Grazie. Non c’è altra parola che potrei pronunciare, in un momento come questo. Grazie per la fiducia che state riponendo in me. Per l’onore immenso che mi fate. Per l’amicizia e per l’affetto che sento attorno a me. “Grazie” è un’espressione che tante volte diamo per scontata, che a malapena sentiamo.
Io però vorrei soffermarmi un attimo sul senso profondo di questa parola. Il senso originale che gli attribuiva San Tommaso D’Aquino. Grazie come riconoscenza. Ma anche e soprattutto come vincolo. Come impegno morale a restituire e rimettere in circolo ciò che si è ricevuto.
È l’impegno che voglio prendere fin d’ora con voi.
Perché questa meravigliosa comunità che è la Cisl merita che ognuno di noi – militanti, delegati, quadri, dirigenti – dia ogni giorno il meglio di sé, spendendo tutte le sue energie per essere al servizio degli iscritti, affermare le nostre idee e le nostre ragioni, per far crescere e rafforzare sempre di più la nostra organizzazione.
A cominciare, ovviamente, da chi è chiamato a ricoprire la carica che oggi mi affidate. È una grande responsabilità. Enorme. La sento pienamente su di me e metterò tutto il mio impegno per esserne degna. Ma sono fortunata, perché posso fare affidamento su un grande esempio.
Caro Gigi, il lavoro che hai portato avanti in questi quattro anni è stato straordinario. Tutti ti siamo debitori per quello che hai fatto e per i risultati che ci hai permesso di raggiungere. Hai reso la Cisl ancora più forte. Nella sua capacità di rappresentanza, sul terreno dell’autonomia e del contrattualismo. Nella sua libera soggettività politica, al centro della scena riformatrice.
Io poi, in particolare, ti sono debitrice, e ti sono grata, perché hai sempre creduto in me, mi hai regalato l’opportunità di lavorare al tuo fianco e di imparare molto, condividendo tanti momenti decisivi, tanti passaggi complessi. Un’esperienza umana e sindacale straordinaria. Abbiamo lavorato uniti, in armonia. Con il coraggio di chi sa che, per quanto impervia, per quanto in salita, la strada era quella giusta.
Gli ostacoli sono stati tanti, e il vento quasi sempre contrario. Ma siamo andati avanti e – penso di parlare per tutti i colleghi di segreteria – con lo spirito sereno di chi aveva una certezza. La tua presenza, Gigi. La tua capacità di tenere la barra ferma e seguire la rotta stabilita. Quella che eri convinto ci avrebbe portato agli approdi migliori. Lo hai fatto con determinazione e con coraggio, come un fiume che scava la roccia, avanzando giorno dopo giorno.
È grazie a questa tua forza tranquilla e inarrestabile che in questi anni abbiamo saputo caricarci sulle spalle responsabilità grandi, prendendo decisioni difficili. Rifuggendo dalle scelte di comodo, e sfidando le resistenze dei tanti conservatorismi politici e sindacali di questo Paese.
Camminare in solitaria non ci ha mai spaventato. Anzi, lo abbiamo fatto a testa alta, consapevoli della posta in gioco. Del destino che tocca storicamente a chi vuole rimuovere le incrostazioni ideologiche in questo Paese.
“La solitudine del riformista” è un libro di Federico Caffè. Il maestro di Ezio Tarantelli. Un titolo che sembra scritto per te, Gigi.
Ma in questi anni hai sempre avuto vicino la comunità della Cisl. Tutta l’organizzazione si è sempre stretta attorno a te, ti ha seguito lungo il percorso condividendone ogni passo. E sono sicura che questa condivisione, questa unione di passione e di destino, tu l’hai sentita forte, molto forte.
Ma è altrettanto vero che ci sono frangenti in cui la capacità di leadership richiede un’assunzione di responsabilità tutta personale. Tu a questa prerogativa, a questo compito, non ti sei mai sottratto. Ed è così che hai sempre saputo collocare la Cisl, in modo autonomo, dove ritenevi fosse giusto stare. Senza dare ascolto a “sirene” e voci esterne a volte non troppo pertinenti, per usare un eufemismo. Ma seguendo ciò che ragione e coscienza ti esortavano a fare. In nome del pragmatismo, della concretezza e degli obiettivi da perseguire.
