Nella Gazzetta Ufficiale del 13 aprile 2024 sono stati pubblicati i quattro annunci di richiesta di referendum abrogativi presentati dalla CGIL alla Suprema Corte di Cassazione. Nei mesi successivi il sindacato ha raccolto le 500.000 firme necessarie per la formalizzazione della proposta, validata dalla stessa Corte di Cassazione il 12 dicembre. Da ultimo, lo scorso 20 gennaio la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibili i quattro referendum proposti dalla CGIL. Tra il 15 aprile e il 15 giugno (la data deve essere ancora identificata) i cittadini saranno chiamati alle urne per esprimersi sui cinque quesiti referendari abrogativi (ai quattro sul lavoro se ne è aggiunto uno sulla cittadinanza, mentre è stato dichiarato inammissibile quello sull’autonomia differenziata).
Indipendentemente dalle legittime strategie che ogni forza politica e sociale adotterà (battersi per il sì o per il no, suggerire l’astensione etc.), è opportuno un approfondimento tecnico su un argomento che di certo animerà le discussioni lavoristiche dei prossimi mesi.
- Abrogazione del contratto a tutele crescenti
Si tratta del quesito più noto, anche se presentato come secondo in Cassazione.
Quesito ufficiale Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante «Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183» nella sua interezza? |
Quesito netto e facilmente comprensibile (“qualità” da tenere in conto in termini di effetti della comunicazione mediatica e comprensibilità per il votante): l’obiettivo è abrogare l’intero impianto del decreto legislativo n. 23/2015.
Non è interessato dal quesito, come invece era previsto nel quesito del 2016 dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale con la pronuncia dell’11 gennaio 2017, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla c.d. Legge Fornero, che rappresenta oggi il riferimento normativo per stabilire il regime sanzionatorio in caso di licenziamenti illegittimi nell’ambito delle aziende con più di 15 dipendenti per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015.
Allo stato attuale, per valutare quali sanzioni si applicano al licenziamento illegittimo, occorre fare riferimento alle seguenti norme:
- Per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015:
- datori di lavoro medio grandi (più di 15 o 60 dipendenti): art. 18 come modificato dalla riforma Fornero;
- datori di lavoro piccoli (fino a 15 o 60 dipendenti): legge n. 604/1966, ossia la legge su cui verte un altro requisito referendario (si vedano le pagine successive), che intende ampliare la libertà del giudice nello stabilire l’indennizzo.
- Per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015:
- si applica sempre il decreto legislativo n. 23/2015, seppur con diversi importi delle indennità in relazione al numero di dipendenti.
Se il quesito venisse approvato si verificherebbe un ritorno integrale per tutti i lavoratori impiegati in aziende con più di 15 dipendenti (a prescindere dalla data di assunzione) al regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi previsti dall’art. 18 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) come modificato dalla legge n. 92/2012 (riforma Fornero), che oggi sono invece applicate solo a coloro che sono stati assunti fino al 6 marzo 2015.
Il Jobs Act, pur mantenendo la struttura già impostata dalla legge Fornero, basata su 4 diverse tipologie di sanzioni (tutela reintegratoria piena, tutela reintegratoria con indennità limitata, tutela indennitaria forte, tutela indennitaria ridotta) si è caratterizzato per la previsione di una tutela solo indennitaria in caso di licenziamenti economici (per giustificato motivo oggettivo e collettivi) e il mantenimento della tutela reintegratoria nelle sole ipotesi di licenziamenti discriminatori e comunque nulli, nonché in specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari. Con il D.Lgs. 23/2015, inoltre, è stato drasticamente ridotto il margine di discrezionalità del giudice in ordine all’opzione tra tutela reale e indennitaria così come sulla determinazione dell’importo delle indennità risarcitorie, in favore di indennizzi economici già individuati in maniera certa in ragione dell’anzianità di servizio (aspetto, quest’ultimo, su cui è tuttavia intervenuta la Corte Costituzionale).
Più ampio era invece lo spazio di intervento (e rimane tuttora, vista l’applicazione ai lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015) della tutela reintegratoria nel regime ex art. 18 post Fornero, vista in primis la previsione della tutela reintegratoria con indennità limitata in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. La tutela reintegratoria con indennità limitata viene prevista, tra gli altri, per i licenziamenti disciplinari (per giusta causa/giustificato motivo soggettivo) valutati illegittimi dal giudice per «insussistenza del fatto contestato» oppure perché il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzioni conservative. Nel regime ex D.Lgs. n. 23/2015, invece, per la tutela reintegratoria con indennità limitata è richiesto che sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, restando estranea ogni valutazione in relazione alla sproporzione del licenziamento.
