- Introduzione
In questo articolo si propone una riflessione sulla dimensione organizzativa e strategica del sindacato e della Cisl nell’attuale contesto economico, politico, antropologico, del mercato del lavoro e delle relazioni industriali.
Attraverso un dialogo tra passato, presente e futuro, vengono affrontate la suggestione (si potrebbe aggiungere, l’equivoco) del “sindacato di strada” proposto dal Segretario generale della Cgil Maurizio Landini, il tema, antico, dell’organizzazione dei “senza potere” e la questione della sussidiarietà, in particolare circolare, in rapporto alle evoluzioni del welfare e dell’evoluzione del ruolo degli attori sociali e di rappresentanza. Si propone, inoltre, un approfondimento sulla possibile evoluzione, già studiata a partire dall’inizio degli anni Duemila, del modello organizzativo e strategico della Cisl, in rapporto con l’evoluzione, anche internazionale, delle dimensioni e delle forme della rappresentanza sindacale.
- La suggestione (e l’equivoco) del “sindacato di strada”
Scrive Giulio Marcon nel suo ultimo libro:[1] Sono un sindacalista sul marciapiede, così Pierre Carniti – Segretario generale della Cisl negli anni Ottanta del Novecento – volle definirsi molti anni fa. Carniti voleva così evocare gli operatori sociali “a piedi scalzi”, come venivano definiti i giovani e gli attivisti che battevano le strade delle campagne e di borghi del Mezzogiorno negli anni Cinquanta. Recentemente è stato il Segretario della CGIL Maurizio Landini, anche dopo la cocente sconfitta dei referendum dell’8-9 giugno, a proporre un sindacato di strada: un sindacato “dal basso” che incontra i lavoratori sul territorio, nelle strade, nei quartieri.
Da sempre nel sindacato, spiega ancora Marcon, sono convissute due realtà: quella del sindacato verticale, di categoria – organizzato per professioni e settori di lavoro – e il sindacato orizzontale, quello delle Camere del lavoro, presente sul territorio, anche con attività mutualistiche e solidaristiche.
Questa dinamica è raccontata da Marcon nel suo agile volume attraverso il dibattito e le esperienze maturate nel nostro Paese dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento furono Giorgio Benvenuto, definendo la Uil come “sindacato dei cittadini” e Bruno Trentin, ponendo alla Cgil l’obiettivo di essere un “sindacato dei diritti e della libertà”, a rilanciare questo dibattito.
Marcon (e con lui Landini) spiega che oggi, con il sindacato di strada, il tema si ripropone di fronte a organizzazioni sindacali che, in parte, sarebbero diventate burocratiche e consociative, si sarebbero “ministerializzate”, cadendo in dinamiche corporative e residuali.
Perché il sindacato di strada potrebbe avere una prospettiva credibile?
Secondo lo scrittore romano perché milioni di lavoratori oggi sono precari, lavorano in piccole e microimprese e si incontrano solo sulla strada. Marcon aggiunge anche che la centralità del lavoro non è più quella di una volta. Le identità sociali si formano attraverso percorsi che non si esauriscono nell’orario di lavoro, ma che investono i temi fondamentali della cittadinanza e del tempo liberato dal lavoro.
Non solo, il tema è anche quello che cambia il lavoro – sempre più frammentato, intermittente, incerto – in un’epoca postfordista che trasforma le condizioni esistenziali delle persone: la precarietà del lavoro diventa precarietà esistenziale e lo stesso reddito potrebbe essere legato, in un futuro non troppo lontano, almeno secondo la concezione proposta nel volume, non solo al lavoro, ma anche alla qualità di cittadino o all’esercizio di attività sociali e civiche. Inoltre i tempi di vita si sovrappongono e si intrecciano: non più separazione netta e rigida tra tempo di lavoro e tempo libero, ma – soprattutto per i servizi e le professioni intellettuali, nell’era digitale – una disponibilità al lavoro retribuito durante tutto l’arco della giornata: una connessione intermittente, ma permanente con i propri datori di lavori e colleghi. Tempi di produzione e di riproduzione, sostiene non a torto Marcon, che si confondono.
Negli anni del neoliberismo, l’attacco rivolto a ridurre il potere di contrattazione del sindacato nei luoghi di lavoro è stato costante e durissimo. Questo ha portato a rendere più indifesi i lavoratori e i risultati si sono visti: salari più bassi, più precarietà. Il mercato del lavoro è diventato un mercato dei lavoratori.
Secondo Marcon e Landini l’evocazione del sindacato di strada serve a ricollocare, in questo contesto, il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori di fronte alle sfide nuove della globalizzazione e della deregolazione e svalorizzazione del lavoro. La strada – in un’epoca in cui la fabbrica fordista ha sempre meno importanza – dovrebbe rappresentare il punto di incontro di diverse sensibilità: la lotta per il miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori e la prospettiva politica di un cambiamento generale, la concretezza dell’azione nella difesa degli interessi dei singoli e la radicalità delle proposte per la realizzazione dell’interesse collettivo, la democrazia e l’orizzontalità dell’organizzazione del sindacato.
Facendo propria la lezione di Vittorio Foa[2] e Pino Ferraris,[3] Marcon sostiene che, guardando al futuro, occorra ripensare e rivalutare la storia del sindacato, quello che nella seconda metà dell’Ottocento seppe fare innovazione sociale, dando vita alle mutue di solidarietà, al movimento cooperativo dei braccianti e degli artigiani, alle Camere del lavoro, alle Casse rurali, ad una idea di sindacato fondato sulla confederalità.