Dando prova di essere un innovatore autentico, un sindacalista vero: nessun vacuo e sterile “libro dei sogni”, ma chiarezza di intenti, metodo solido e ferma volontà di migliorare realmente le cose. Stando dentro i processi. Percorrendo con tenacia il sentiero della trattativa anche quando si faceva più stretto. Lavorando senza sosta per avanzare proposte, persuadere e cercare punti di sintesi. E senza timore di scegliere la mobilitazione, quando le nostre proposte non trovavano sufficiente ascolto, quando le risposte degli interlocutori erano inadeguate o non convincenti.
È così che abbiamo ottenuto i tanti importanti risultati che giustamente hai voluto ricordare, dai protocolli per la sicurezza nei luoghi di lavoro nel momento più terribile del Covid, proprio quattro anni fa, agli obiettivi raggiunti con la recente Legge di Bilancio.
“Esserci per cambiare”, ci siamo detti e ripromessi di fare, al nostro ultimo Congresso. Bene, lo abbiamo fatto. Ci siamo stati. E abbiamo cambiato. Da quel Congresso, è nata, tra l’altro, la nostra proposta di iniziativa popolare per dare attuazione all’Art. 46 della Costituzione.
Una scelta condivisa all’unanimità dai delegati e delegate. Un cammino impegnativo, esaltante, che oggi ci fa dire che siamo ad un passo dal risultato.
Trovare finalmente scritta in gazzetta ufficiale la “Legge Sbarra” sulla partecipazione!
L’appello della Cisl oggi più che mai è alla più ampia convergenza parlamentare, una adesione bipartisan a questa legge di civiltà che non deve essere trasformata in un terreno di scontro ideologico tra partiti.
Gigi ha impegnato ogni sua energia con pazienza, determinazione, costruendo relazioni, dialogando con tutti, giorno dopo giorno.
Non è stato facile. Ma al contempo in quelle settimane cresceva con evidenza l’autorevolezza della nostra organizzazione. Tanto da far confluire altri testi sul nostro.
Lungimiranza, orgoglio, determinazione, riformismo praticato, ci hanno permesso di crescere nel dato associativo. Le persone si sono riconosciute in tutto questo: +70.000 iscritti e iscritte tra gli attivi nel 2024; 172.000 in più tra gli attivi negli ultimi quattro anni. Grazie alle scelte politiche e alla capacità di tutto il popolo della Cisl – federazioni, unioni, rete dei servizi – di trasferirle nei luoghi di lavoro e nei territori. Una tendenza che dobbiamo saper costruire, tutti insieme per la nostra Fnp realizzando continuità associativa.
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Tanta la strada fatta. Tanto ancora resta da fare. Noi ci siamo stati e continueremo ad esserci. Con il piglio di chi avanzamenti e progresso non si limita a rivendicarli, ma vuole contribuire a costruirli, esercitando responsabilità dentro e fuori i luoghi di lavoro.
Dobbiamo proseguire lungo il solco tracciato e allargarlo quanto più possibile, rendendolo ancora più fertile. Sapendo che per cambiare, per innovare, dovremo essere capaci di farlo costantemente a partire da noi stessi.
Con una faticosa e al tempo stesso avvincente ricerca per anticipare e governare alcune direttrici del cambiamento. A chiamarci, per non dire ad obbligarci, a questo compito, sono e saranno le accelerazioni, le scosse e i grandi sommovimenti del tempo che ci è dato vivere.
Un tempo che ha come tratto dominante, l’incertezza, l’insicurezza. Insicurezza delle singole persone, alla ricerca di un proprio “posto” e di una prospettiva all’interno di una società sempre più polarizzata tra fasce deboli e forti. Persone costrette a misurarsi con le grandi transizioni e il loro carico di rischi e di opportunità.
