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laria Armaroli è Ricercatrice Senior Adapt. Dottoressa di ricerca in Formazione della persona e mercato del lavoro presso l’Università di Bergamo, tra le sue aree di competenza vi sono: relazioni industriali, contrattazione collettiva, partecipazione dei lavoratori, rappresentanza sindacale. Ha una notevole esperienza nel coordinamento della progettazione europea.

Raccontiamo subito la sua esperienza di giovane ricercatrice “catapultata” nel sindacato

È un’esperienza che, in parte, desideravo da tempo. Nel 2016, a circa un anno e mezzo dalla laurea e dal mio immediato ingresso in Adapt, sentivo la necessità di “toccare con mano” ciò che stavo studiando: avevo bisogno di sentire, vedere e sperimentare concretamente le dinamiche del mondo del lavoro e delle relazioni industriali.

La mia formazione accademica è in Scienze internazionali e diplomatiche, e solo marginalmente, grazie a un corso sulle relazioni industriali seguito all’Università di Lubiana durante l’Erasmus, avevo avuto modo di avvicinarmi ai temi sindacali. È stato solo dopo la fine degli studi, infatti, che ho iniziato ad approfondirli davvero.

L’occasione per calarmi nella realtà concreta mi è stata offerta dalla Fim Cisl di Brescia, un contesto territoriale e categoriale particolarmente vivace, sia sul piano dell’attività contrattuale in azienda che nelle relazioni intersindacali e con le controparti datoriali (per chi volesse approfondire il quadro delle relazioni industriali a Brescia, consiglio uno degli articoli che scrissi in quegli anni: parte di un “diario di viaggio” che pubblicavo periodicamente nel corso della mia esperienza bresciana).

È a quel periodo che devo la comprensione di molte dinamiche nei rapporti tra sindacato e impresa, tra lavoratori e rappresentanza, e tra le stesse organizzazioni sindacali. Ma soprattutto, è lì che ho maturato una profonda stima, ammirazione e rispetto per il lavoro quotidiano dei sindacalisti e delle Rsu: un lavoro spesso invisibile, ma che contribuisce in modo significativo a tenere insieme il tessuto sociale del nostro Paese.

Oltre alle competenze tecniche, ciò che ho davvero imparato è qualcosa di più profondo: l’amore per chi fa, con competenza e passione, relazioni industriali nei territori e nei luoghi di lavoro. È un bagaglio che porto con me ancora oggi e che spero di non dimenticare mai, perché lo considero fondamentale per svolgere il mio lavoro attuale. Non sarei la ricercatrice che sono, con la sensibilità e l’attenzione che ho oggi verso certi temi, se non avessi vissuto quell’esperienza. Forse mi sarei appassionata ad altro; non dico che sarei una ricercatrice peggiore, ma sicuramente sarei una ricercatrice diversa.

Inoltre, proprio l’impegno che, in quegli anni, la dirigenza della Fim Cisl di Brescia stava mettendo nel promuovere la partecipazione diretta dei lavoratori, ha fornito lo spunto per la mia tesi di dottorato, e tuttora rappresenta uno dei filoni centrali della mia ricerca, sia a livello nazionale che internazionale.

Dopo un anno trascorso a Brescia, dove ho affiancato gli operatori nell’analisi dei contratti aziendali e nelle attività di formazione e consulenza per il gruppo dirigente, ho proseguito per un altro anno presso la Fim Cisl Lombardia, nella sede di viale Fulvio Testi a Milano. Un’esperienza altrettanto interessante, seppur molto diversa da quella bresciana, che mi ha permesso di comprendere meglio il ruolo delle strutture regionali e il lavoro di coordinamento che esse svolgono.

Quali sono secondo lei le sfide e le priorità per un sindacato moderno?

Le sfide che oggi si pongono di fronte al sindacato sono numerose e complesse. Una delle principali riguarda la sua capacità di restare attuale e rilevante per categorie di lavoratori spesso poco intercettate: giovani, migranti, impiegati, professionisti, oltre ai lavoratori di settori tradizionalmente più difficili da sindacalizzare, come il terziario avanzato e i servizi sociali e alla persona. In questi ambiti, la frammentazione (e talvolta la remotizzazione) dei luoghi di lavoro, la natura “non standard” dei rapporti contrattuali, così come le caratteristiche delle relazioni con l’impresa (spesso fondate su fiducia e corresponsabilità) e con il contenuto del proprio lavoro (vissuto con forte senso di scopo e dedizione) rendono più difficile l’azione sindacale tradizionale.

