- Il sistema di relazioni sindacali del lavoro pubblico si è basato, dalla sua nascita nel 1997, su pochi e chiari elementi che in tutti questi anni ne hanno garantito stabilità ed esigibilità, al punto che, nato come modello provvisorio in attesa di una riforma generale anche di quello privato, ha finito per essere l’esempio di riferimento del Testo Unico sulla rappresentanza del gennaio 2014.
Questi elementi possono così riassumersi:
- una forte istituzionalizzazione procedurale, di contenuti, controlli e di raccordo tra livelli (qualcuno, forse esagerando, ha parlato di una sorta di libertà vigilata);
- l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi raggiunta con l’istituzione dell’Aran quale unico soggetto di rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (a garanzia della rarefazione delle controversie individuali e per impedire contratti pirata);
- la selettività misurabile (rappresentatività tout court) degli attori ammessi ai tavoli negoziali di entrambi i livelli;
- la fiducia, storicamente fondata, sull’azione unitaria delle organizzazioni aderenti alle principali Confederazioni che ne avevano condiviso struttura e funzione.
Mentre i primi due elementi, proprio perché fanno parte di quello che possiamo definire l’hardware del modello, sembrano mantenere una propria stabilità, i secondi due, più affidati alle dinamiche reali e negoziali degli attori, stanno evidenziando negli ultimi tempi incrinature che non è il caso di sottovalutare.
I luoghi in cui queste incrinature si presentano sono:
- le sedi del negoziato vero e proprio (vedi le contrapposizioni manifestatesi al momento del raggiungimento o in quello del mancato raggiungimento del quorum per la firma rispettivamente del contratto nazionale delle Funzioni centrali e di quello della Sanità pubblica);
- le aule di giustizia, come nel caso della sentenza del tribunale di Roma del 22/1/2025, n. 774/2025 (per il comparto Scuola-Università-Ricerca) che, riconoscendo ad un sindacato non firmatario le prerogative partecipative di secondo livello, ha interrotto il legame di coerenza tra soggetti dei due livelli e quello tra istituti della partecipazione e istituti della contrattazione così come definiti dai contratti in vigore. Di fatto negando alle parti firmatarie del contratto nazionale il diritto di regolamentare perfino le modalità delle reciproche relazioni (parte obbligatoria o prima parte dei contratti collettivi).
Seppure confidando nella capacità delle stesse parti sociali di riassorbire queste “incrinature”, dobbiamo anche ipotizzare che, quando nei luoghi della formalizzazione dei contrasti si presenta una incrinatura, nella vita reale siamo già in presenza almeno di una crepa.
- Questa possibilità può essere di stimolo per individuare nodi problematici del modello e per riflettere su possibili soluzioni che, senza intaccare la libertà e autonomia delle parti, sostengano comportamenti responsabili e trasparenti. Ma prima di iniziare ad esporre percorsi di riflessione su questi argomenti, mi corre l’obbligo di precisare in apertura che le ipotesi che esporrò non derivano dalle vicende degli ultimi mesi, ma sono mie convinzioni maturate nel corso di anni di analisi e di esperienze nel mondo delle relazioni sindacali; e che sono formulate nella convinzione che siano soluzioni che possano e debbano essere in grado di garantire il modello, qualunque siano gli equilibri tra parti anche nel futuro.
- Iniziando dalla rappresentatività, non metto in discussione la sua funzione di selezione degli attori ammessi al tavolo del negoziato nazionale – che ritengo funzioni bene anche nella individuazione del quorum (5%) richiesto – ma il fatto di produrre i suoi effetti anche e direttamente nella fase (post-negoziato) di misurazione del consenso, ricorrendo al quorum (51%) richiesto per la firma del contratto.