Incertezza, incognite, di uno scenario geopolitico che in questi anni si è fatto sempre più complesso, con guerre e tensioni così forti da far riemergere “antistoriche logiche di potenza”, come ha sottolineato con la consueta lucidità il Presidente Mattarella. A lui rivolgiamo un grande ed affettuoso saluto unito alla gratitudine per l’importante ruolo e per il lavoro che svolge con equilibrio.
Ha pesato tremendamente, e continua a pesare, la barbarie dell’invasione russa dell’Ucraina dettata dalle mire imperialiste di Putin. Tra pochi giorni saranno trascorsi tre lunghissimi anni dall’inizio di questa follia e ancora non si riescono ad intravedere iniziative concrete in grado di condurre, nel tempo, alla costruzione di una pace giusta. Che non può assolutamente coincidere con la sottomissione di un Paese libero e sovrano.
Pesa la perdurante tragica situazione in Medio Oriente. La tregua siglata per il rilascio degli ostaggi israeliani e il cessate il fuoco a Gaza è stata una luce che ha spezzato il buio più cupo, ma lascia ancora molto incerto il futuro. Agghiacciante anche solo sentir parlare di deportazioni, di occupazione manu militari, di improbabili riviere turistiche. Serve piuttosto un forte impegno della comunità internazionale per un negoziato vero, tra parti democratiche. L’orizzonte non può che essere due popoli, due Stati
Pesano le incognite legate alla seconda presidenza Trump, aperta meno di un mese fa e densa di interrogativi, sulla sfida tra super potenze con la Cina e sull’impostazione protezionistica e isolazionista che sta già caratterizzando le politiche commerciali della Casa Bianca. Si faccia un passo indietro! Un mondo senza regole condivise, con guerre commerciali e barriere tariffarie, è un mondo più povero e soprattutto è un mondo meno sicuro.
Tutto questo deve far suonare una potente sveglia per l’Europa. Il punto è se si arriverà o no a sentirla ai vertici dell’Unione, e se si agirà di conseguenza. C’è davvero da augurarselo. Dobbiamo sperare e lavorare perché si recuperi in pieno quello spirito di coesione che di fronte alla pandemia aveva portato alla risposta del Next Generation e a strumenti come il Programma Sure.
E che non si prosegua, invece, nella scelta sbagliata delle rigidità rigoriste o ideologiche. Come è stato fatto con la riforma del nuovo Patto di stabilità. Come è stato previsto in un “green deal”, che di “Deal”, cioè di “Patto”, non ha nulla definendo in maniera unilaterale, rigida e ideologica la linea del 2035 per la fine dei motori a scoppio.
Bisogna tornare a ragionare insieme. E insieme trovare le giuste soluzioni per una transizione ecologica, tecnologica, industriale socialmente sostenibile, capace di coniugare – attraverso massicce risorse strutturali – riconversioni tutelate, salvaguardia dell’occupazione, rilancio della produzione.
Il bivio di fronte al quale siamo è decisivo. Da una parte il cambiamento radicale, l’accelerazione lungo la strada delle solidarietà concrete, la completa unificazione politica, economica, sociale e anche a livello di difesa comune. Dall’altra il ridimensionamento, la marginalizzazione nello scacchiere internazionale, il pericolo concreto di una lenta ma inesorabile disgregazione.
Non abbiamo dubbi su quale di queste due strade si debba prendere. Il sentiero è quello indicato dal Rapporto Draghi sulla competitività e anche da quello sul mercato unico di Enrico Letta. Superare ogni particolarismo, ogni piccolo e miope interesse egoistico. E quindi rivedere il modo di funzionare delle istituzioni comuni, riducendo il numero delle scelte prese all’unanimità, aprendo a nuove cooperazioni rafforzate e promuovendo debito in comune, per riuscire ad affrontare le sfide globali sul piano dell’innovazione, dell’energia e della sicurezza.
Cambiamento radicale significa che per l’Europa deve aprirsi, in modo convinto e irreversibile, il tempo di una nuova e piena condivisione. Corresponsabilità: questa è l’unica chiave di accesso al futuro. Vale per l’Europa e vale per il nostro Paese, che ha bisogno di dialogo, di concordia e di coesione.