Nel corso degli anni il c.d. Decreto Dignità (decreto legge n. 87/2018 convertito in legge n. 96/2018) e la Corte costituzionale (in particolare attraverso le sentenze nn. 194/2018 – 150/2020 – 183/2022 – 22/2024) sono intervenuti a correggere il criterio di automaticità della tutela indennitaria, prima calcolata unicamente sulla base dell’anzianità di servizio del lavoratore e ora tornata parzialmente nelle disponibilità del giudice (a differenza di quanto dichiarato da alcuni sostenitori del referendum).
In caso di approvazione del quesito, questi sarebbero gli esiti:
- Per imprese con più di 15 dipendenti
Abrogare interamente il decreto legislativo n. 23/2015 significa tornare alle regole ex art. 18 post legge Fornero (a prescindere dalla data di assunzione).
- Per imprese con meno di 15 dipendenti
Vedere decadere il riferimento al decreto legislativo n. 23/2015 significa invece tornare per tutti (a prescindere dalla data di assunzione) alla disciplina prevista dalla legge n. 604/1966, modificata con l’altro quesito referendario per accomunare la disciplina reintegratoria sia sopra che sotto i 15 dipendenti.
1.2. Considerazioni critiche sul primo e sul secondo quesito
Il quesiti referendari sul contratto a tutele crescenti e sul contratto a termine hanno come obiettivo l’affermazione della QUALITA’ del lavoro, intesa come “purezza” della tipologia contrattuale (per la CGIL da identificarsi soltanto con il contratto a tempo indeterminato con protezione del posto di lavoro ex art. 18, anche se si omette di ricordare che l’articolo 18 della legge Fornero nulla ha oramai a che fare con l’articolo 18 originario dello Statuto dei lavoratori), nonché la sua QUANTITA’, nella convinzione che se si sacrificano tutte le forme contrattuali a termine, cresceranno i contratti a tempo indeterminato poiché le prime sarebbero scelte solo per motivi di risparmio economico e facilità nella risoluzione (posizione non supportata da dati economici o ragionamenti giuridici, ma questa è la logica di fondo).
Ebbene, come chiarito da tutti gli osservatori statistici nazionali e internazionali (si vedano i bollettini mensili dell’ISTAT o il rapporto annuale dell’INPS o i dati sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro), in Italia oggi non c’è alcun problema di occupazione e disoccupazione, ossia di QUANTITA’ del lavoro. Mai nella storia si erano conteggiati nel nostro Paese oltre 24 milioni di occupati. Il Jobs Act (contratto a tutele crescenti), quindi, non ha determinato un impoverimento delle opportunità di lavoro. Allorquando, per ragioni politiche o di analisi giuridica, non si volessero assegnargli meriti particolari, comunque non si potrebbe rivolgergli particolari colpe in termini di quantità del lavoro.
Assai forzato anche l’approccio alla QUALITA’ DEL LAVORO, sempre e solo intesa come una dimensione che dipende dalla tipologia contrattuale utilizzata. Ebbene, i dati ISTAT certificano che la crescita dell’occupazione degli ultimi anni non è spinta dall’incremento dei contratti a termine e dei part-time, entrambi in costante diminuzione e in media con le percentuali europee (in Italia il rapporto è di circa il 15%, in passato è stato oltre il 17%). Anche in questo caso, quindi, è fuori bersaglio la proposta tecnica. Può invece raggiungere lo scopo la strategia politica, ma è tutt’altro discorso.
