- Il paradosso della crescita dell’occupazione senza crescita economica
Il rompicapo che sfida le teorie scientifiche degli economisti e quelle politiche dei partiti e delle forze sociali che si oppongono al Governo è la perdurante crescita del tasso di occupazione, come noto, indicatore ben più affidabile del tasso di disoccupazione per misurare la salute del mercato del lavoro. Si tratta, oramai, di statistiche tutt’altro che estemporanee: il valore, pari a 56,6% a giugno 2020 (dopo il picco pandemico) e a 60,6% a ottobre 2022, quando è iniziata l’attuale legislatura, è cresciuto sensibilmente negli ultimi trentuno mesi (dati di maggio 2025), fino a poco meno del 63% (62,9%). L’incremento non è spiegabile come conseguenza statistica della diminuzione delle forze di lavoro, essendo anche il tasso di attività cresciuto di 2,6 punti (e il tasso di disoccupazione diminuito di 1,4 punti). Non solo: la crescita non è stata alimentata da contratti precari, come pure è stato sostenuto in occasione dei referendum sul lavoro, con sprezzo di ogni evidenza matematica, bensì da contratti a tempo indeterminato, la cui percentuale rispetto al totale dei contratti di lavoro dipendente è oggi dell’86,1%, a fronte del 13,9% di quelli a termine. A febbraio 2022, il mese “peggiore” dell’ultimo quinquennio per quanto concerne queste proporzioni, erano, rispettivamente, dell’82,6% e del 17,4%.
Il “rimbalzo” positivo degli indicatori del lavoro non è determinato dalle politiche del Governo in carica: è iniziato alla fine del 2020, riprendendo una curva di crescita iniziata addirittura prima del Covid. Tuttavia, è indubbio che la curva della crescita sia divenuta ancor più ripida (quindi più veloce) dopo il 2022. Ripensando alla storia delle politiche del lavoro del nostro Paese, è comunque segnale di lungimiranza la fiducia verso le dinamiche della realtà piuttosto che verso le ricette ideologiche: è ancora viva la memoria degli effetti depressivi innescati da legislazioni “fuori tempo” (il riferimento è soprattutto alla legge 28 giugno 2012, n. 92, c.d. legge Fornero, o con al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, c.d. Decreto Dignità).
Il paradosso che agita gli addetti ai lavori concerne le ragioni del convinto miglioramento degli indicatori sul lavoro: come è possibile che l’occupazione cresca nonostante la perdurante stagnazione della produttività del lavoro, il cui incremento medio è stato dello 0,5% tra il 2014 e il 2023 (ISTAT, 2025)? Una spiegazione potrebbe essere l’incremento della produzione industriale e/o dei servizi sconnesso a una variazione del valore aggiunto, ma non nel nostro caso, considerata la diminuzione della produzione industriale censita da ISTAT per ben 26 mesi consecutivi dal 2023 a marzo 2025.
Quindi: arresto della produzione industriale, diminuzione della produttività complessiva e del lavoro eppure robusta crescita dell’occupazione (anche delle ore lavorate, non solo del numero di persone che lavorano).
L’enigma è risolvibile aggiungendo qualche dato.
- La c.d. questione salariale: occupazione di scarsa qualità per contenuto e retribuzione
Il primo, probabilmente il più rilevante, è quello salariale. Dal 1993 ad oggi in nessun altro principale Paese del mondo si è osservata una perdita di potere d’acquisto dei salari similare a quella italiana. Solo negli ultimi quindici anni la diminuzione è stata del 8,7%, a fronte del +5% francese o del +15% tedesco (Ilo, 2025).
Più occupazione, meno produttività e minori salari: i nuovi posti di lavoro domandati dalle imprese sono perciò a basso valore aggiunto e rivolti a personale con competenze contenute, inquadrate in livelli medio-bassi (allorquando le competenze siano più evolute, ma comunque destinate a svolgere attività per le quali non servono, si verifica il fenomeno dell’overskilling – sovraqualificazione –, statistica per la quale, non a caso, l’Italia è attenzionata dall’OCSE, essendo oltre il 15% i lavoratori in questa situazione). In altri termini: le imprese italiane, considerato il fattore “lavoro” più conveniente del “capitale” (si pensi alla recente stagione inflazionistica, che ha elevato i tassi di credito) e più conveniente dell’investimento tecnologico (che avrebbe bisogno di un sistema formativo capace di formare personale in grado di valorizzare l’adozione di sistemi informatici e di robotica evoluti), hanno deciso di gestire la crescita della domanda di beni e servizi post-pandemica incrementando i dipendenti invece che innovando i processi.