È la via che la Cisl in questi anni ha costantemente indicato: quella della responsabilità e della partecipazione. L’abbiamo imboccata con determinazione facendo da apripista, con l’assoluta convinzione che solo uscendo una volta per tutte dalle secche ideologiche del Novecento potremo mettere il Paese sui giusti binari.
Confronto libero e autonomo con gli interlocutori sociali e istituzionali. Nessun pregiudizio, nessuna simpatia o antipatia dettata dal colore politico del governo che si ha di fronte.
Rispetto al Governo Meloni, al quale riconosciamo di aver mantenuto, salvo rari frangenti, un’importante attenzione al dialogo, ci poniamo allo stesso modo con cui ci siamo rapportati al Governo Draghi e a quelli precedenti. Stando sempre al merito delle cose e proprio per questo senza paura del conflitto. Che è cosa ben diversa, lo voglio ribadire, da un antagonismo troppo spesso strabordante su altri terreni rispetto a quello puramente sindacale.
Spero venga riconosciuto il fatto che mai abbiamo giudicato per primi chi coltiva invece questa visione, perché ognuno è libero di fare ciò in cui crede. A giudicare siano le lavoratrici e i lavoratori, i pensionati e le pensionate. Le persone. Rivendico però il fatto che quando si è tentato di far passare la nostra autonomia per acquiescenza, il nostro riformismo per timidezza, allora abbiamo risposto e lo abbiamo fatto a testa alta, con orgoglio.
Perché è una questione di rispetto. Che, da parte di tutti, va dato nella stessa misura in cui è preteso. Troppo grande è la contropartita, troppo complesse e decisive sono le sfide che dobbiamo affrontare, per permettersi di restare prigionieri dentro un clima di scontro che davvero non giova a nessuno. Clima che non farebbe avanzare di un metro la risoluzione dei tanti problemi che da decenni zavorrano il mondo del lavoro e tutto il Paese.
Sì, l’economia italiana mostra dati di segno positivo anche confortanti. È però altrettanto vero che restano molti elementi di fragilità, a cominciare dalla debolezza di un mercato del lavoro schiacciato su livelli qualitativi ancora troppo bassi, su impieghi a basso valore aggiunto, sull’esclusione, soprattutto ma non solo nel Mezzogiorno, della componente giovanile e femminile. I divari territoriali, di genere e generazionali finiscono per formare un prisma che ha tante facce negative. Lavoratrici costrette a subire, e non a scegliere, il lavoro a tempo parziale. Oppure indotte, e sono il 20 per cento, a lasciare il posto alla prima maternità.
Giovani che per cercare un futuro migliore fuggono all’estero. Giovani che non studiano e non lavorano, i Neet, in così gran numero da porci come fanalino di coda nelle classifiche UE. Penso, ancora, alla povertà lavorativa, condizione dalla quale una volta entrati è molto difficile uscire. Al progressivo contrarsi del ceto medio, con tanti, troppi, che sono scivolati o stanno scivolando verso il basso.
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Nel nostro Congresso dovremo parlare anche di questo, di una “società a clessidra” in cui crescono le parti alta e bassa della struttura sociale e si restringe quella intermedia. Ci sono quindi nodi strutturali rispetto ai quali, è davvero tanto, il tempo perso da recuperare. C’è molto da cambiare, molto da riformare.
Bisogna aprire una prospettiva nuova. Proiettare nel futuro le relazioni industriali e sociali. Mettendo al centro la persona con il suo protagonismo, la sua creatività, la sua capacità di promuovere attivamente trasformazioni e crescita delle comunità produttive e dei territori. Con il “coraggio della partecipazione” che impronterà tutto il nostro percorso congressuale. Perché il cambiamento che serve al Paese o sarà partecipato o, molto semplicemente, non sarà.
Anche la nostra Proposta di legge non è solo una grande innovazione economica: è una più ampia “filosofia”, la vera e propria “riforma istituzionale” che vuole unire gli interessi dei lavoratori e delle imprese di fronte alle enormi transizioni in atto.