A mio avviso, la sfida più urgente e imprescindibile – senza la quale diventa difficile affrontare efficacemente anche tutti gli altri temi che oggi interessano il sindacato, come la partecipazione, la produttività, la trasformazione digitale ed ecologica – è quella della rappresentanza. E, ancor prima, del risveglio di una dimensione collettiva, nonostante l’individualismo dominante nella società e nel mondo del lavoro. Si tratta di un nodo cruciale, non solo alla luce del declino demografico che stiamo attraversando, che riducendo il bacino della forza lavoro rischia di compromettere, nel medio-lungo periodo, la stessa presenza e incisività del sindacato. Ma anche in considerazione delle difficoltà delle forze politiche e sociali tradizionali nel dare risposte efficaci ai crescenti bisogni di sicurezza economica e sociale. Una carenza che ha alimentato, in Italia come altrove, l’emersione di idee, movimenti e partiti populisti, capaci di minare la legittimità delle istituzioni democratiche e, in un circolo vizioso, di indebolire ulteriormente il ruolo e il valore del sindacato nella nostra società.

È quindi necessario immaginare nuove modalità di fare sindacato, sperimentare pratiche “fuori dagli schemi”, capaci di raggiungere anche i lavoratori più restii o marginalizzati, e di convincerli del valore dei legami comunitari e della rappresentanza, come risposta alle incertezze del presente, in contrapposizione alle pulsioni individualistiche, alla chiusura e all’ostilità verso presunti colpevoli. Serve inventare nuovi modelli di organizzazione e rappresentanza, replicabili e sostenibili, che possano anche condurre, auspicabilmente, a una revisione delle attuali regole sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro. Regole che, oggi, non sempre consentono un adeguato presidio sindacale nei contesti più piccoli, dai confini organizzativi incerti e con una forza lavoro spesso instabile.

In questo processo di rinnovamento, possono giocare un ruolo fondamentale le relazioni e le partnership non solo tra sindacati di diverse categorie (anche grazie a un eventuale ruolo di coordinamento della Confederazione), ma anche tra sindacati di Paesi diversi, alle prese con sfide simili o complementari. Il confronto e la collaborazione a livello interterritoriale, intercategoriale e internazionale possono diventare motori preziosi di innovazione e di apprendimento reciproco.

Attingendo dai suoi studi anche internazionali, è davvero il tempo della partecipazione dei lavoratori?

Se la domanda è se oggi siamo pronti ad attuare concretamente la partecipazione nei luoghi di lavoro, la risposta – ahimè – è in gran parte negativa, fatta salva qualche eccezione rappresentata da realtà che già la stanno sperimentando in modo efficace (con ADAPT stiamo mettendo insieme queste pratiche in un nuovo Osservatorio sulla partecipazione). A confermare questa difficoltà è anche il percorso parlamentare che ha portato all’approvazione della legge 76/2025 sulla partecipazione dei lavoratori: una legge che, se da un lato merita di essere accolta positivamente per il suo potenziale valore culturale, dall’altro è stata oggetto di emendamenti significativi durante l’esame alla Camera dei Deputati. Inoltre, il dibattito che l’ha accompagnata ha mostrato come siano ancora forti le contrapposizioni ideologiche e le rigidità da parte di attori sindacali e politici, spesso poco disposti a mettersi in discussione o a valutare in modo concreto cosa sia davvero la partecipazione dei lavoratori e quali benefici possa generare.

Se però mi chiedi se viviamo oggi in un contesto che ha bisogno della partecipazione dei lavoratori, allora la risposta è senza dubbio affermativa: e le trasformazioni che stiamo attraversando lo rendono ancor più evidente. Ma in realtà avrei risposto affermativamente anche qualche anno fa, e credo che continuerò a farlo anche in futuro. La partecipazione dei lavoratori ha infatti una valenza universale e duratura, indipendente dal contesto specifico: ci sarà sempre la necessità di coinvolgere i lavoratori nelle decisioni che li riguardano, prima che queste producano i propri effetti.

È molto più efficace, infatti, costruire insieme – azienda e rappresentanza – i percorsi di sviluppo, piuttosto che intervenire solo dopo, per tentare di limitare gli eventuali impatti negativi di decisioni già prese. Decisioni che, peraltro, se non riescono a ottenere il consenso dei lavoratori e a generare benefici anche per loro, sono spesso destinate a non durare e a risultare controproducenti anche in termini economici.

Il tempo in cui i lavoratori devono avere più voce sulle scelte che li coinvolgono è già qui. E oggi, magari proprio a partire da questa nuova legge, potrebbe essere il momento giusto per promuovere in modo più diffuso azioni di formazione, sperimentazione e condivisione su questi temi.

C’è davvero bisogno di sporcarsi le mani, di scendere concretamente in campo per capire come permettere alla partecipazione di esprimere tutto il suo potenziale. Un potenziale che la ricerca scientifica ha ormai dimostrato da anni, ma che ha bisogno di essere tradotto in pratiche reali. Servono più esperienze concrete anche in Italia, e servono rappresentanti aziendali e sindacali capaci non solo di leggere le casistiche esistenti, ma anche di trasformarle in indicazioni operative e in sperimentazioni su scala più ampia. Solo così la partecipazione potrà diventare una leva strutturale di sviluppo, innovazione e democrazia nei luoghi di lavoro.