2. Abrogazione del contratto a termine acausale
Quesito ufficiale «Volete voi l’abrogazione dell’art. 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 […] comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi […] comunque”, alle parole “in presenza di almeno […] condizioni”, alle parole “in assenza […] parti;” e alle parole “b – bis)”; comma 1 bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “, in caso di rinnovo,” e alle parole “solo […] dodici mesi”; articolo 21, comma 1, limitatamente alle parole “liberamente […] successivamente,”?» |
L’art. 19, c. 1, del decreto legislativo n. 81/2015 – così come da ultimo modificato dal c.d. Decreto Lavoro (decreto legge n. 48/2023 convertito in legge n. 85/2023) e dal decreto legge n. 215/2023 convertito in legge n. 18/2024 – ammette la possibilità di stipulare un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato cosiddetto acausale non superiore a 12 mesi. Inoltre, l’articolo in esame dispone che il contratto a termine può superare i 12 mesi, fermo restando la durata massima di 24 mesi, in presenza di almeno una delle seguenti condizioni (c.d. regime di causalità):
- nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro;
- in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
- in sostituzione di altri lavoratori.
Il regime di causalità si applica anche nelle ipotesi di rinnovo o proroga del contratto a termine, che implicano una durata complessiva superiore a 12 mesi (art. 21, c. 1, decreto legislativo n. 81/2015).
Le proposte di abrogazione in esame impediscono di stipulare un contratto a termine acausale non superiore a 12 mesi e limitano il regime di causalità a:
- i casi previsti nei contratti collettivi di qualsiasi livello stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle loro RSA/RSU;
- le esigenze sostitutive.
Inoltre, tali proposte estendono l’ambito applicativo del regime di causalità anche alle ipotesi di rinnovo o proroga del contratto a termine, che implicano una durata complessiva inferiore od uguale a 12 mesi.
Allorquando il quesito fosse approvato, si avrebbe l’eliminazione della causale ex art. 19, c. 1, lett. b), decreto legislativo. n. 81/2015 nella parte ove supera il riferimento tautologico e poco comprensibile ai «contratti collettivi applicati in azienda». Conseguenza laterale, che può anche essere considerata ragionevole. Merita attenzione non necessariamente critica anche il superamento delle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva» demandate anche alla contrattazione individuale (alle «parti»). Norma il cui termine temporale è già stato prorogato (ora scade a fine 2024) e che già molto in passato è stata criticata proprio per la disintermediazione che realizza. D’altro canto, nella prassi, le aziende già oggi si fidano poco della tenuta del solo criterio di pattuizione fra le parti del termine.
Il nodo vero, però, è un altro: appare irragionevole l’eliminazione tout court del regime di liberalizzazione non superiore a 12 mesi che nega ai lavoratori che non rientrano nei casi previsti dalla contrattazione collettiva o nelle esigenze sostitutive (accade frequentemente), l’accesso ad opportunità d’impiego temporanee che, in questo periodo storico, guardando ai dati comunicati dall’Istat e dal Ministero del lavoro, in larga parte vengono convertite, alla scadenza, in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. L’attacco al contratto a termine appare in questo senso ideologico, come se tutti i contratti a termine fossero per definizione esito di “abusi” e involontari: l’esperienza sindacale, invece, insegna che vanno giudicati singolarmente.
2.2. (ulteriori) Considerazioni critiche sul secondo quesito
Non la quantità o la qualità della tipologia contrattuale: quel che invece è segnalato dai numeri come il problema di oggi è il contenimento del valore dei salari, che in Italia sono cresciuti negli anni assai meno che nel resto d’Europa, troppo poco rispetto alla crescita del costo della vita. Per alzare le retribuzioni medie e mediane (cosa ben diversa dall’intervento di legge sul salario minimo, altra infatuazione recente della CGIL) occorrono innovazione (politica industriale e sostegno alle imprese), competenze sempre più evolute dei lavoratori e degli imprenditori (centralità della formazione) e, soprattutto, maggiore forza della contrattazione a livello aziendale, dove la ricchezza viene prodotta e, a quanto pare guardando i numeri, troppo poco redistribuita a chi ha partecipato al suo conseguimento. Per questo la CISL ha scommesso tutto sulla “partecipazione”: partecipazione dei lavoratori alle decisioni in azienda perché la competitività non sia a scapito dei lavoratori; partecipazione diretta ai risultati aziendali mediante la distribuzione degli utili o di quote di capitale; partecipazione organizzativa per il miglioramento di prodotti e processi al fine di incrementare i margini da spartire; partecipazione consultiva obbligatoria perché siano noti i dati sulle performance dell’azienda e nessuno possa nascondere eventuali “extra-profitti”.