Una pratica sindacale che superava l’univocità della dimensione di mestiere, alla base di competizioni e diseguaglianze nel mondo del lavoro e della formazione delle cosiddette “aristocrazie operaie”. Un sindacato che certo rivendicava e che faceva resistenza ai padroni (solidarietà contro), ma che costruiva pratiche di mutuo appoggio (solidarietà per), forme nuove di cittadinanza sociale e civica capace di dare identità collettiva e di costruire pratiche inedite di emancipazione, grazie all’auto-organizzazione e ad una democrazia dal basso contro le forme verticali e gerarchiche connaturate ad ogni organizzazione tradizionale.
Quella storia, sostiene Marcon, costituirebbe la modernità che il sindacato ha davanti a sé, se vuole ridarsi forza e rilanciarsi.
In realtà, pur partendo da presupposti difficilmente confutabili, le conclusioni operative e strategiche di Landini hanno lasciato perplessi anche commentatori non lontani dalla sua Confederazione sindacale.
C’è chi, come Mario Lavia, ha definito la Confederazione di Corso d’Italia un: «metapartito leaderistico» che ha smarrito ogni dialettica interna, abbracciando un nuovo «populismo sindacale».[4] e chi, come Gaetano Sateriale, dirigente di grande esperienza, ha provato a riportare le riflessioni di Landini in un ambito più sindacale, sottolineando il tema della contrattazione territoriale e aprendo a una coraggiosa riflessione di prospettiva sul futuro del sindacato italiano.[5]
In ogni caso, la pur interessante suggestione del “sindacato di strada” stretta nell’attuale angusta politica del segretario generale della Cgil rischia di rappresentare, anche internamente, un equivoco.
- Organizzare i senza-potere: il community organizing tra Saul Alinsky e Cesar Chavez
Una riflessione, indirettamente collegata al tema del c.d. “sindacato di strada” è quella sul community organizing.
Il community organizing è un insieme di pratiche dai risultati concreti e di notevole impatto per la formazione di leader locali e la creazione di coalizioni civiche per la rigenerazione urbana, lo sviluppo territoriale e l’inclusione sociale. Barack Obama è stato un community organizer per tre anni della sua vita; un’esperienza, a suo dire, estremamente formativa.
Sviluppato a Chicago da Saul Alinsky a partire dal 1930, con il sostegno iniziale della Chiesa cattolica americana, si è diffuso in tutti gli Stati Uniti consentendo importanti vittorie rispetto alle rivendicazioni delle minoranze e delle fasce più emarginate della popolazione.
Il community organizing si caratterizza per alcuni approcci distintivi:
- parte dal creare e rafforzare le relazioni nella comunità, prima che dai problemi da risolvere;
- inizia con l’ascolto delle persone, per identificare e formare leader civici intorno alle loro motivazioni e ai loro interessi e non a cause preconfezionate;
- si basa sulle organizzazioni àncora del territorio, dove le persone socializzano a prescindere dall’omogeneità sociale e l’identità di vedute (scuole, centri sportivi, sedi sindacali, chiese, moschee e altri luoghi di culto, etc.);
- costruisce potere relazionale per rendere le istituzioni realmente democratiche e responsabili verso i cittadini;
- riconosce che una comunità per esistere ha bisogno di figure preposte a suo supporto, gli organizzatori di comunità.
Come spiegano Alessandro Coppola e Mattia Diletti,[6] la riflessione di Saul Alinsky si colloca, in primo luogo, alla confluenza di processi diversi e profondi di riformulazione della questione sociale come questione urbana, delle modalità d’intervento e di azione collettiva su di essa ed entro di essa.
Rispetto al rapporto con il sindacato americano, Alinsky sarà subito attratto dalla sostenuta dinamica di sindacalizzazione che coinvolgeva i lavoratori dell’industria alimentare.
I lavoratori erano organizzati dal Packinghouse workers organizing committee (Pwoc), realtà promossa dal Congress of industrial organizations (Cio), Confederazione sindacale che aveva conseguito in quegli anni importanti successi contrattuali in diversi settori produttivi, a partire da quello automobilistico.
Fu proprio guardando alla sindacalizzazione dei lavoratori e alla sua relazione con le condizioni urbane di degrado e marginalità del quartiere dove gli stessi operai vivevano, che Alinsky si persuase della possibilità di promuovere nuove forme di azione collettiva che agendo sulla community potessero rivelarsi uno strumento prezioso anche per il processo di sindacalizzazione in corso.
Spiegano ancora Coppola e Diletti: «per Alinsky l’obiettivo da conseguire era la creazione di una forte, riconoscibile organizzazione locale in uno dei quartieri operai più etnicamente diversificati d’America, facendo leva sugli attori esistenti – le istituzioni religiose, prima di tutto, assieme ad altri soggetti territoriali – e sulla costruzione di un’agenda che fosse rappresentativa di istanze e bisogni percepiti a cavallo delle “trincee” etniche che strutturavano, ma allo stesso tempo, disarticolavano, la vita locale».
Il comitato promotore, composto da rappresentanti di una pluralità di attori, dalle influenti chiese cattoliche nazionali alle sezioni sindacali, per arrivare ai commercianti, veniva così a incarnare la forma organizzativa essenziale del tentativo di coalition building territoriale promosso da Alinsky.
Una figura indirettamente di raccordo tra il movimento di Alinsky e il sindacato è costituita da Cesar Chavez.[7]
Un leader sindacale, titolava sobriamente, ma efficacemente, l’editoriale di «Opinioni», trimestrale della Fisba Cisl, nel primo numero del 1994. Un fascicolo che ricordava, fin dalle prime pagine, proprio Chávez, allora da poco scomparso.
Ma chi era Chávez e cosa ci può raccontare il filo a ritroso della sua storia?