È mia convinzione che i due momenti non debbano necessariamente essere legati tra di loro: garantiti, attraverso la rappresentatività dei soggetti sindacali ammessi, consenso e responsabilità utili in entrata all’avvio del negoziato, il tavolo negoziale deve parlare un proprio linguaggio e mettere in atto proprie dinamiche e tecniche, verificare nei fatti il raggiungimento di un sufficiente consenso in uscita, senza precostituire l’interesse ad alleanze favorevoli o sfavorevoli alla firma, già conoscendo fin dall’inizio il traguardo (quorum) da raggiungere o da evitare.
In questa direzione, si può ragionare sulla opportunità di eliminare il quorum necessario per la firma e – sul modello di quanto già avviene al secondo livello di contrattazione – affidare la firma da parte dei soggetti disponibili (e della controparte) ad una valutazione in merito alla capacità di tenuta del contratto firmato da solo una parte della delegazione.
È in questo senso che va interpretata la locuzione “capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro” contenuta nella sentenza della Corte costituzionale 244/1996.
In questo modo si valorizza maggiormente la libertà e la responsabilità delle parti, decidano o meno di firmare il contratto.
Si potrebbe obiettare che il meccanismo è stato considerato tanto efficace da essere sostanzialmente fatto proprio (quando finalmente sarà vigente il Testo unico sulla rappresentanza) anche dal settore privato; ma non bisogna sottostimare le differenze tra i due settori del lavoro.
Come detto, il settore pubblico non corre il rischio di una dispersione contrattuale determinata da soggetti datoriali e/o sindacali che si collocano fuori dal modello condiviso da solo alcune delle principali centrali confederali di ambo le parti. Il modello “istituzionalizzato” del settore pubblico se da un lato lo mette al riparo dalle frammentazioni contrattuali, dall’altro lo espone al rischio di tenuta nei casi di stallo perdurante; uno stallo che potrebbe minarne la credibilità e suggerire ad un legislatore o ad una maggioranza governativa poco sensibile alle dinamiche sindacali (maggioranze di ogni orientamento o schieramento negli anni si sono mostrate sensibili a pratiche di disintermediazione) di intervenire unilateralmente per riempire il vuoto lasciato dalla impossibilitata conclusione del contratto nazionale. L’appiglio normativo, già esistente, è contenuto nell’art. 47-bis del d.lgs. 165/2001, che consente l’anticipazione di quota del trattamento economico in caso di ritardo nel rinnovo del contratto nazionale, e anche, per il secondo livello di contrattazione, nell’art. 40.3-ter che prevede l’emanazione di un atto unilaterale in caso di mancata stipulazione del contratto integrativo.
Il percorso può essere accompagnato da qualche cautela procedurale interna al modello contrattuale, da collocare nella immediatezza della decisione finale, come, ad esempio, la esplicitazione formale, scritta e motivata delle diverse posizioni di ognuna delle parti che garantisca la trasparenza del percorso e sia alla base della legittimità della scelta di procedere o meno alla firma da parte dei soggetti che abbiano espresso la disponibilità alla firma separata.
Una ulteriore cautela può riguardare le ipotesi di stallo del negoziato basato su differenze minime tra lo schieramento favorevole alla firma e quello contrario; in tale ipotesi sarebbe da definire lo scarto minimo rilevante.
- Una ipotesi non necessariamente alternativa a quella finora esposta può essere quella di eliminare – a determinate condizioni – il passaggio tra firma dell’ipotesi di contratto e firma definitiva del contratto.
Come si sa, la firma produttiva di effetti giuridici è la seconda, mentre la prima serve a dar inizio al percorso di controllo e autorizzazioni da parte degli organi istituzionali (Comitati di settore, Mef, Corte dei conti). L’art. 47 del d.lgs. 165/2001 prevede che in caso di certificazione non positiva da parte della Corte dei conti, le parti debbano riprendere le trattative, mentre in caso di certificazione positiva si dia corso alla firma definitiva del contratto.
Se il lasso di tempo che intercorre tra le due firme serve alla sola verifica di contenuto e costi, non è illogico ipotizzare che in caso di certificazione positiva faccia fede la prima firma. In questo modo, si eviterebbe la prassi delle firme successive, non di rado messe per garantirsi le prerogative del secondo tavolo, dopo aver utilizzato il lasso di tempo dei controlli di compatibilità come spazio per accrescere un consenso giustificante la mancata firma dell’ipotesi.