3. Quesito sul licenziamento dei lavoratori in imprese sotto i 15 dipendenti
Quesito ufficiale Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante «Norme sui licenziamenti individuali», come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: «compreso tra un», alle parole «ed un massimo di 6» e alle parole «La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.»? |
Il quesito si riferisce direttamente all’articolo 8 della legge n. 604/1966 e questo comunica già molto in merito al suo campo di applicazione: la norma interessa esclusivamente i lavoratori che operano nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Non solo: si tratta dei lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015, dato che a quelli assunti dal 7 marzo 2015 in poi, anche se in aziende al di sotto dei 15 dipendenti, si applica il decreto legislativo n. 23/2015 (oggetto di un altro quesito referendario). Insomma, è un quesito piuttosto laterale nella applicazione.
Nella versione vigente della norma, nel caso in cui non ricorrano gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (c.d. licenziamento ingiustificato), è prevista la reintegrazione entro il termine di tre giorni o, in alternativa, il risarcimento del danno. Nella pratica, risulta largamente prevalente questa seconda soluzione.
Pertanto, è bene capire quale sia il regime di regole vigente sul punto.
Allo stato attuale, il datore di lavoro è tenuto a risarcire al lavoratore il danno, versandogli un importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. E’ il giudice a decidere l’importo dell’indennizzo, in relazione a diversi fattori (menzionati dalla legge) quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, il comportamento e le condizioni delle parti. L’importo è maggiorabile fino a 10 mensilità per i lavoratori con anzianità superiore a 10 anni, e fino a 14 per quelli con più di vent’anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro dislocati in diverse unità produttive minori.
È proprio su questo aspetto, legato alla valutazione da parte del giudice della tutela indennitaria, che intende intervenire il referendum. Nella proposta della CGIL è prevista, infatti, l’eliminazione del tetto massimo delle 6 mensilità e del tetto alle maggiorazioni per i lavoratori con una certa anzianità.
Nei fatti, ciò significa che, in caso di approvazione del quesito, il giudice potrebbe avere una maggiore libertà nella determinazione dell’indennità, non essendo più previsto un tetto massimo all’importo e alle maggiorazioni. L’azienda, nell’ottica dei promotori del quesito, dovrebbe essere maggiormente spaventata nell’effettuare un licenziamento visto che l’indennità diventerebbe imprevedibile.
3.1. Considerazioni critiche sul terzo quesito
È solo una ipotesi (da molti già contestata) che alla luce di questa maggiore libertà, i giudici adotterebbero parametri diversi di valutazione rispetto a quanto fatto finora. Insomma, l’effetto reale, anche in caso di approvazione, potrebbe essere molto limitato, anche considerato che in contesti così piccoli solitamente è lo stesso lavoratore che, una volta usuratasi la relazione con il responsabile, preferisce uscire dall’azienda, ricorrendo anche ad accordi extragiudiziali (solo indirettamente condizionati da questa proposta).
Allo stesso tempo, è chiara la portata limitata del quesito anche in termini quantitativi, poiché interviene sul passato (situazioni non regolate dal Jobs Act) e per le aziende con meno di 15 dipendenti.
E’ da segnalare però che l’effetto sarebbe più ampio qualora venisse approvato anche il quesito sul D. Lgs. n. 23/2015 poiché sarebbero riportati nel campo di applicazione di questa norma, così modificata, tutti i lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti anche quando assunti dopo il 7 marzo 2015.
4. Quesito su appalti e responsabilità del committente
Quesito ufficiale Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”?». |
Il quarto quesito è dedicato alla sicurezza negli appalti.
L’appalto è il contratto con il quale una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro (ex art. 1655 cod. civ.); e per questo si caratterizza per l’assunzione del rischio di impresa e l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore nello svolgimento dell’opera o del servizio in favore del committente (appaltante).
Oggi se un’azienda assegna in appalto un’attività a un’altra impresa e questa a sua volta appalta il servizio etc., i primi committenti non sono responsabili in solido in caso di infortunio o di malattia professionale del lavoratore. Concretamente, vuole dire che il lavoratore non può chiedere nessun risarcimento del danno alle imprese committenti, ma solo al suo lavoro diretto.
Il quesito vuole cancellare la norma che esclude questa responsabilità. La logica sottostante sarebbe quella di fare diminuire, in questo modo, il numero degli infortuni sul lavoro, obbligando l’appaltatore a verificare l’affidabilità di tutte le imprese coinvolte nella catena degli appalti (oggi non sempre necessariamente conosciute dal primo appaltatore).