Come è scritto nelle pagine a lui dedicate sul sito web del sindacato americano Afl-Cio, César Chávez è stato, innanzitutto, un eroe popolare e un simbolo di speranza per milioni di americani. Nel 1962, insieme a pochi compagni, decise di organizzare un sindacato di lavoratori agricoli in un contesto, quello dell’estremo Sud degli Stati Uniti, che rendeva l’associazione tra loro quasi impossibile.
Pur con alti e bassi, tra vittorie e sconfitte, Chávez e il suo sindacato sono riusciti a rappresentare un sorprendente orizzonte di speranza per diversi decenni nel Novecento, a partire dai lavoratori agricoli sfruttati. Ardente sostenitore della nonviolenza, Chávez è stato uno dei leader sindacali più ispirati e ispiratori del XX secolo, con un’influenza che si è estesa ben oltre i campi della California e che arriva fi no a noi.
“Sì se puede! – Yes we can!” era il suo motto, ripreso in tempi molto più recenti dal futuro Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, durante la sua vittoriosa campagna presidenziale.
Giovanissimo, Chavez, già nel 1939 fece le prime esperienze sindacali a San Josè, insieme al padre e allo zio, che avevano organizzato, con una branca del sindacato americano Cio, uno sciopero degli operai dell’industria della frutta secca.
Incoraggiato da Fred Ross, un noto organizzatore di comunità, collaboratore proprio del fondatore del community organizing Saul Alinsky, Chávez lasciò il deposito di legname per diventare un organizzatore di comunità a tempo pieno per la Community services organization (Cso), istituendo gruppi di attivisti a Oakland e in altre città dello Stato della California. Nominato direttore esecutivo nel 1959, si trasferì a Los Angeles per lavorare nel front office dell’organizzazione.
Due anni dopo, nel 1962, si spostò a Delano, in California, con la moglie, gli otto figli e Dolores Huerta, una collega della Cso. In quel luogo fondarono un vero e proprio sindacato, la National farm workers association (Nfwa), portarono avanti coraggiose mobilitazioni per un salario dignitoso e un’assicurazione contro la disoccupazione per i lavoratori agricoli, sostennero il diritto alla contrattazione collettiva e istituirono un piano di assicurazione sulla vita, un’unione di credito e una sala di assunzione per i membri.
La lotta dei lavoratori agricoli coinvolse immediatamente gli studenti e gli attivisti dei diritti civili. Dopo alcune difficoltà, i lavoratori dei porti e i camionisti supportarono le proteste del sindacato guidato da Chávez anche con azioni di protesta nonviolenta e di boicottaggio.
Ma se il sostegno dell’opinione pubblica, della società civile e anche di parte dei media fu da subito notevole, non fu per nulla semplice vincere la lotta nei rapporti di lavoro e per il diritto alla contrattazione.
I primi risultati concreti furono ottenuti a cavallo tra il 1966 e il 1967, quando la United farm workers (Ufw), erede della prima organizzazione fondata da Chávez, firmò, dopo una lunga lotta, contratti collettivi con alcuni dei principali produttori di vino del Sud degli Stati Uniti.
Dopo altri trent’anni di lotte e impegno sindacale, Chávez morì improvvisamente nell’aprile 1993 a Yuma, in Arizona. Era in quel luogo per testimoniare in un’udienza associata a una causa durata diciassette anni, avviata contro il sindacato dalla Bruce Church Incorporated, un’azienda agroalimentare che, per uno scherzo del destino, possedeva la terra che, una volta, proprio la famiglia Chávez aveva coltivato.
Ai fini del nostro studio, va ricordato che Chávez lavorò proprio come community organizer dal 1953 al 1961. Nel 1958 ne divenne anche responsabile nazionale per tutta la California.
Il punto di distacco tra Chávez e la scuola di Alinsky fu rappresentato dal suo essere un lavoratore agricolo e di non trovare la sufficiente disponibilità, nella organizzazione di quest’ultimo, nata in contesti urbani come quello di Chicago, a occuparsi dei braccianti poveri – i chicanos (sette milioni di lavoratori e lavoratrici in California).
La divergenza tra Chávez e il binomio Ross-Alinsky fu dettata, a detta del leader sindacale, dalla prevalenza del punto di vista delle “classi medie” sulle priorità dell’organizzazione. Fu così che Chávez, nel 1962, si allontanò dal community organizing vero e proprio per fondare la propria organizzazione che divenne a tutti gli effetti un sindacato dei lavoratori agricoli (United farm workers).
Al di là dei rapporti, indiretti, con Chavez e la sua organizzazione, a partire dagli anni Novanta del Novecento, venti anni dopo la sua scomparsa, la lezione di Alinsky verrà, almeno in parte, riscoperta più su larga scala da parte del movimento sindacale americano.
La formazione di larghe concentrazioni di manodopera migrante nei settori a più alta intensità di lavoro, in economie metropolitane sempre più terziarizzate e frammentate, agirà come fattore di pressione sulle organizzazioni sindacali.
Si assisterà, quindi, all’ascesa di nuove realtà sindacali come United Here e Service Employers International Union (Seiu) che proporranno, coerentemente con le lezioni di Alinsky, un nuovo modello di sindacalismo “di movimento” e “di comunità”, particolarmente attivo, anche in anni più recenti, nelle mobilitazioni dei lavoratori del “terziario povero”.
Tali mobilitazioni si confronteranno, a partire dai temi del lavoro, anche su altre questioni di grande rilievo come la dignità dei migranti, la nuova questione abitativa, la precarizzazione sociale, il modello di accumulazione urbano e la crisi climatica.
Le più recenti esperienze di community unionism hanno posto con forza il tema della costruzione di conoscenze credibili a sostegno di processi di mobilitazione e negoziazione di interessi deboli contro interessi forti. Come diceva Alisnky: «Research, act, evaluate», invitando ad abitare lo spazio difficile della costruzione dal basso e dai margini della democrazia.