Transizioni che tra le prime sfide impongono quella delle competenze. Perché tra i più grandi nemici della crescita e della coesione c’è quello creato dall’intreccio di una doppia scarsità: a quella di lavoro per giovani e donne va infatti aggiunta la scarsità di personale rispetto ai profili richiesti dalle imprese.
Questo intreccio va assolutamente spezzato. Iniziando col dire che è ora di anteporre al paradigma della precarietà proprio la carenza di competenze. Più resterà ampio il mismatch sulle competenze, più si allargherà il bacino di lavoratori per i quali sono obsolete relegandoli per questo, alla disoccupazione o a lavori sottopagati o in nero. Con pesanti ricadute in termini di sostenibilità dei sistemi socio-assistenziali e di lotta alla povertà.
È uno dei grandi temi di oggi: investire nella qualità dell’istruzione e della formazione, ripensare le politiche attive per passare dalle sole tutele sul posto di lavoro a quelle nel mercato del lavoro, sostenendo la persona in ogni transizione lavorativa, garantendole il diritto-dovere all’apprendimento permanente e un sostegno al reddito legato a percorsi di riqualificazione.
La vera sfida di oggi sta nel lavorare insieme per un nuovo Statuto della persona nel mercato del lavoro. Non è mettendo le lancette indietro di dieci anni che possiamo rispondere a problemi nuovi. Chi vede nel jobs act la madre di tutti i mali, svegliandosi dopo due lustri di letargo, sa bene di non raccontarla giusta. Non è con l’invasione legislativa nelle materie lavoristiche che si risolvono i problemi. Rischiamo invece di fare un tuffo nel passato devastante.
Chi va dicendo ancora in questi giorni che la legge che serve al Paese è quella sulla rappresentanza, mortifica la contrattazione e si pone in una posizione di retroguardia preoccupante e divisiva. Salario, orario, organizzazione del lavoro, deroghe, smart working, flessibilità, rappresentanza… sono tutti elementi propri delle relazioni industriali, che richiedono dinamismo e adattabilità, che devono essere negoziati e ritagliati sulle specificità di ogni settore, di ogni sito produttivo.
Senza affrontare il tema della valorizzazione del capitale umano e senza promuovere ed esaltare la contrattazione non si riuscirà a sciogliere nemmeno il nodo della produttività, dove fatichiamo soprattutto a causa del dualismo del nostro sistema: imprese medio-grandi da una parte e dall’altra micro e piccole imprese che hanno molte difficoltà a fare un salto qualitativo proprio su questo, oltre che su innovazione e digitalizzazione.
La scarsa produttività, è una ferita da guarire ad ogni costo, perché vuol dire economia che ristagna e salari che non crescono. È una questione, quella salariale, che ha bisogno di nuove risposte. Dove per “nuove”, però, non si può intendere l’introduzione di un salario minimo legale che condurrebbe ad una eterogenesi dei fini che nuocerebbe a lavoratrici e lavoratori, specie delle fasce medie.
Perché indebolire la contrattazione collettiva, favorire l’uscita delle aziende dai sistemi di rappresentanza avrebbe come effetto perverso l’abbassamento delle retribuzioni medie. La via maestra resta quella contrattuale, estendendo il perimetro della contrattazione aziendale e territoriale nei settori ad alta intensità di piccola impresa e diffondendo soluzioni contrattuali partecipate. Dopo di che, di fronte a un’inflazione che in questi anni ha falcidiato le retribuzioni, toccando nel momento peggiore la doppia cifra, la domanda da porsi è come creare le condizioni per il riscatto del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati.
Per noi la risposta resta, la stessa: una nuova politica dei redditi, da definire in modo non populista o demagogico, ma serio, scientifico, concertato. Oltre ad incentivare maggiore produttività e partecipazione, si tratta di governare prezzi e tariffe, di contrastare la speculazione, di rinnovare tutti i contratti pubblici e privati, di diminuire le tasse sulle fasce più deboli e sul ceto medio.