Abrogando l’articolo 26 del Testo Unico Salute e Sicurezza (decreto legislativo 81 del 2008), se l’appaltatore o il subappaltatore non sono in grado di risarcire il lavoratore infortunato, il committente sarà chiamato a risponderne.
4.1. Considerazioni critiche sul quarto quesito
Questo quesito è quello che maggiormente preoccupa le imprese, nonostante lo stupefacente silenzio (per ora) di molte delle loro associazioni di rappresentanza. Si pensava fosse anche quello maggiormente esposto al possibile giudizio di illegittimità da parte della Corte Costituzionale, perché impostato in modalità contraria a quella del nostro ordinamento. Così non è stato e quindi gli elettori saranno chiamati ad esprimersi anche su questo tema.
Oggi, secondo quanto disposto dall’articolo 26 del decreto legislativo n. 81/2008, l’obbligo della cooperazione tra committente e appaltatore/subappaltatore è espressamente da ricondurre all’attuazione delle misure di prevenzione rivolte ad eliminare i pericoli che, per effetto dell’esecuzione delle opere appaltate/subappaltate, vanno ad incidere sia sui dipendenti del committente che su quelli dell’appaltatore/subappaltatore. Dottrina e giurisprudenza di legittimità sono concordi nell’affermare che la cooperazione deve ritenersi doverosa per eliminare o ridurre i rischi comuni ai lavoratori delle due parti, mentre ciascun datore di lavoro deve provvedere autonomamente alla tutela dei propri prestatori d’opera subordinati, assumendosene la relativa responsabilità. La ratio del principio di responsabilità solidale nei contratti di appalto/subappalto si sostanzia sulla responsabilità del committente di fronte alle mancate tutele da parte degli appaltatori/subappaltatori nei riguardi dei propri lavoratori delle quali, in qualche modo, potrebbe avvantaggiarsi indirettamente nella realizzazione dell’opera commissionata. Oltre a questa ipotesi non è previsto alcun obbligo di responsabilità solidale, anche quando si dovessero creare danni per i lavoratori degli appaltatori/subappaltatori se subiti quale conseguenza dei rischi specifici propri delle imprese datrici di lavoro, rischi “estranei” all’attività tipica dell’appaltatore/subappaltatore (non quindi “rischi interferenziali”).
Il ribaltamento di questo assunto di fondo dell’ordinamento attuale potrebbe avere come esito la paralisi di molte commesse complesse, per il timore degli amministratori delle aziende appaltatrici di essere giudicati responsabili di gravi colpe molto spesso neanche conosciute o preventivabili.
5. Conclusione
Partecipazione dei lavoratori e referendum contro il Jobs Act saranno di certo i grandi temi del dibattito sindacale dei prossimi mesi.
A ben vedere, è evidente la differenza di concezione e di azione tra CGIL e CISL. Entrambe hanno deciso di chiedere ai cittadini italiani di sottoscrivere le proprie proposte: prima la CISL con la raccolta di oltre 400.000 firme utili alla presentazione della legge di iniziativa popolare in materia di partecipazione; poi la CGIL, che ha superato le 500.000 firme necessarie perché possano essere votati nella prossima primavera i quattro quesiti abrogativi proposti. La prima azione è costruens: la CISL, che non a caso è figlia di una tradizione di riformismo e pragmatismo cattolico, non intende regolare i conti del passato, ma proporre qualcosa per il futuro, coerente con una chiave di lettura del presente (la necessità di alzare i salari medi dei lavoratori). La seconda azione è invece destruens: la CGIL, che per statuto è sindacato antagonista e movimentista, propone un ritorno al passato, giocando una partita anche politica e sfidando una legge approvata dieci anni prima del referendum che intende abrogarla, in tutt’altra epoca storica (pre-Covid, pre-inflazione, pre-Governo di centrodestra etc…).
Sono entrambe azioni legittime, meritevoli di ogni interesse, utili a dimostrare che il sindacato non è morto, ma è anzi uno dei corpi sociali ancora più attivi e popolari (quale partito raccoglierebbe questo numero di firme in pochi mesi?). E’ bene però anche cogliere le differenze profonde di approccio e provare a valutarne la coerenza con le sfide della società di oggi e di domani.