- Ripartire da Maritain: sussidiarietà circolare, community organizing e welfare di comunità
Una quindicina di anni fa, con l’elezione di Barak Obama[8] a Presidente degli Stati Uniti e l’enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI si sono riaccese le luci sulle figure proprio di Saul Alinsky e su quella di Jacques Maritain, filosofo personalista francese, teorico dell’umanesimo integrale[9].
Queste due figure possono apparire molto lontane, in realtà sappiamo inequivocabilmente che tra loro sono intercorse una grande amicizia e una forte stima reciproca,[10] tanto che sono state archiviate ben settantaquattro lettere tra i due, in un periodo temporale di quasi trent’anni.
Rispetto al primo libro importante di Alinsky,[11] Maritain ne scriverà la prefazione e userà parole molto significative: «A mio avviso ciò che è passato attraverso il movimento Back of the Yards[12]apre una nuova strada verso una vera democrazia e ci mostra l’unico cammino attraverso il quale il profondo bisogno di comunione, che oggi scuote la gente inebetita dalla civiltà tecnologica, può essere soddisfatto nella libertà e attraverso la libertà, nel, e attraverso un, profondo rispetto per la persona umana, attraverso una confidenza reale nel popolo (…) nello stesso tempo dei veri leader possono emergere ed essere scelti dal popolo stesso».[13]
Dirà, più tardi, Maritain ancora di Alinsky: «è uno dei miei più grandi amici, è un indomito e temuto organizzatore di comunità popolari e leader antirazzista i cui metodi sono tanto efficaci quanto poco ortodossi».[14]
È noto, poi, che, grazie all’intermediazione proprio di Maritain, Alinsky sarà ricevuto, nel maggio 1958, a Milano dall’arcivescovo cardinal Montini, il futuro Paolo VI.
Per una settimana l’ospite americano sarà tenuto a serrato colloquio sui temi caldi del conflitto sociale e sindacale.
Il volontarismo e il pragmatismo in Alinsky, benchè non avulsi dalla logica del conflitto, scrive Lucio D’Ubaldo, nella sua prefazione al libro sull’amicizia tra il filoso francese e l’attivista americano,[15] danno il tono ad un’alternativa positiva in cui l’umanesimo riconquista un diritto di cittadinanza nell’orizzonte democratico della società contemporanea.
La regola che sta alla base della politica del radical Alinsky comporta il rifiuto di un atteggiamento di sfiducia verso la volontà degli uomini e quindi verso la loro capacità di autoredenzione politica.
Il dialogo tra Maritain e Alinsky porta a riflettere sulla prospettiva di un umanesimo che contenga elementi di autentica radicalità e, allo stesso tempo, sulla forza di un radicalismo che accolga l’esigenza di una maggiore umanizzazione della politica e della democrazia.
Scrive ancora D’Ubaldo che entrambi nutrivano la speranza di una società nuova, partendo dalla convinzione che radicalismo e riformismo fossero componenti dello stesso discorso politico che si alimenta del ruolo fondamentale dei corpi sociali dal basso, in una logica di sussidiarietà coerente con il personalismo comunitario e con l’emancipazione consapevole e “scientificamente” cercata dei ceti popolari.
Il tema del rapporto tra economia, azione sociale e ruolo della sussidiarietà è stato profondamente studiato, soprattutto a partire dall’inizio degli anni Novanta del Novecento da uno studioso che si situa nel solco del personalismo comunitario e che ha collaborato fortemente nella redazione dell’enciclica Caritas in veritate: Stefano Zamagni.
Secondo Zamagni, uno dei più rilevanti studiosi in materia, già allievo di Mario Romani presso l’Università Cattolica di Milano, l’universale riconoscimento del valore e della importanza della sussidiarietà si scontra con una preoccupante caduta delle sue possibilità di attuazione pratica.[16]
La spiegazione data dal professore bolognese è che ciò dipende, oltre che dal noto ritardo della cultura italiana su tale fronte, da una perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio in questione: quella verticale, che chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (decentramento politico-amministrativo); quella orizzontale che, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica amministrazione così da realizzare una cessione di sovranità; quella circolare che costituisce una forma, ancora inedita nel nostro paese, di condivisione di sovranità.
Se la sussidiarietà in senso verticale si alimenta del rifiuto del centralismo e del dirigismo, la sussidiarietà in senso orizzontale si concentra sul criterio con cui si ripartisce la titolarità delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile.
Come si può delineare la versione circolare della sussidiarietà?
Spiega sempre Zamagni[17] che si tratta di un principio la cui prima elaborazione risale alla fine del XIII secolo e che deve molto al pensiero di Bonaventura da Bagnoregio e di altri importanti autori della Scuola Francescana. Si è soliti, infatti, attribuire il merito della “scoperta” della sussidiarietà al giurista Ugo Grozio (1583-1645) e al filosofo Johannes Althusius (1557-1663) che nel 1615 ne coniarono il termine. Va ricordato, però, che il concetto e soprattutto la pratica della sussidiarietà risalgono a oltre tre secoli prima quando, in Toscana e Umbria, sorgono le confraternite (ad esempio le Misericordie) e le corporazioni di arti e mestieri.
L’immagine che utilizza lo studioso bolognese per spiegare la sussidiarietà circolare è quella di un triangolo, ai cui vertici si collocano l’ente pubblico, la comunità degli affari, cioè il mondo delle imprese e il variegato mondo degli enti di Terzo Settore, espressione della società civile organizzata.
Secondo Zamagni, i tre soggetti devono interagire tra loro in modo sistematico, non sporadico, sulla base di predefiniti protocolli operativi per decidere sia le priorità degli interventi da realizzare sia le modalità di esecuzione degli stessi.