È tutto il sistema fiscale, di pensionati e lavoratori, che va riequilibrato. Obiettivo che ci porta subito a chiedere al Governo l’abbassamento della seconda aliquota Irpef dal 35 almeno al 32% per sostenere con più vigore il ceto medio e rilanciare i consumi da parte di pensionati e lavoratori.
Così come va intensificata la lotta all’evasione fiscale, 90 miliardi sottratti dalle tasche dei lavoratori e dei pensionati, con un sistema sanzionatorio più severo, nuovi metodi di accertamento, incrocio di banche dati e controlli avanzati, inclusi quelli basati sull’Intelligenza Artificiale. Più che di pace fiscale, il Paese ha bisogno di equità fiscale. Più che di rottamazione delle cartelle, abbiamo bisogno di maggiore fedeltà fiscale. Pagare meno, e pagare tutti!
L’Intelligenza Artificiale che è vero: ci sta portando dentro una nuova era, con cambiamenti che trasformeranno sempre di più mondo del lavoro, strutture sociali e stili di vita. Bisogna averne una paura paralizzante? No, non si deve. Si può essere tanto ottimisti da credere che entreremo, nel migliore dei mondi possibili? No, nemmeno questo.
Stiamo con Papa Francesco, che comprendendo subito la delicatezza del tema è, intervenuto, non a caso su questo, anche al G7 a presidenza italiana. Per il Pontefice “conviene sgombrare il terreno dalle letture catastrofiche”, in quanto “come ogni altra cosa uscita dalla mente e dalle mani dell’uomo, anche gli algoritmi non sono neutri”. E il punto fondamentale è “agire preventivamente, proponendo modelli di regolamentazione etica per arginare i risvolti dannosi e discriminatori, socialmente ingiusti, dei sistemi di Intelligenza Artificiale”.
È così. Per restare dentro una visione umano-centrica e coglierne tutte le enormi potenzialità, che possono migliorare la qualità del lavoro e favorire la ripresa della produttività, servono regole, serve una governance condivisa di sviluppi e utilizzi, con forti condizionalità etiche, a partire dalla fase di costruzione degli algoritmi. Fase in cui noi dobbiamo avere l’ambizione di entrare. Aprendo spazi decisivi, nel segno della trasparenza e della partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti.
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Partecipativa e innovativa deve essere anche una nuova politica industriale, infrastrutturale ed energetica. Industria, tecnologia e politica energetica devono procedere insieme. Unite dalla stessa, indispensabile capacità che avremo di mettere al centro la sostenibilità sociale e una visione pienamente riformatrice.
Troppo peso ha avuto in questi anni la vasta schiera dei “professionisti del no”, sempre pronti ad opporsi ad ogni infrastruttura energetica, ad ogni cantiere, alla possibilità ad esempio di attingere al gas di cui disponiamo.
L’elenco è lunghissimo.
No alle piattaforme e alle trivelle. No al Tap. No ai rigassificatori. No al gas liquido. No all’idrogeno. No anche solo alla minima discussione sul nucleare di ultima generazione. Discussione e valutazione che invece in questo Paese dobbiamo aprire. Non sono mancati persino i no all’eolico, al fotovoltaico e al geotermico.
È ora di relegare in soffitta questi pregiudizi e di imboccare con decisione la strada dello sviluppo. Sgomberando il campo dalle tante ideologie del no. Dalla sindrome Nimby, dalla concezione disastrosa della decrescita come obiettivo, dalle mistificazioni di chi va dicendo che crescita e ambiente sono obiettivi incompatibili. Tutto il contrario.
Dobbiamo muoverci verso una più forte sovranità industriale che esalti le nostre filiere strategiche e quelle più innovative, dalla siderurgia, all’automotive, alla chimica, dall’elettronica all’informatica, dal tessile all’artigianato. Una strategia sostenuta da una politica comunitaria che concepisca un fondo sovrano per convogliare risorse vere a riconversioni tutelate sotto il profilo occupazionale.