A ben vedere, non è chiaro se una situazione del genere debba dispiacere davvero al sindacato, in fin dei conti pare realizzarsi un auspicio diffuso: «che la crescita non dimentichi l’occupazione!». Allo stesso tempo, però, questa tipologia di “crescita povera” espone tanto le imprese, quanto i lavoratori, alla variabilità del mercato, senza attrezzare le aziende con la tecnologia che permette di competere tra i primi (invece che inseguire tra gli ultimi) e fortificare i lavoratori con le competenze che permettono di garantirne l’occupabilità ben di più di qualsiasi: “articolo 18”.
- I rischi dell’IA in uno scenario di difficoltà competitiva
In questo scenario l’affermazione dell’Intelligenza Artificiale non potrà che generare vantaggi per il sistema economico italiano, ma è tutt’altro che neutrale per la società la strada che sarà imboccata dalle imprese (si spera d’intesa con il sindacato e incoraggiate da legislazione ragionevole). Allorquando l’IA assumesse il temutissimo ruolo sostitutivo, avremmo certo un incremento dei disoccupati, mediaticamente colmato dalla sicura crescita della produttività (è conseguenza matematica: anche immaginando gli stessi valori di produzione, essendo meno i lavoratori, la produttività per ora lavorata risulterebbe più elevata, con giubilo degli economisti teorici). Di contro, l’IA potrebbe generare effetti moltiplicativi, permettendo una crescita così sostenuta da avere bisogno di uguale, se non maggiore, occupazione. Uguale in termini di quantità, non certo di qualità: questo scenario potrà avverarsi solo a valle di un diffuso e convinto potenziamento delle skills delle persone, a partire dalla scuola dell’obbligo fino alla formazione continua, sempre più destinata a diventare vero e proprio diritto.
- Il ruolo della contrattazione collettiva
Per orientare il nostro mercato del lavoro verso l’ultimo scenario occorre considerare un ulteriore “dato”: le relazioni di lavoro e la contrattazione collettiva.
Nel Protocollo Ciampi del 1993 si realizzò quel meccanismo di partecipazione dei sindacati alle decisioni di politica economica più volte suggerito nei saggi di Ezio Tarantelli, concretizzato (otto anni dopo il suo assassinio) attorno allo scambio tra contenimento dei salari per l’ingresso nella moneta unica e apertura del Governo al confronto in materia di politica dei redditi e dell’occupazione, politiche del lavoro e sostegno al sistema produttivo (la parte del Protocollo rimasta sulla carta). Sbaglia chi oggi accusa i sindacati di non avere conseguito i risultati sperati in materia di espansione degli stipendi: l’obiettivo dell’accordo del 1993 era esattamente il contrario e, come si è visto, è stato pienamente raggiunto.
Oggi, in una situazione profondamente diversa, occorre completare il disegno di Tarantelli, investendo sul decentramento contrattuale per incrementare i salari nelle aziende più produttive e competitive, rigettando quell’egualitarismo centralista che ha guidato il nostro Paese nel paradosso della crescita occupazionale senza crescita economica. La priorità di oggi è la crescita delle retribuzioni. Attenzione: non solo quelle minime (ci mancherebbe!), ma quelle medie, che non avrebbero alcun vantaggio dall’approvazione di soglie salariali legali “di riserva” utili a legittimare trattamenti retributivi contenuti (cioè largamente inferiori al valore aggiunto generato) quando superiori ai minimi, come accade in molti settori produttivi.
Crescita dei redditi vuole dire incremento dei consumi, riattivazione della domanda interna, stimolo alla crescita delle imprese e delle famiglie (anche in senso demografico). La partecipazione dei lavoratori a livello aziendale per incrementare i salari medi ha questo ultimo scopo: altro che battaglia di bandiera!
Ha ragione chi segnala l’urgenza di un nuovo accordo interconfederale per rilanciare la contrattazione di secondo livello, attivare l’intelligenza di prossimità delle relazioni industriali, permettere la compensazione della “scomodità” del lavoro (trattamenti diversificati per le posizioni di lavoro che non possono godere di smartworking e settimana corta), affermare un moderno diritto alle competenze.
Nel solco dell’insegnamento di Tarantelli, la sfida è quella di passare da una politica di appiattimento dei redditi in ragione di un’anacronistica centralizzazione delle politiche salariali a una politica per la crescita dei redditi tramite il protagonismo dei lavoratori nella gestione delle imprese.