Parliamo, quindi, di una specifica forma di governance basata sulla co-programmazione e sulla co-progettazione degli interventi, il cui fine ultimo è la rigenerazione della comunità, un modo che consente alle persone di contribuire ad allargare lo spazio dell’inclusione sia sociale sia economica.
Il docente dell’Università felsinea sottolinea anche che l’organizzazione della comunità (proprio il community organizing) è una strategia non meramente rivendicativa o tesa a creare movimenti di protesta, ma piuttosto che mira ad articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità.[18]
Il senso ultimo della sussidiarietà circolare è quello di consentire di passare dal modello bipolare di ordine sociale basato su Stato e Mercato a quello tripolare che accanto al pubblico e al privato pone, con pari dignità, il civile.
Come ha scritto il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf: «la democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile».
Jacques Maritain scriveva, inoltre, ne: L’uomo e lo Stato[19] per chiarire la distinzione tra società politica e società civile: «Il popolo è la moltitudine delle persone umane che riunite da una reciproca amicizia per il bene comune … costituiscono una società politica o un corpo politico… Il popolo è al di sopra dello Stato; il popolo non è per lo Stato, ma lo Stato invece è per il popolo».
Un ambito di applicazione pratica del principio di sussidiarietà è quello del nuovo modello di welfare: un modello che, ci ricorda sempre Zamagni, ha nel concetto di co-produzione il proprio pilastro portante.
Con l’avvento degli anni Duemila, nell’ambito del welfare, si apre infatti la c.d. “fase della co-produzione”, nota in letteratura come: “New Governance Model”. L’idea alla base di questo modello è quella di considerare il fruitore come un portatore di bisogni che non può essere spogliato degli attributi di cittadino. Il fruitore-cittadino, spiega ancora Zamagni, è un soggetto che può esprimere il suo punto di vista circa il servizio e coopera per l’individuazione delle soluzioni migliori. È questo, pertanto, il nucleo duro della sussidiarietà circolare.
La crisi sistemica del welfare state spiega l’interesse crescente per il welfare di comunità. In quest’ultimo, è l’intera società, e non solo lo Stato, che deve farsi carico del benessere di coloro che la abitano. Se è la società nel suo complesso che deve prendersi cura di tutti coloro che in essa vivono senza esclusioni, è evidente che occorre mettere in relazione i tre vertici del triangolo sociale: la sfera degli enti pubblici (stato, regioni, comuni, enti parastatali, ecc.), la sfera delle imprese, ovvero la business community, e la sfera della società civile organizzata (associazioni di vario genere, cooperative sociali, organizzazioni non governative, fondazioni). Questa, spiega Zamagni, è l’essenza della sussidiarietà circolare.
Inoltre il concetto di sussidiarietà circolare si nutre dell’abbandono del pessimismo antropologico che risale a Guicciardini, Machiavelli, Hobbes.[20] Secondo questo filone filosofico, che si contrappone sia al radicalismo sociale di Alinsky che al personalismo comunitario di Maritain, gli esseri umani sono individui opportunisti e autointeressati e non è pensabile che possano prendere in considerazione, nel loro agire, categorie i sentimenti morali come la reciprocità e il bene comune.
- Il divenire della Cisl: tra dimensione verticale e orizzontale
Il tema del rapporto tra dimensione verticale e orizzontale della rappresentanza può essere affrontato anche nel rileggere il modello organizzativo e strategico della Cisl, rispetto al quale ci viene in aiuto un intellettuale-sindacalista appartenuto alla Confederazione: Domenico Paparella.
Domenico Paparella (1947-2010) è stato operaio e militante sindacale all’Ansaldo di Genova, dirigente provinciale e nazionale della Fim Cisl e del sindacato unitario dei metalmeccanici Flm, direttore del Cesos (Centro di studi economici sociali e sindacali, promosso dalla Cisl), esperto, a livello internazionale, di relazioni industriali, con un’attenzione particolare alla partecipazione dei lavoratori. Ha scritto una nota,[21] molto importante, sull’evoluzione del modello organizzativo della Cisl poco prima che una particella di amianto, maledettamente respirata in gioventù, si risvegliasse nel suo corpo e ne causasse la morte prematura.
Scrive Paparella: «Il fondamento della rappresentanza della Cisl è costituito dalla categoria. Il patto fondativo della Cisl afferma che la nuova organizzazione sorge per impostare il movimento sindacale “sull’autogoverno della categoria esercitato nel quadro della solidarietà sociale e nelle esigenze generali del Paese”. La proposta di un sindacato fondato sulle categorie era già presente nel dibattito interno alla Cgil unitaria ed aveva visto la convergenza della corrente cristiana e componenti significative della corrente socialista, in particolare quelle che facevano riferimento all’allora segretario generale della Cgil unitaria, Bruno Buozzi».
Come è noto, la proposta della Cisl capovolse il paradigma organizzativo tipico della tradizione italiana che vedeva la rappresentanza del lavoro organizzata su base territoriale, con le Camere del lavoro.
Aggiunge lo scomparso sindacalista-intellettuale della Cisl: «La Cgil era allora alla ricerca di un ruolo sindacale d’opposizione e di classe. Questa collocazione politica presupponeva una politica rivendicativa fortemente centralizzata e una diffusa capacità di mobilitazione sociale quale espressione del radicamento dell’organizzazione nel territorio. La struttura territoriale consentiva l’affermarsi di questa concezione nella quale prevaleva la dimensione politica dell’azione sindacale – per sua natura centralizzata – e che determinava in periferia un rapporto con gli iscritti di tipo assistenziale, giudicata – da alcuni severi osservatori – da «ente parastatale».[22]
La scelta della Cisl rispondeva invece alla necessità di innovare la pratica sindacale su due aspetti fondamentali: da una parte, quello di sostituire il collante ideologico con una nuova concezione sindacale sulla quale costruire una prospettiva solidaristica tra i lavoratori e, dall’altro, sviluppare una struttura sindacale funzionale al nuovo ruolo del sindacato quale agente contrattuale.