Vuol dire risorse vere su riqualificazione, competenze, nuove tecnologie abilitanti. Per garantire una transizione a misura umana, mettendo al centro protagonismo e dignità del lavoro. Con una forza rinnovatrice che rilanci il ruolo del terziario avanzato, le eccellenze agroalimentari e ambientali, il nostro artigianato.
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Siamo dentro al Giubileo che porterà decine di milioni di persone in Italia e nelle nostre città. Dobbiamo fare sistema, valorizzare il nostro patrimonio paesaggistico, monumentale, naturalistico, culturale. Rigenerare gli ecosistemi urbani e investire sul trasporto pubblico locale. Qualificare i servizi, realizzare reti materiali e immateriali che connettano le aree interne. E in tutto questo, dare al lavoro la centralità che merita ed esige.
Lavoro che per essere degno deve essere innanzitutto sicuro. È la questione delle questioni. È il nostro primo comandamento. Del cordoglio del giorno dopo, dell’indignazione che si manifesta solo sotto i riflettori dell’ennesima tragedia, quando ogni anno 1.200 vite vengono spezzate, non se ne può più.
Quella per garantire salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è una battaglia di civiltà che deve essere combattuta da tutti, deponendo le inutili armi della polemica spicciola di parte. Istituzioni, politica, sindacato, imprese: si stringa un grande Patto per costruire, in modo concertato, una strategia nazionale che si muova su tutti i piani possibili. Acquisendo, finalmente, piena consapevolezza del fatto che le energie e le risorse spese per salute e sicurezza, così come peraltro quelle per la legalità, per la lotta al caporalato soprattutto in agricoltura e in edilizia, non sono un costo, ma il migliore investimento che si possa fare.
Allora, investire, investire, investire. Anche attribuendo al sistema bancario una più forte funzione sociale, mettendo il credito al servizio della crescita e della coesione, dando gambe al progetto di un fondo reale alimentato dal risparmio volontario e retribuito degli italiani, da orientare sull’economia reale. Quella degli investimenti, insieme ad alcune grandi riforme non più rinviabili, resta una partita strategica, che richiede sguardo lungo e respiro ampio.
Siamo ben avvertiti degli spazi ristretti in cui costringe a muoversi il nuovo Patto di Stabilità, ma guardare al futuro limitandosi alla semplice gestione non si può. Bisogna fin d’ora pensare a quel che verrà dopo il 2026, con la fine del PNRR.
Ogni scelta, vorrei dire ogni singola misura, deve essere adottata dentro una visione strategica in cui siano chiare direzione di marcia complessiva e priorità interne delle tante tessere che compongono il “mosaico Italia”.
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Il pubblico impiego, su cui bisogna investire assumendo, stabilizzando e valorizzando le risorse umane all’interno di amministrazioni rinnovate e digitalizzate. La Scuola, l’Università, la Ricerca.
La Sanità, per moltiplicare i passi in avanti fatti con l’ultima Manovra. Per assumere più medici ed infermieri, sviluppare i servizi socio-sanitari, estendere la medicina di prossimità, quale attenzione ai vulnerabili, ai più fragili, ridurre le liste di attesa, rilanciare gli investimenti su prevenzione e domiciliarità, ammodernare strumentazioni e ospedali.
Le infrastrutture, sia quelle digitali, sia quelle viarie, per unire tutte le aree e tutte le fasce di popolazione del Paese.
Il Mezzogiorno, per non disperdere i recenti segnali incoraggianti e farne emergere in pieno le potenzialità, perché il suo riscatto è chiave di volta della crescita di tutto il Paese e dell’Europa stessa.
E poi, a proposito di sguardo lungo e di necessità di andare oltre l’immediato, a chiamarci a un’altra grande sfida sono la denatalità e l’invecchiamento della popolazione. Vuol dire, da un lato rispondere ai crescenti bisogni dei non autosufficienti e dall’altro esaltare l’apporto fondamentale di una terza età sempre più attiva e generativa. Ma vuol dire, al tempo stesso, esercitare lungimiranza e pianificazione per fronteggiare l’inverno demografico che ci sta colpendo. Quindi sostegno alla famiglia, potenziamento dell’assegno unico, investimento sui servizi sociali ed educativi per l’infanzia, attenzione alle politiche dell’abitare.
