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«Le parole sono importanti», come grida Nanni Moretti nel suo film Palombella rossa.        

Raccontano la cultura di una società, ne condizionano l’evoluzione, influenzano i pensieri e i comportamenti: hanno un potere.

Il linguaggio veicola la nostra rappresentazione della realtà. Le parole, da sole, non bastano a cambiare la realtà, ma il modo in cui la raccontano contribuisce a cambiare l’ottica, il punto di vista su di essa. “Senza disturbare qui i guru del pensiero positivo, della psicoanalisi e della psicologia quantistica, è un fatto abbastanza intuitivo che usare espressioni nuove, e combinare le parole in modo diverso, aiuti a immaginare una realtà differente e che ai pensieri seguano le azioni per ridisegnare il mondo”[1].

È molto importante un uso consapevole e corretto del linguaggio.

Vox, Osservatorio Italiano sui Diritti, è alla sua VII edizione della Mappa dell’Intolleranza[2] che fotografa l’odio via social. Il linguaggio d’odio che si registra è indicativo di una società in cui la violenza verbale prelude alla discriminazione, all’esclusione, fino alla violenza fisica.

Dall’indagine risulta una forte radicalizzazione dell’odio, in particolare contro le donne e contro i diritti della persona. Da gennaio a ottobre 2022 circa il 93% dei tweet estratti sono negativi, contro il 7% di quelli positivi.

Per quanto riguarda, in specie, le donne, si evidenzia una preoccupante concomitanza dei picchi d’odio con i femminicidi, che era stata rilevata anche negli anni precedenti dalla Mappa dell’Intolleranza.

Le donne sono, quindi, le più colpite e rappresentano la categoria maggiormente odiata (a seguire, le persone con disabilità, le persone omosessuali, i migranti, gli ebrei, gli islamici), e quest’odio è sempre più spesso indirizzato alle donne che lavorano e alla loro presenza in ambito politico.

Non c’è solo il linguaggio d’odio: c’è un uso corrente e ricorrente delle parole, apparentemente più innocuo e ininfluente, che invece perpetua stereotipi e rappresentazioni distorte della realtà. Ne è un esempio l’uso del “maschile generico” (l’uso di sostantivi maschili senza connotazione di genere), non giustificabile, peraltro, nel caso della lingua italiana che contempla il genere grammaticale. I nomina agentis femminili sono forme previste nel nostro sistema morfologico. Eppure, facciamo ancora resistenza a declinare al femminile professioni storicamente maschili, quali l’avvocato, l’architetto, l’ingegnere, il ministro.

Il significato che attribuiamo alle parole va oltre il significato stesso. Ciò che vale è, infatti, la loro connotazione.

Nel caso specifico dei nomina agentis, continuare ad usare il maschile generico, anche laddove si parli delle donne, equivale a rappresentare un mondo in cui certe professioni sono, tradizionalmente, per l’uomo e la presenza della donna diventa l’eccezione.

Quindi, non è poi così marginale e secondario insistere perché si superi il maschile generico; non è solo una questione di forma, un tema – come alcuni sottolineano – per “femministe”, ma può servire a favorire il cambio di connotazione.

E allora: ci sono gli avvocati e le avvocate, gli ingegneri e le ingegnere, e così via. “Ciò che viene nominato si vede meglio”.[3]

La nostra percezione del mondo è ancora guidata da una propensione al maschile, non solo linguistica, ma anche culturale.

A ciò si lega il tema della disuguaglianza di genere che è ovunque ancora profondamente radicata. È un aspetto, questo, che va affrontato sotto tanti profili: normativo, strutturale, sociale, lavorativo, ma soprattutto culturale.

Il linguaggio è uno strumento di cambiamento di prospettiva e di evoluzione culturale decisivo. In questa direzione possiamo fare tanti esempi di parole, espressioni, sempre più in uso, che negli anni stanno orientando/condizionando il pensiero, il dibattito, e stanno tracciando la direzione del cambiamento, nella società e nel mondo del lavoro.

Espressioni come condivisione delle responsabilità di cura, genitorialità, conciliazione condivisa, che pongono su uno stesso piano il ruolo del padre e quello della madre e che si riferiscono ad un impegno comune nel cercare un equilibrio tra le varie sfere della vita, sono indicative di un cambio di ottica e della volontà di riequilibrare i profondi divari di genere, a partire proprio dalle parole.

Ri-equilibrare il rapporto tra uomini e donne significa non più dominanza del maschile, con la donna “secondo sesso”, per citare Simone de Beauvoir.

Allora facciamo attenzione a non accostare al termine donna quello di risorsa. Leggendo la Treccani, quale primo significato, risorsa è “qualsiasi fonte o mezzo che valga a favorire aiuto, soccorso, appoggio, sostegno, specialmente in situazioni di necessità”.

La donna è questo?

Oppure, piuttosto, al centro di un equilibrio nei rapporti di “genere” ci sono le persone, donne e uomini, semmai reciprocamente risorsa, nella società, in famiglia, nei luoghi di lavoro.

In effetti, la donna, risorsa nel significato poco sopra descritto, lo è: si pensi all’attività di cura e al lavoro domestico non retribuito, ovvero cucinare, pulire la casa, occuparsi dei figli e degli anziani.

Da sempre il lavoro di cura è appannaggio delle donne, come se ci fosse una predisposizione genetica a questo tipo di attività.[4]

Questa attribuzione quasi esclusiva è la madre dei tanti cosiddetti “divari di genere”, dall’accesso al lavoro retribuito, alle diverse tipologie di lavoro e ai percorsi di carriera, ai divari retributivi (in attività, ma poi anche al momento della pensione) e si incardina in un tessuto culturale che assegna alla donna un ruolo ben preciso e che stigmatizza tutti i comportamenti che da quel ruolo si discostano. Si fa fatica a prendere le distanze da determinate aspettative sociali, oltretutto in un sistema di welfare familistico in cui le attività di cura della famiglia (ergo della donna) suppliscono alle carenze di servizi sul territorio, ossia i servizi di assistenza ai bambini, agli anziani.

La centralità del lavoro di cura nella vita delle donne innesca un circolo vizioso che limita la partecipazione, nei tempi e nei modi, in tutti quegli ambiti (dal lavoro alle istituzioni) dove poter incidere introducendo e alimentando una prospettiva ed un linguaggio al femminile.

Abbiamo bisogno di liberarci dagli stereotipi. A partire dall’uso di un linguaggio che ci racconti di una società in cui «i diritti delle donne non sono altro che i diritti umani».[5] 


[1] Così si legge in Paola Setti, Non è un Paese per mamme. Appunti per una rivoluzione possibile, All Around 2019.

[2] Rappresenta la prima mappatura dell’odio online, via twitter, rivolto a sei categorie: donne, migranti, ebrei, musulmani, persone omosessuali, persone con disabilità ( www.voxdiritti.it ).

[3]Gheno V., (2025), Le parole sono uno sciame d’api. La violenza contro le donne: una questione culturale, Loredana Lipperini (a cura di), Sperling & Kupfer, Milano.

[4] A tal proposito, la sociologa e psicologa Nancy Chodorow alla fine degli anni Settanta del secolo scorso affermava che non esiste prova che le donne siano biologicamente più portate alla cura rispetto agli uomini, ma che anzi questa attribuzione (alle sole donne) sia piuttosto “innaturale”.

[5] Per riprendere le parole di Harriet Taylor (1807-1858), filosofa inglese esponente del femminismo liberale.