La ricerca, anche a livello internazionale (e su questo vi rimando al progetto BroadVoice che vede ADAPT collaborare con Cisl e Fondazione Tarantelli, oltre che con altri partner in Europa), mostra che per attuare efficacemente la partecipazione dei lavoratori, la definizione di norme legali o contrattuali potrebbe non essere sufficiente. La partecipazione richiede l’impegno concreto degli attori coinvolti a collaborare per l’implementazione delle procedure previste dalle leggi o dai contratti collettivi. Per rendere possibile questo impegno, è necessario fornire alle parti interessate risorse adeguate, sia materiali che cognitive: dalla promozione della rappresentanza nei luoghi di lavoro, alla formazione, alla consulenza, fino al sostegno finanziario.

Accanto alle norme giuridiche e contrattuali, è dunque indispensabile l’azione strutturata delle forze intermedie (organizzazioni sindacali, associazioni datoriali ed enti pubblici) capaci di coprogettarenon semplici incentivi o interventi occasionali, ma programmi organici e integrati a supporto della partecipazione nei contesti aziendali.

Quali priorità per la difesa e lo sviluppo della contrattazione collettiva?

Forse rischio di ripetermi, ma una priorità fondamentale – tanto per garantire una copertura effettiva della contrattazione collettiva nazionale più rappresentativa, quanto per favorire l’estensione della contrattazione di secondo livello – è la promozione della rappresentanza nei luoghi di lavoro. Da qui passa non solo la forza e l’efficacia dell’azione contrattuale, ma anche l’effettiva applicazione dei contratti collettivi e, per tornare alla questione precedente, la concreta attuazione della partecipazione dei lavoratori.

È certamente essenziale poter contare, a livello nazionale, su soggetti negoziali autorevoli e competenti, in grado di definire contenuti contrattuali di qualità e di riferimento per l’intero sistema. Tuttavia, queste conquiste rischiano di restare fragili e di avere vita breve se non sono supportate da una rete solida di rappresentanza sindacale nei territori e nei luoghi di lavoro. Solo una presenza capillare può garantire l’effettività dei diritti, contrastare fenomeni distorsivi come il lavoro nero e arginare la diffusione di contratti “pirata” che minano alla base la qualità e la dignità del lavoro.

Inoltre, presidiare i luoghi di lavoro (quali essi siano: virtuali o fisici, fabbriche, campagne, uffici, scuole o negozi) consente alla rappresentanza di conoscere a fondo i bisogni delle persone, analizzarli e portarli a sintesi, delineando agende e piattaforme contrattuali (tanto a livello nazionale quanto – auspicabilmente sempre di più – a livello decentrato) realmente coerenti con le richieste del tessuto sociale. La presenza quotidiana di attori e pratiche di relazioni industriali nei luoghi di lavoro rappresenta anche un esercizio concreto di democrazia: educa alla partecipazione alla vita politica e sociale, rafforza la consapevolezza dell’importanza della dimensione collettiva e della rappresentanza sindacale, non solo per l’avanzamento dei diritti e delle condizioni di lavoro (che alcuni potrebbero ritenere di poter ottenere individualmente), ma anche per il benessere complessivo delle persone e la loro realizzazione nel percorso professionale e di vita.

Senza un reale radicamento della rappresentanza nei contesti di lavoro, senza una sua effettiva presa tra i lavoratori, non credo sia possibile garantire l’effettività della contrattazione collettiva né difenderne la legittimità e il valore all’esterno. A questo fine, sono necessarie azioni formative capillari da parte delle organizzazioni sindacali, rivolte ai propri operatori e delegati, incentrate sulle strategie di organizzazione, rappresentanza e coinvolgimento attivo delle persone.

Se poi guardiamo al sostegno della contrattazione nazionale, è altrettanto fondamentale anche la tenuta della capacità rappresentativa delle associazioni datoriali.

Un augurio e un auspicio in vista del Congresso nazionale Cisl…

Auguro alla Cisl, innanzitutto, di avere il tempo e le risorse necessarie per studiare e analizzare a fondo il presente, così da poter formulare i propri obiettivi in modo ragionevole e fondato. E, a partire da questa consapevolezza, di saperli comunicare con chiarezza, senza cedere alla tentazione di soluzioni semplicistiche pensate per ottenere un facile consenso. La vera sfida è riuscire a rendere accessibile la complessità, senza svilirla, e costruire un consenso consapevole e duraturo tra i lavoratori, basandosi su una visione solida, credibile e lungimirante.