La concezione della Cisl si arricchì e si articolò intorno all’idea centrale che assunse il sindacato come soggetto autonomo, non dipendente da altri attori politici e sociali, che vide nell’organizzazione per categoria lo strumento per la partecipazione, l’organizzazione, la mobilitazione e la tutela contrattuale dei lavoratori.
Scrive ancora Domenico Paparella: «Il nuovo sindacato cambia alla radice il rapporto di delega con il lavoratore: non più una delega ad una rappresentanza parapolitica, fondata su un’adesione ideologica, ma una delega fondata sulla domanda di tutela delle concrete condizioni di lavoro da realizzare con il metodo contrattuale. I lavoratori vengono sollecitati ad associarsi nella categoria, su base volontaria, per migliorare le proprie condizioni mediante la contrattazione collettiva».
La Cisl considera pertanto il controllo delle condizioni di lavoro centro della sua iniziativa e si sforza di tenere separata la contrattazione dall’azione politica generale.
Va riconosciuto, però, che, anche per ragioni pratiche e di radicamento nella rappresentanza, nel disegno organizzativo della Cisl, per tutti gli anni Cinquanta, e per buona parte degli anni Sessanta, le strutture orizzontali confederali sono chiamate ad esercitare un’azione di coordinamento e di promozione dell’insediamento delle strutture categoriali nell’ottica dell’interesse generale dell’organizzazione.
Tutto ciò porta ad un naturale contemperamento tra l’azione di categoria e il bene comune svolto dalle strutture orizzontali che si concretizza con interventi sulle politiche rivendicative – che debbono rispondere a criteri di compatibilità sociale ed economica – nella determinazione delle forme di azione che ciascuna categoria adotta quando coinvolgono gli altri settori e l’insieme dei cittadini.
Scrive Paparella: «La dimensione territoriale si focalizzava piuttosto sulla dimensione locale, sulle “Zone sindacali” come strumento di aggregazione nel territorio di tutti i lavoratori che operano in settori nei quali l’organizzazione fordista della produzione non ha trovato applicazione. Questa dimensione organizzativa si rivelò particolarmente vitale fra i braccianti ed i salariati agricoli, tra i coloni e i mezzadri, fra piccoli produttori e coltivatori diretti, tra i lavoratori edili, gli stagionali e gli artigiani».
Il rafforzamento del ruolo della dimensione territoriale in tutti gli ambiti si è verificato anche, a partire dagli anni Settanta del Novecento, attraverso l’attuazione del dettato costituzionale che prevedeva l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario con potestà legislative su alcune materie.
Nel contesto di quel dibattito emerse nel sindacato, come linea di azione politica prioritaria, quella dell’intervento nel territorio come conseguenza e sbocco del potere acquisito dal sindacato stesso nei luoghi di lavoro.
L’azione sindacale rispondeva alla necessità di promuovere un’azione collettiva esplicitamente rivolta a condizionare le decisioni e l’operato del Governo e delle istituzioni locali nelle scelte di sviluppo e nell’organizzazione dei servizi locali con l’intento di accrescere le opportunità di lavoro e la qualità della vita dei lavoratori e dei cittadini. Accanto a questi obiettivi politici emerse anche la necessità di estendere l’area della rappresentanza del sindacato agli strati marginali del mercato del lavoro che a quell’epoca cominciava a frammentarsi con l’apparire di figure di lavoranti a domicilio e di lavoratori dalle microimprese create dal decentramento delle imprese manifatturiere maggiori.
Approfondisce ancora l’ex Segretario generale del Cesos: «Le forze condizionanti del riassetto organizzativo necessarie per affrontare la nuova dimensione territoriale dell’azione sindacale non erano solo di tipo strutturale, legate alla segmentazione del mercato del lavoro o al proliferare delle piccolissime imprese: era viva nel sindacato la percezione che lo sviluppo aveva generato nuove disuguaglianze di tipo orizzontale, tra le diverse aree del Paese nella dotazione di servizi fondamentali quali la casa, la salute, i trasporti, ecc.»
Nella Cisl questo dibattito venne approfondito elaborando la nozione di “nuova confederalità”, che riassumeva l’idea di una strategia solidaristica da attuare nel territorio con il coinvolgimento delle categorie e, più tardi, anche dei servizi e dalle associazioni promossi dalla Confederazione.
Con particolare attenzione al Sud del Paese, si sviluppò poi nella Cisl la proposta di: “sindacato di popolo”, promossa da Bruno Manghi e Giuseppe Acocella presso il Centro Studi Cisl per il Mezzogiorno, prima a Spezzano della Sila e poi a Taranto. Tale proposta era volta a sollecitare la confederazione di Via Po a raccogliere le modalità (ancora visibili a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del Novecento) di organizzazione orizzontale (rispetto al primato indiscusso delle federazioni di categoria) che si andavano riscoprendo come una via “socialmente avanzata” di fare sindacato nel Mezzogiorno.
Guardando alla dimensione internazionale delle relazioni industriali, un fattore di crisi del sindacato categoriale organizzato su base settoriale è rappresentato dall’indebolimento dei confini merceologici che erano stati posti alla base dei criteri organizzativi.
Hanno contribuito a determinare questa nuova situazione i fenomeni di riorganizzazione delle imprese che, anche a seguito dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione, si sono diversificate mediante le acquisizioni di attività lontane dal loro core business. Queste trasformazioni hanno, tra l’altro, anche generato tensioni competitive tra le organizzazioni sindacali di categoria dei settori manifatturieri e quelle dei servizi.