Anche in questo caso, la formalizzazione delle dichiarazioni motivate prima della firma, garantirebbe la trasparenza e la responsabilità.
- Focalizzare l’attenzione sul reale andamento del negoziato, significa innanzitutto monitorare i comportamenti degli attori, anche allo scopo di definire quali siano – a prescindere dalle decisioni assunte al momento della firma – i negoziatori responsabili e genuini cui riconoscere la qualifica di “sindacato firmatario”.
La sentenza del tribunale di Roma 774/2025 tiene in poco conto questo concetto o, per lo meno, subordina la volontà delle parti ad una interpretazione formale della sola legge che toglie spessore proprio al processo di contrattualizzazione previsto dalla riforma.
Questa sentenza, peraltro, si colloca in netta controtendenza con un orientamento abbastanza consolidato che invece richiamava la necessità per i non firmatari di prendere atto delle conseguenze delle proprie scelte e di non sottovalutare la loro presenza all’interno delle Rsu e la titolarità delle prerogative sindacali comunque garantite dalla qualifica di “sindacato rappresentativo”.
In questo caso si tratta di tener distinte le due qualificazioni in modo da evidenziare le scelte o le “non scelte” operate in corso di trattativa.
Riportando, come abbiamo visto nel precedente paragrafo 2.a, il requisito di rappresentatività al solo momento selettivo della legittimazione ad entrare nel modello di relazioni sindacali (e non anche a quello della misurazione percentuale del consenso necessario in uscita), possiamo disancorare il requisito di “sindacato firmatario” da ogni funzione e ingerenza indotte da fonti extra-negoziali, ragionando su quali possano essere i criteri interni al processo di negoziazione utili a definirlo.
Questo non significa voler negare, per definire il concetto di soggetto firmatario, le suggestioni provenienti dalle sentenze dalla Corte costituzionale 244/1996 e 231/2013 (parlo solo di suggestioni, perché ho presente che quelle sentenze si riferiscono all’art. 19 St., ma la loro formulazione ripetuta in due delicate sentenze le accomuna quasi a dei princìpi di diritto); né che dobbiamo rientrare nella definizione letterale fatta propria dalla Treccani, per la quale è firmatario “chi ha apposto la propria firma a un documento”.
In altre parole, si tratta di indagare più in profondità quale possa essere la reale volontà delle parti sulla base dei comportamenti messi in atto nell’intero corso del negoziato e della esecuzione del contratto (art. 1362 c.c.).
Intenzionalmente parlo di comportamenti e non di regole o norme, perché la relazione negoziale basata sui princìpi di correttezza e buona fede è alla base degli interessi tra le parti, che si legittimano reciprocamente proprio e solo sulla base dei comportamenti.
Lo sanno bene le parti che hanno firmato il Testo unico sulla rappresentanza del gennaio 2014 e il Patto per la fabbrica del 2018 che in più parti parlano di comportamenti da promuovere, da evitare, da sanzionare e meno di regole da rispettare.
Questi comportamenti che spaziano dalla fase precedente il negoziato (modalità e contenuti delle piattaforme), a quella del negoziato (tipo di relazioni con controparti e altre organizzazioni, attitudine all’iniziativa e proposte e alla collaborazione per la soluzione di problemi), a quella successiva (modalità di verifica dei risultati nei termini previsti dai rispettivi statuti delle organizzazioni sindacali e modalità di gestione del contratto anche al secondo livello), possono essere criteri di definizione e concretizzazione di comportamenti concludenti, utili a definire un sindacato firmatario anche in assenza di firma formale al contratto.
Se non ci si impegna ad individuare criteri concreti di valutazione, la definizione di sindacato firmatario resterà sempre una categoria eccessivamente astratta per poter essere di qualche utilità alla responsabilizzazione di un modello di relazioni sindacali.
