placido Rizzotto e Danilo Dolci. Ma pensiamo anche ai Giganti.
Terra in bocca, ascoltato oggi, cinquantacinque anni dopo, ci appare quasi profetico.
I Giganti avevano compreso la strategia delle mafie che attecchiscono e prosperano nella povertà, materiale e di diritti.
La voce dei Giganti è stata, però, il contrario del silenzio.
E l’acqua che continua a sgorgare vuole ricordarci che la sconfitta non è eterna.
Anche grazie ai Giganti e al loro, troppo poco compreso, coraggio.