Continua Paparella nel suo prezioso scritto: «Hanno contribuito a ridurre la capacità di sindacalizzazione della struttura categoriale l’instabilità e la frammentarietà delle carriere lavorative, particolarmente acuta al momento dell’ingresso al lavoro e che presentano numerose discontinuità nel corso della vita lavorativa. Anche l’incremento delle forme di lavoro temporaneo, che costituiscono ormai un elemento strutturale del mercato del lavoro dei Paesi occidentali, è fonte di indebolimento delle possibilità di sindacalizzazione dato che i lavoratori coinvolti in queste forme contrattuali hanno sempre minori probabilità di svolgere la loro carriera lavorativa nella stessa azienda o nello stesso settore».
Un altro importante studioso della Cisl, Aldo Carera, ha definito quella della Confederazione come: «l’elaborazione di un modello evolutivo del tutto originale che ha retto nel tempo a fronte del potente travaglio di un Paese rurale che diventava industriale e proseguiva poi su ulteriori vie».[23]
- Le sfide di oggi e di domani… Può nascere un sindacato “circolare”?
Va rilevato che il modello organizzativo della Cisl e del sindacato in generale deve oggi fare i conti con fenomeni di carattere strutturale, culturale, sociale e politico che ne insidiano la rappresentanza ed il radicamento e sfidano la sua capacità “cognitiva” nel tradurre in azioni coerenti i cambiamenti che intervengono nel contesto esterno e nel mondo del lavoro.
Come ha scritto un altro fondamentale intellettuale della Cisl, Guido Baglioni: «L’agenda sindacale è segnata dalla diversità: livelli di contrattazione, tendenza alla decentralizzazione, eterogeneità della forza lavoro, gestione nel mercato del lavoro nel territorio, partecipazione con forme e intensità diversa».[24]
Tornando al testo di Paparella e avvicinandoci alle conclusioni va ricordato che il problema che si pone al sindacato di origine “industriale”, in un contesto così frammentato, è quello di accrescere il suo contributo di “attore innovativo” degli equilibri sociali ed economici e dello sviluppo del Paese.[25]
Per delineare le possibili traiettorie evolutive dell’organizzazione, Paparella approfondisce sei aree di criticità e di opportunità che tendono a sollecitare e a mettere in discussione l’organizzazione della rappresentanza e che qui ci limitiamo a citare.[26] Per alcune di esse egli valutava possibile e auspicabile un apporto positivo, soprattutto nella ricomposizione di un nuovo welfare sussidiario, anche dall’ambito della bilateralità:
- la rispazializzazione dell’azione sindacale;
- le nuove rappresentanze;
- il decentramento istituzionale;
- il sistema di relazioni industriali e gli assetti contrattuali per il governo del mercato del lavoro;
- la tutela del cittadino lavoratore;
- la partecipazione alla governance.
Venendo alle soluzioni, Paparella propone, oltre alla ricomposizione della rappresentanza e della tutela contrattuale del lavoro standard e non standard in ambito territoriale in una logica intercategoriale, un rilancio della confederalità, espressa dalle strutture orizzontali e dalla loro capacità di creare “coalizioni sociali” per l’attuazione di efficaci politiche di welfare di comunità.
Un approfondimento dell’assetto plurisettoriale delle categorie deve corrispondere alle esigenze di governo dei processi di sviluppo e di regolazione delle condizioni di impiego per filiere economiche ampie, per le quali la capacità di intervento nelle politiche di sviluppo ai livelli nazionale ed europeo è strettamente connessa all’organizzazione della rappresentanza, all’assetto della contrattazione collettiva ed alle pratiche partecipative realizzate nelle imprese e nei territori.
La centrale confederale, infine, dovrebbe sempre più affermare la sua funzione di sintesi politica e culturale dell’organizzazione, di struttura in grado di produrre cultura e identità, di assicurare la rappresentanza di tutto il mondo del lavoro e di partecipare alla governance generale del sistema Italia nella dimensione europea.
Non un mero “sindacato di strada” quindi, ma una realtà di ricomposizione degli interessi e delle “condizioni oggettive” che permetta di includere nella rappresentanza anche coloro che sono ai margini del mercato del lavoro o impiegati nel “lavoro povero” e, rispetto ai quali, è sempre valida anche la lezione di Saul Alinsky e del community organizing.
Un sindacato del futuro, parafrasando la già ampiamente citata definizione di Stefano Zamagni sulla sussidiarietà, non più solo verticale ed orizzontale, ma anche e sempre più coraggiosamente: “circolare”.
D’altronde, come affermava Giulio Pastore, nel 1951 al primo Congresso nazionale della Cisl:
«Non abbiamo niente dietro di noi. Non partiti, non movimenti ideologici, non abbiamo neanche una tradizione (…) Dobbiamo creare tutto dal nuovo».
[1] G. Marcon (2024), Il sindacato nell’Italia che cambia, Roma, Edizioni e/o.
[2] V. Foa (2009), La Gerusalemme rimandata, Torino, Einaudi.
[3] P. Ferraris (2011), Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Roma, Edizioni dell’Asino.
[4] M. Lavia, Populismo sindacale. La Cgil di Landini è un metapartito a immagine e somiglianza del suo leader, in Linkiesta, 13 giugno 2025, https://www.linkiesta.it/2025/06/cgil-maurizio-landini-populismo-sindacato/
[5] G. Sateriale, Il referendum è la fine di un percorso, ora va aperta una riflessione sul futuro del sindacato italiano in Il Diario del Lavoro, 22 giugno 2025, https://www.ildiariodellavoro.it/il-referendum-e-la-fine-di-un-percorso-ora-va-aperta-una-riflessione-sul-futuro-del-sindacato-italiano/
[6] A. Coppola, M. Diletti (2020), Introduzione: “Comfort the affilcted and afflict the comfortable”, Saul Alinsky, un democratico radicale fra scienza della società, teoria del potere e pratica dell’azione collettiva, in A. Coppola, M. Diletti, a cura di, Radicali all’azione! Organizzare i senza-potere. Saul Alinsky, Roma, Edizioni dell’Asino.