Insomma, si tratta di evitare che un modello che tralasci di orientare le scelte degli attori in direzione della responsabilizzazione dei comportamenti, favorisca opportunismi da free rider e avalli la citata e criticata sentenza del tribunale di Roma, che riconosce prerogative partecipative a non firmatari, senza porsi il problema di equilibrio del modello e di indagare l’oggettivo svolgimento del tavolo negoziale. Si tratta di arginare creative soluzioni pseudoinclusive, come quella di una circolare ministeriale che ha istituito per prassi la figura del “sindacato uditore”.
La trasparenza di criteri di valutazione dei comportamenti di un sindacato genuinamente negoziatore (quali quelli appena abbozzati nelle righe precedenti) necessita di una fonte, per quanto impropria, che sia in grado di diffondere quelle che possiamo definire buone prassi anche a soggetti collettivi che non siano stabilmente inseriti nel sistema di relazioni sindacali.
Questa esigenza comporta che la loro definizione resti nella disponibilità delle parti sociali, anche perché una qualunque altra fonte sarebbe in stridente contrasto con l’art. 39 Cost. Questa funzione può essere svolta da strumenti condivisi (accordi o protocolli) o auto-vincolanti (codici di autoregolamentazione), sulla falsariga di quella che negli anni Ottanta fu la funzione assolta dai codici di autoregolamentazione sull’esercizio del diritto di sciopero.
- Ogni modello di relazioni sindacali e industriali ha regole che derivano dalle caratteristiche e dagli interessi dei soggetti coinvolti.
Se questo è vero per i modelli privatistici di ogni diverso Paese, tanto da rendere talvolta delicata la stessa trasposizione della normativa comunitaria, lo è maggiormente per i modelli riferiti al lavoro nelle pubbliche amministrazioni, per la loro maggiore vicinanza agli interessi e agli equilibri pubblici. E ancor di più lo è per quei sistemi amministrativi come quello italiano che, nonostante previsioni anche costituzionali di alleggerimento, ancora risentono di un modello centralistico e ministeriale che fa sentire le sue ombre anche sulle relazioni sindacali, soprattutto successivamente alla approvazione del d.lgs. 150/2009.
Anche nel nostro Paese – e nonostante le reciproche suggestioni (e qualche volta regole) che il mondo del lavoro privato e quello del lavoro pubblico si rimandano – l’unificazione dei due modelli è stata più immaginata e raccontata che perseguita e realizzata. E probabilmente non poteva essere diversamente.
Da questa convinzione sono nate le pagine che precedono. In esse ho cercato di ricavare possibili percorsi di riflessione partendo dalle sue caratteristiche e da quelle “incrinature” che il modello di recente ha evidenziato.
Tentando un approccio unitario, ho voluto legare le diverse prospettive ed ipotesi esposte; salvaguardando soluzioni che valorizzassero – nel bene e nel male delle proprie scelte – le parti delle relazioni sindacali; magari avvantaggiandosi di alcune rigidità (le ho definite istituzionalizzazioni) del modello, ma anche avendo consapevolezza dei rischi di inciampo o di ingerenza da parte di soggetti ad esso estranei.
So, mentre scrivo queste righe, che per fare questo c’è bisogno di soggetti istituzionali capaci di facilitare questo percorso di maggiore devoluzione al negoziato delle regole dei propri rapporti, senza interferenze o velleità di riconquista.
In fondo confesso di essere ancora un fautore (forse mai del tutto appagato) della capacità di interazione tra istituzioni e società civile; di quell’art. 2 Cost. che riconosce il ruolo delle formazioni intermedie nel garantire solidarietà politica, economica e sociale.
Qualcuno l’ha chiamato e lo chiama ancora consociativismo.
Io, che non ho mai creduto nell’appiattimento dei ruoli e delle funzioni, ma ancora credo nella leale collaborazione tra istituzioni e società civile, la chiamo democrazia.