E ancora favorire il welfare contrattuale volto alla conciliazione tra vita e lavoro, insieme a misure concrete che accrescano il tasso di occupazione delle donne, perché dove le donne lavorano di più il tasso di natalità è più elevato ed aumenta anche il Pil.
Fondamentale è anche includere chi arriva in Italia da altri Paesi, prevedendo flussi migratori sostenibili e procedendo alla riforma della legge sulla cittadinanza. Non si può fermare il vento con le mani. Che piaccia o no, le migrazioni ci sono e ci saranno. Impariamo allora a pianificarle e a farne una risorsa. I migranti sono già oggi, e saranno sempre più, i nostri colleghi, i compagni di scuola dei nostri figli, dei nostri nipoti. Parte integrante delle nostre società. I nuovi italiani.
Essere inclusivi non deve essere considerato un onere ma, anche qui, un investimento per il futuro. Anche perché dalla demografia, e dal tasso di occupazione, dipendono welfare e previdenza. Previdenza che si può cambiare solo insieme al sindacato. Costruendo – e lo diciamo al Governo –un percorso condiviso, condizioni di maggiore flessibilità, inclusione e sostenibilità sociale, a cominciare da una pensione di garanzia per i giovani e dall’estensione a tutti i lavoratori della previdenza complementare.
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Ognuna di queste che ho poco più che elencato, rappresenta una sfida tanto complessa quanto decisiva. C’è solo un modo per affrontarle con la speranza di vincere. Quello di lasciare gli ormeggi del passato e di aprire una stagione nuova di corresponsabilità e partecipazione.
Lo dico a due giorni dalla ricorrenza del Patto di San Valentino. Dobbiamo impostare la rotta che arriva a un grande accordo tra parti riformiste e responsabili che impegni istituzioni, sindacato e imprese su obiettivi strategici comuni.
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C’è un quadro bellissimo di Paul Klee a Gerusalemme. Rappresenta un angelo che volge lo sguardo indietro per procedere in avanti. Ecco: così intendiamo il progresso. Così intendiamo il riformismo.
Memoria e coerenza su chi siamo, sui nostri valori e la nostra storia. Ma sempre e solo: azione proiettata al futuro. Senza nostalgie passatiste. Senza retorica decadente della retrotopia.
Siamo qui, oggi, per costruire il domani. Questo siamo sempre stati. Questo saremo.
Avendo come stella polare il perseguimento dell’interesse generale.
La rotta la affineremo nei mesi del Congresso, lungo un percorso appassionante che servirà ad attivare ogni possibile energia e a rafforzare ulteriormente organizzazione, idee e proposte. Orgogliosi della nostra identità, saldi nei nostri principi, radicati nella scelta della prossimità, fatta da luoghi di lavoro, territorio, dal nostro sistema servizi, da Enti e associazioni. E al tempo stesso in continua evoluzione, pronti ad aggiornare le nostre idee, anche attraverso la ricerca e la formazione sindacale.
Caro Gigi, care amiche e cari amici che fate della Cisl una comunità non solo speciale ma unica, la più bella di cui si possa far parte, il nostro cammino, lungo ormai settantacinque anni, continua.
Come sempre abbiamo fatto, il nostro coraggio, la nostra forza, spendiamoli per il cambiamento che serve al Paese. Rendiamolo più giusto, più aperto, più ricco di opportunità. Di lavoro e di vita.
Proseguiamo il nostro cammino al servizio delle persone, mettendo al centro i loro bisogni, quelli dei più deboli, dei lavoratori, delle lavoratrici, dei pensionati e delle pensionate, delle famiglie italiane e immigrate che popolano questo Paese.
In questo anno giubilare, organizziamo la speranza, costruiamola con il nostro impegno, la nostra passione, la nostra responsabilità. Facciamolo insieme. Uniti.
Facciamolo con tutta la passione e l’impegno di cui sono capaci le donne e gli uomini di questo straordinario sindacato libero e autonomo, il sindacato della partecipazione, la nostra Cisl.
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