[7] Per un approfondimento più ampio si veda: F. Lauria (2022), «Sì se puede!». César Chávez e la profezia praticata di organizzare i non organizzati. L’incontro con la Cisl e la Fisba in A. Coppola, F. Lauria, a cura di, Dobbiamo creare tutto dal nuovo. Il divenire della Cisl: fondamenti, incontri, esperienze, Roma, Edizioni Lavoro.
[8] Come già accennato, Obama fu community organizer nell’associazione creata da Alinsky per tre anni durante gli anni Ottanta del Novecento, curiosamente anche Hillary Clinton, nel 1969, svolse la tesi di laurea sul fondatore del community organizing.
[9] Sull’influenza di Maritain sulla cultura sindacale della Cisl si vedano: G. Acocella (2022), Il personalismo nella cultura sindacale della Cisl. Sulle tracce delle influenze di Maritain e Mounier, in A. Coppola, F. Lauria, Dobbiamo creare tutto dal nuovo. Il divenire della Cisl: fondamenti, incontri, esperienze, Roma, Edizioni Lavoro e F. Riva (2025), Un’idea di sindacato. Giulio Pastore e la Cisl, Roma, Edizioni Lavoro.
[10] Si veda B. Doering, L. D’Ubaldo (2011), Maritain e Alinsky: un’amicizia. La corrispondenza tra il filosofo cattolico e il teorico del radicalismo americano, Bologna, Il Mulino.
[11] S. Alinsky (1946), Reveille for Radicals, New York, A Division of Random House, Inc.
[12] Si tratta della prima iniziativa avviata nel 1939 da Alinsky nel quartiere nero più degradato di Chicago.
[13] Si veda anche P. Viotto (2008), Grandi amicizie. I Maritain e i loro contemporanei, Roma, Città Nuova, Roma.
[14] J. Maritain (1977), Il Contadino della Garonna, Brescia, Morcelliana.
[15] L. D’Ubaldo (2011), Maritain e Alinsky: oltre il dialogo, in B. Doering, L. D’Ubaldo, Maritain e Alinsky: un’amicizia. La corrispondenza tra il filosofo cattolico e il teorico del radicalismo americano, Bologna, Il Mulino.
[16] S. Zamagni, Dell’origine e del fondamento del principio di sussidiarietà orizzontale, Aiccon, Short Paper 23/2022, https://www.aiccon.it/wp-content/uploads/2022/03/SHORT-PAPER-23.pdf
[17] S. Zamagni (2008), Tracce di economia civile nel pensiero francescano della prima modernità, in P. Delcorno, a cura di, Politiche di misericordia tra teoria e prassi, Bologna, Il Mulino.
[18] S. Zamagni, Mercato, Stato, Società Civile in “Rivista di Teologia Morale”, 22, 1991, pp.301-312.
[19] J. Maritain (1953), L’uomo e lo Stato, Milano, Vita e Pensiero.
[20] Su questo si veda anche il recente volume: L. Pennacchi (2025), Nonostante Hobbes. Lavoro, antropologia, democrazia, Firenze, Castelvecchi.
[21] D. Paparella (2011), Il divenire della Cisl. Il modello organizzativo ieri, oggi e domani, in Cesos (a cura di), Domenico Paparella. Operaio, sindacalista, intellettuale, Roma, Edizioni Lavoro. Consultabile online all’indirizzo: https://www.centrostudi.cisl.it/wp-content/uploads/2025/07/Il-divenire-della-Cisl_paparella_ok.pdf
[22] M. Regini, E. Reyneri (1972), Introduzione a S. M. Lydset, M. A. Trow, J. S. Coleman, Democrazia sindacale, Milano, Etas Kompass.
[23] A. Carera (2003), Fare la Cisl. Una prospettiva storica, in «Quaderni della Fondazione Giulio Pastore», Roma Edizioni Lavoro.
[24] G. Baglioni (2004), Introduzione a Fare sindacato oggi. La regolamentazione della diversità, Roma, Edizioni Lavoro.
[25] Una riflessione interessante sui temi della “nuova confederalità” è stata realizzata dalla Cisl di Sondrio, basandosi sui fondamenti del pensiero strategico. Si veda ad esempio il bilancio sociale dell’organizzazione: https://www.sondrio.lombardia.cisl.it/wp-content/uploads/2025/04/140425-Presentazione-I-bilancio-sociale-CISL-Sondrio-Fin.pdf e l’articolo di Ilaria Urbani, Segretaria confederale della struttura, pubblicato su questa rivista: I. Urbani, Applicare il pensiero strategico al sindacato: l’esperienza della Cisl di Sondrio consultabile all’indirizzo: https://www.sondrio.lombardia.cisl.it/wp-content/uploads/2025/04/140425-Presentazione-I-bilancio-sociale-CISL-Sondrio-Fin.pdf . Per una riflessione generale sul pensiero strategico applicato alle organizzazioni si veda, sempre su questa rivista, il contributo di Antonella Spada: A. Spada, Abbracciare il cambiamento per forgiare il futuro in un mondo in transizione. La previsione strategica, uno metodo per strutturare il pensiero e l’azione, consultabile all’indirizzo: https://ilprogetto.fondazionetarantelli.it/orizzonti-sindacali/abbracciare-il-cambiamento-per-forgiare-il-futuro-in-un-mondo-in-transizione-la-previsione-strategica-uno-metodo-per-strutturare-il-pensiero-e-lazione/
[26] Per un approfondimento puntuale si rimanda al testo integrale di Domenico Paparella.